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(tratto da: “In the Manner of Water or Light”, raccolta di racconti di Roxane Gay, giornalista e scrittrice. Trad. Maria G. Di Rienzo)

Water Light

Mia madre fu concepita in quello che sarebbe diventato il Fiume Massacro. L’odore pungente del sangue l’ha seguita sin da allora. Quando si trasferì negli Stati Uniti, lesse il dizionario da cima a fondo. Il suo vocabolario divenne vasto velocemente. La sua parola preferita è “soffuso”, il diffondersi alla maniera dell’acqua o della luce. Quando tenta di spiegare come è tormentata dall’odore del sangue, dice che i suoi sensi sono “soffusi” di esso.

Mia nonna stette con mio nonno per meno di un giorno.

Tutto quel che so della storia della mia famiglia, lo so a frammenti. Siamo custodi di segreti. Siamo segrete noi stesse. Tentiamo di proteggerci l’un l’altra dalla geografia di così tanto dolore. Non so se ci riusciamo.

Da giovane, mia nonna lavorava in una piantagione di canna da zucchero a Dajabón, la prima città sul confine tra Haiti e Repubblica Dominicana. Viveva in una baracca con cinque altre donne, tutte estranee, e dormiva su un materasso di paglia sotto cui teneva il suo rosario, un medaglione con l’immagine dei suoi genitori e una foto di Clark Gable. Parlava poco lo spagnolo, perciò se ne stava per conto proprio. Le sue giornate erano lunghe e sotto il sole cocente la sua pelle bruciò sino a diventare ebano, e i suoi capelli si schiarirono sino a diventare bianchi. Quando tornava alle baracche alla fine di ogni giornata, percepiva il modo in cui la gente la guardava e mormorava. Erano terrorizzati dall’assenza di luce attorno a lei e in lei. Pensavano fosse un demone. La chiamavano la demonia negra.

Dopo aver detto le sue preghiere, dopo aver vagheggiato di Port-au-Prince e di pigri pomeriggi sulla spiaggia e del cinema doveva aveva visto “L’ammutinamento del Bounty”; dopo aver immaginato il caldo abbraccio di Clark Gable, mia nonna faceva a pezzi i suoi vestiti vecchi, riducendoli a lunghe strisce per poter fasciare meglio i tagli e i graffi che si buscava durante la lunga giornata nei campi di canna da zucchero. Dormiva un sonno senza sogni, che serviva a raccogliere il coraggio di cui avrebbe avuto bisogno per svegliarsi la mattina dopo. In un tempo differente, era stata amata dai suoi genitori e aveva vissuto una vita decente, ma quando costoro erano morti si era trovata senza nulla e come molti haitiani aveva attraversato il confine nella speranza che la sua fortuna cambiasse.

Mio nonno lavorava nella stessa piantagione. Era un lavoratore indefesso, un uomo alto e forte.

Mia nonna, quando di notte non riesce a dormire, siede con un bicchiere di rum e coca cola, e parla di come le sue mani ricordano le corde spesse di muscoli nelle spalle e nelle cosce di lui. Il suo nome era Jacques Bertrand. Avrebbe voluto fare cinema. Aveva un sorriso smagliante che lo avrebbe reso una star.

Anche mia nonna è tormentata dagli odori. Non può sopportare l’odore di nulla di dolce. Se annusa dolcezza nell’aria chiude strette le labbra e si succhia i denti, scuotendo la testa. Non può sopportare neppure la vista di campi di canna da zucchero. Quando li vede, un dolore acuto le si irradia dalle spalle lungo tutta la schiena. Il suo corpo non riesce a dimenticare le fatiche che ha conosciuto.

Oggi, il Fiume Massacro è basso abbastanza da essere attraversato a piedi, ma nell’ottobre del 1937 le acque di quello che era il Fiume Dajabón correvano forti e profonde. I disordini duravano da giorni: soldati dominicani, determinati a spazzar via dal loro paese la piaga haitiana andavano da piantagione a piantagione con furia omicida. Mia nonna fece la sola cosa che poteva fare, bruciata dal lungo giorno nei campi, il tempo segnato dall’alzarsi e dall’abbassarsi del suo machete: pregò che i guai la evitassero.

Fu il generale Rafael Trujillo che ordinò di buttar fuori tutti gli haitiani dal suo paese, che disse ai soldati di interrogare chiunque avesse la pelle troppo scura, chiunque apparisse come proveniente dall’altro lato del confine. Era il generale che prese una pagina del Libro dei Giudici per esaltare il genocidio da lui compiuto e che portò l’industria tedesca nella sua isola.

I soldati arrivarono alla piantagione dove mia nonna lavorava. Avevano fucili. Erano crudeli, parlavano in toni alti e arrabbiati, si prendevano libertà. Una delle donne con cui mia nonna divideva la baracca la tradì, rivelando dov’era nascosta. Non parliamo mai di quel che accadde subito dopo. I dettagli orrendi sono intrappolati tra i frammenti della nostra storia familiare. Noi stesse siamo segreti.

Mia nonna finì nel fiume. Trovò un posto dove l’acqua era abbastanza bassa. Tentava di trattenere il respiro, mentre si nascondeva dai soldati che pattugliavano ambo le rive fangose del fiume. Ci fu un momento in cui giacque sulla schiena, immergendosi sino ad essere interamente coperta d’acqua, soffusa nei pori della sua pelle. Non si sollevò a respirare sino a che il ronzio nelle orecchie divenne insopportabile. La luna era alta e la notte era fredda. Odorava sangue nell’acqua. Indossava solo un vestito leggero che le si era incollato addosso. Aveva i piedi nudi. Quando un cadavere gonfio la oltrepassò fluttuando, e poi un braccio, e una gamba, e qualcosa che non riuscì a riconoscere, si coprì la bocca con la mano. Urlò all’interno della propria pelle, invece che al vuoto attorno a lei.

Il fiume oggi

Il fiume oggi

Jacques Bertrand, che lavorava sodo e voleva fare cinema, trovò la propria strada per il fiume. Si mosse nell’acqua sino a che trovò mia nonna. Le batté la mano sulla spalla e lei, invece di fuggire, si voltò e aprì quella parte di sé che non era intorpidita dal terrore. Trovò conforto nella paura che gli occhi di lui riflettevano a specchio. Aveva il petto nudo e lei premette la guancia sul suo sterno. Rallentò il respiro per pareggiarlo a quello di lui. Ascoltò il battito del suo cuore che echeggiava fra le costole della cassa toracica. “Ho pensato che fosse un angelo. – mi disse – Un angelo venuto a portarmi via da quel posto scuro e terribile.”

I miei nonni si strinsero l’uno all’altra tremando violentemente. Jacques Bertrand, stringendo le braccia attorno a mia nonna, le raccontò la storia della sua vita in un sussurro balbettante. “Voglio essere ricordato.”, le disse. Lei seguì in punta di dita il tessuto cicatriziale che formava ponti sulla schiena di lui, gli accarezzò il mento con i pollici, e gli sfiorò le labbra con le sue: “Sarai ricordato.”, gli rispose. Gli raccontò a sua volta la storia della sua vita. Anche lei chiese di essere ricordata.

Mia nonna sente ancora le grida dei morenti di quella notte. Ricorda il suono sordo, umido, dei machete che si fanno strada fra la carne e le ossa. L’unica cosa che azzittiva quegli orrori era un uomo che lei aveva visto, ma di cui non conosceva i ponti di cicatrici sulla schiena. Non conosco i dettagli intimi, ma mia madre fu concepita. Al mattino, circondati dal puzzo e dal silenzio della morte, i miei nonni strisciarono fuori dal fiume che, durante la notte, era diventato una bara liquida che conteneva 25.000 cadaveri. Il Fiume Massacro si era guadagnato il suo nome.

I due, zuppi e sgocciolanti, con i corpi irrigiditi e febbricitanti, arrivarono a Ouanaminthe. Erano a casa. Erano molto distanti da casa. Cercarono rifugio in una chiesa abbandonata, ma quando la notte cadde di nuovo i soldati dominicani attraversarono il confine ed entrarono a Ouanaminthe, un luogo a cui non appartenevano. Mio nonno fu ucciso. Salvò la vita di mia nonna lottando contro tre soldati, creando un varco attraverso cui mia nonna potesse fuggire.

Jacques Bertrand era morto volendo essere ricordato, perciò mia nonna restò in quel posto di dolore, e trovò lavoro come domestica per il direttore di una scuola elementare. La notte dormiva in una delle classi vuote. Mise al mondo mia madre e più tardi sposò il direttore della scuola che crebbe mia madre come fosse sua. La notte, mia nonna portava mia madre al fiume e le raccontava del modo in cui era stata portata all’esistenza. Mia nonna si inginocchiava sulla riva, le sue ossa affondate nel fango, mentre portava manciate d’acqua alle labbra. Beveva i ricordi, in quell’acqua.

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(Masum Momaya per AWID intervista Tonya Haynes, 6.7.2012. Tonya è la coordinatrice dell’associazione femminista Code Red alle Barbados. Di recente ha organizzato un incontro di giovani femministe provenienti da tutti i Caraibi di cui si parla nel testo che segue. Trad. Maria G. Di Rienzo)

AWID: Il nome della conferenza era “Prendi fyah – Radicamento femminista”. Qual è l’origine di questo titolo e cosa esattamente significa “radicamento”?

Tonya Haynes (TH): Il concetto di “radicamento” è caraibico. Si riferisce al potenziale rivoluzionario dell’essere capaci di andare ovunque a sedersi con le persone e parlare delle loro vite. Questo tipo di condivisione e apprendimento è cruciale per la trasformazione sociale. Noi abbiamo sentito la necessità di incontrarci fra femministe caraibiche, provenienti da nazioni ed etnie diverse e con differenti retroscena religiosi, per condividere le nostre esperienze ed imparare le une dalle altre. “Radicamento” dichiara la nostra intenzione di andare alla radice di ciò vogliamo veder cambiare nelle nostre società, ma è anche la sorgente della nostra forza collettiva. Significa dar valore in se stesse alle azioni dello stare insieme, del parlare e dell’ascoltare.

Il fyah, o fuoco, a cui ci riferiamo parla di passione ed energia, dell’accendere la nostra immaginazione per trovare soluzioni creative alle sfide che ci troviamo di fronte. Non ci siamo incontrate per parlare solo dei torti che le donne subiscono e di come le donne siano negativamente investite da questo o quello, rischiando il vittimismo. Il femminismo caraibico che abbiamo in mente è una piattaforma che ci permette di maneggiare tutta una serie di istanze e la fonte della forza collettiva che possiamo usare per essere agenti del cambiamento. Una delle partecipanti lo ha descritto così:

Il fuoco, fyah, sarà il carburante di questo movimento. Fuoco per spazzare via le rappresentazioni scorrette del femminismo e dare ad esso luce nelle piattaforme per la giustizia sociale di cui abbiamo bisogno nelle nostre comunità e nazioni, e nella nostra regione. Fuoco per infiammarci e motivarci a parlare delle nostre convinzioni, entrare nei dibattiti e contare le une sulle altre per avere sostegno. Il fuoco aprirà la via e ci ricorderà di restare connesse, di rimanere amanti, di continuare a scrivere e di non dimenticare mai il tempo che abbiamo trascorso insieme. Il fuoco si assicurerà che noi si rimanga indignate rispetto alle ingiustizie e farà muovere in avanti il movimento.

AWID: Chi è venuta e qual era lo scopo dell’incontro?

TH: La conferenza ha messo insieme 24 giovani femministe caraibiche impegnate in organizzazioni di donne, di giovani e di persone LGBT. Siamo venute da Antigua e Barbuda, Belize, Barbados, Bahamas, Guyana, St. Kitts-Nevis, Haiti, St. Lucia, St. Vincent, le Grenadine e Grenada.

Due cose erano importanti per noi: 1) l’attivismo femminista a livello regionale sulla salute sessuale e riproduttiva che può trarre alimento dalla revisione operativa di ICPD+20 (Nota della traduttrice: Trattasi del programma d’azione della Conferenza Internazionale su Popoli e Sviluppo. L’accordo siglato a Il Cairo nel 1994 prevedeva una durata dell’iniziativa pari a vent’anni, ma poiché essi stanno rapidamente giungendo a conclusione e molti obiettivi non sono stati raggiunti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha deciso un prolungamento ed appunto una revisione operativa di cui le NU discuteranno nel 2014.); 2) la mobilitazione femminista nella regione.

Vogliamo diventare parte di quel lavoro cui negli anni ’70 ed ’80 diedero inizio femministe caraibiche come Andaiye e Peggy Antrobus, che ci hanno fatto visita durante l’incontro.

AWID: Molte di voi hanno scritto dell’incontro in poesia oltre che in prosa. Anche del Forum di aprile 2012 di AWID alcune femministe dei Caraibi hanno scritto in poesia. Che posto ha la poesia nel femminismo caraibico?

TH: L’uso di poesie, disegni, canzoni e danze durante il nostro incontro era deliberato: ci è servito a ricordarci di onorare tutti gli aspetti di ciò che siamo. Una delle partecipanti è ingegnere meccanico, ma allo stesso tempo danzatrice, creatrice di filmati artistici e attivista comunitaria. Noi portiamo nel femminismo tutto quel che siamo e, nel farlo, stiamo cambiando il volto del femminismo nella regione.

AWID: Quali sono le istanze comuni che le giovani donne caraibiche si trovano davanti?

TH: Un modo per riassumerle è riflettere su donne e cittadinanza. Tracey Robinson, femminista giamaicana e studiosa di diritto, sottolinea che non solo le donne sono considerate cittadine di seconda classe, ma che la cittadinanza stessa è considerata secondaria per le donne. Le giovani sentono il peso di questa concezione della cittadinanza ancora di più: le giovani donne non sono considerate un soggetto politico. Ciò ha implicazioni sul loro status economico, sui loro diritti di salute sessuale e riproduttiva e sulle loro esperienze di molestie e violenza di genere.

AWID: E le differenze quali sono?

TH: I Caraibi non costituiscono uno spazio omogeneo. Ci sono diseguaglianze all’interno dei paesi e tra i paesi. Una delle partecipanti al nostro incontro, haitiana, ci ha ricordato che dopo il terremoto ad Haiti il crescente numero di organizzazioni non governative all’opera non ha prodotto risultati: la situazione sta invece peggiorando. Lei ha insistito sul fatto che non si può lavorare sui diritti di salute sessuale e riproduttiva se non si affrontano la necessità di migliorare lo status economico delle donne e le diseguaglianze geopolitiche che ne peggiorano le esistenze.

AWID: Che esempi ci sono nella regione per le giovani donne caraibiche che vogliano organizzarsi?

TH: Ci sono lezioni da apprendere da tutti i tentativi di mobilitazione femminista nella regione, inclusi quelli che hanno fallito e che sono in fase di stallo. Noi abbiamo deciso all’unanimità che abbiamo bisogno di dialogo fra le generazioni. Dobbiamo imparare dalle sfide e dai successi di organizzazioni di lungo corso come Red Thread (Filo Rosso) della Guyana, o il Collettivo Teatrale Sistren della Giamaica. Vogliamo anche imparare dai gruppi di più recente formazione, come l’Organizzazione produttiva per le donne in azione del Belize, che sta facendo lavoro trasformativo nelle comunità.

AWID: Che domande sono scaturite dall’incontro?

TH: In effetti ci siamo separate con più domande che risposte, e ciò dimostra che la conferenza è stata un successo! Che spinta iniziale diamo al movimento? Come affrontiamo la questione dei privilegi e come costruiamo un movimento inclusivo? In che modo ci diamo sostegno l’un l’altra? Qual è la piattaforma migliore per la mobilitazione femminista a livello regionale? Che risorse abbiamo già e come le utilizziamo?

AWID: E gli obiettivi?

TH: Abbiamo intrapreso immediatamente passi concreti in relazione ai nostri due obiettivi principali non appena l’incontro si è concluso. Ci siamo anche assunte la responsabilità di portare il fuoco-fyah alle nostre comunità e nazioni durante un evento annuale, e di documentarlo e condividerlo in tutta la regione. Stiamo rifinendo strategie e obiettivi a lungo termine e discutendo su come rendere il nostro lavoro sostenibile. Ci stiamo anche muovendo online per creare la rete “Prendi fuoco – Femminismo caraibico”.

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Attualmente vi sono circa 27 milioni di schiavi, nel mondo, la cifra più alta della storia umana (sì, sono di più persino rispetto al periodo in cui gli africani sono stati trafficati in Europa). Qualche anno orsono (2008) un giornalista decise di fare da sé la prova: era vero che si poteva comprare bambini con facilità assurda? Così si imbarcò su un volo per Haiti e per avere una bimba di 10 anni ci mise 150 dollari di denaro e dieci ore di tempo. Haiti è la sede di una forma di schiavitù che nasce dalla disperazione a livello economico. Non riuscendo a dar da mangiare ai propri figli, i genitori li danno ad altre famiglie, sperando che esse offriranno ai piccoli più di quanto loro possano. Ma nelle nuove famiglie i bambini sono schiavi, o restavèk (letteralmente “stare-con”), lavorano come domestici dall’alba al tramonto, non vanno a scuola e non vengono nutriti adeguatamente, e troppo spesso si abusa di loro a botte o stupri. I restavèk haitiani sono circa 300.000: la maggioranza sono bambine e a volte non hanno più di quattro o cinque anni. Quella che segue è la storia di una di loro, Helia Lajeunesse.

Maria G. Di Rienzo

Mia madre morì quando avevo sette mesi, così fu mia nonna a prendersi cura di me, ma morì anche lei quando avevo cinque anni. I miei parenti non avevano i mezzi per mantenermi e mi diedero via come restavèk. In quella famiglia io ero la prima ad alzarmi e l’ultima ad andare a dormire. Qualsiasi lavoro ci fosse da fare, dovevo farlo io. Alle 4 mi alzavo per accendere il fuoco e cucinare il cibo, ma non mangiavo nulla di quel che cucinavo, ai miei pasti dovevo provvedere da me elemosinando per strada. Andavo a prendere l’acqua e la portavo per chilometri sulla testa venendo giù dalla montagna. Sulla testa portavo anche il cibo alla loro figlia, a scuola. Loro mi picchiavano spesso sulla testa.

Un giorno, tornando dalla commissione per la figlia, vidi una nuova capanna di paglia lungo la strada, e là c’era un uomo che insegnava gratuitamente ai bambini. “Vieni anche tu.”, mi disse. E io risposi: “Non posso, la zia (termine usuale per indicare la padrona) mi picchierà se lo faccio.” L’uomo insisteva, così andai. Arrivata a casa dissi: “C’era un uomo che insegnava, sono andata a imparare anch’io.” E la zia disse: “Cosa? Sei andata a scuola?” Io risposi: “Sì, e potrei avere una piccola matita e un blocco note, per favore?” Lei mi picchiò tanto che non tornai più alla capanna. Non ho imparato a leggere e scrivere sino a che non sono diventata adulta.

Quando avevo nove anni la figlia si fece male a scuola, cadendo, e si ferì ad un ginocchio. Io dissi a sua madre cos’era accaduto, e lei chiamò la polizia. Passai tutto il giorno nella prigione della stazione di polizia. I vicini di casa però continuavano a dire alla zia: “Perché fai questo? Tua figlia è semplicemente caduta. Non dovresti rovinare quella bambina.” Così venne a liberarmi. Sono scappata tre volte, da bambina, e per due volte ho cambiato padroni, ma le mie condizioni non sono migliorate. Ero sempre meno di un animale, per loro.

Fu un giovanotto a portarmi via, una brava persona, l’uomo che ho sposato. Mi portò a Port-au-Prince dove avevamo una piccola stanza in cui stare insieme. Ma poi arrivarono i bambini, cinque, ed eravamo molto poveri. Nel 2004 una banda di delinquenti fece irruzione in casa nostra. Stuprarono me e la mia figlia più grande. Mio marito tentò di difenderci e loro lo portarono via. Non so che fine abbia fatto. Non l’abbiamo più visto da allora, crediamo che lo abbiano ucciso. Mia figlia restò incinta a causa dello stupro, così alla fine dovevo provvedere da sola a cinque figli e al nipote. Non ce l’ho fatta. Ho dato via come restavèk quattro di loro, anche se la più piccola aveva solo tre anni. Ho tenuto l’ultimo nato, perché allora non aveva neppure un anno. Non sono ancora riuscita a riaverli tutti con me. Un figlio e una figlia non vogliono vivere con me perché uno degli assassini del loro padre risiede tranquillamente nel mio stesso quartiere e loro hanno paura che cercherà di ucciderli se li vede. Ed ho una figlia, oggi diciottenne, che è ancora restavèk. Il cuore mi si spezza ogni volta in cui penso a lei. So che non la trattano bene. So che non è mai andata a scuola.

E’ stato in uno di questi momenti di disperazione che ho incontrato KOFAVIV (Commissione delle donne – Vittime per le Vittime). E’ un gruppo composto da donne che sono state violentate e che erano restavèk. Mi hanno sostenuta, mi hanno abbracciata e non mi hanno più lasciata andare. Grazie a loro ho ottenuto assistenza medica e psicologica. Grazie a loro ho capito che non potevo arrendermi, che non era tutto finito.

Per la mia intera vita mi sono detta: “Le cose cambieranno, devono pur cambiare.” Oggi ci aggiungo anche: “La schiavitù deve finire, deve essere fuorilegge, e io devo riportare a casa tutti i miei figli.” Faccio un mucchio di cose con KOFAVIV. Lavoriamo con le vittime per aiutarle a ricostruirsi una vita. Cerchiamo di aiutare i bambini restavèk affinché non si lascino andare. Abbiamo aperto una scuola a Martissant dove i bimbi che non hanno padre o madre, o che sono cresciuti come schiavi, possono studiare. Addestriamo i più grandi con corsi professionali.

Un’altra cosa che facciamo è cercare di aumentare il livello di consapevolezza di chi ha bambini restavèk in casa (ma spesso, ve lo dico io, chi maltratta i bambini schiavi maltratta anche i propri). Creiamo un’atmosfera rilassata, raccontiamo storie buffe, improvvisiamo del teatro… tutto per aiutarli a capire questo: la bambina o il bambino che ti sei portato in casa è un essere umano. Andiamo a parlare anche con le famiglie povere, a spiegare che non faranno un favore ai loro figli dandoli via come schiavi. Cerchiamo di aiutarli a tenere i loro bambini. E diciamo ai vicini di casa che hanno delle responsabilità: “Se sapete che una famiglia sta abusando di un bambino,” diciamo loro, “bussate alla porta e parlate con quelle persone. Dite loro di non picchiarlo. Dite loro che è un essere umano e che devono trattarlo da tale. E se dopo due o tre volte non capiscono, allora andate a parlarne con la polizia.”

Abbiamo tenuto una marcia contro la schiavitù a Port-au-Prince e sono venute migliaia di persone. Portavamo delle magliette con su scritto: “Io sono contraria al sistema restavèk. E tu, cosa stai aspettando?” Stiamo vedendo grandi risposte al nostro lavoro. Non voglio dire che al 100% tutti ora siano consapevoli di quanto sbagliata sia la schiavitù, ma almeno il modo in cui trattano i bambini cambia. Per esempio, c’era questa zia che picchiava la piccola restavék a sangue. L’abbiamo incontrata, abbiamo parlato, l’abbiamo invitata alla marcia. E lei è venuta, ha portato il marito e la piccola schiava. La bambina dormiva di solito in cucina, su un pezzo di cartone. Non le hanno ancora dato un letto, ma almeno coperte pulite in cui può avvolgersi. La lasciano andare ogni tanto a casa dai suoi genitori. La mandano a scuola. Noi abbiamo chiesto alla piccola: “Come va con la zia, adesso?” Lei ha risposto: “Non mi picchia più. A volte gioca con me.”

Finirà. E’ una lotta enorme, ma la schiavitù finirà. Come io ho imparato a parlare e a lottare, altre stanno imparando. E anche voi, dall’estero, dateci una mano. Aiutateci con il vostro coraggio e le vostre idee. Aiutateci a restare ferme e forti nei nostri propositi. Helia Lajeunesse (trad. Maria G. Di Rienzo)

Per saperne di più: www.kofaviv.org

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(di Laura Carlsen, direttrice dei Programmi per le Americhe del Centro per la Politica Internazionale di Città del Messico, www.cipamericas.org Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo)

 

 

Quando George W. Bush lasciò la Casa Bianca, il resto del mondo respirò di sollievo. La “dottrina della sicurezza nazionale” fatta di attacchi unilaterali, dell’invasione dell’Iraq motivata dal falso pretesto delle armi di distruzione di massa, e dell’abbandono dei forum multilaterali aveva aperto una nuova fase nelle aggressioni statunitensi. Nonostante ad essere sotto i riflettori fosse il Medioriente, la crescente minaccia di un intervento armato americano gettava la sua lunga ombra su molte parti del mondo. Due anni più tardi, quel senso di sollievo ha lasciato il posto a profonda preoccupazione. Dopo aver sperato in qualcosa di almeno simile a politiche di buon vicinato e di (relativa) non ingerenza, ci troviamo a fronteggiare una nuova ondata di militarizzazione in America Latina sostenuta e promossa dall’amministrazione Obama.

In alcuni paesi, la militarizzazione già caratterizza la vita quotidiana; soldati con fucili d’assalto pattugliano i quartieri e convogli armati monopolizzano le strade. Per Haiti, Honduras, Messico e Colombia, le speranze di tornare ad una civile coesistenza pacifica sono state distrutte da questa ondata. In altri paesi, come Costa Rica, le nuove politiche concertate fra governi conservatori e il Dipartimento della difesa statunitense stanno forzando restrizioni civili e costituzionali con il coinvolgimento degli eserciti. Paura, caos e segretezza sono gli attrezzi preferiti per abbattere le barriere che frenano la militarizzazione.

 

I costi della militarizzazione

Un esame di questo nuovo scenario rivela standard di vita deteriorati, aumento della violenza, migrazioni forzate, spostamento di priorità nei finanziamenti dai bisogni di base della popolazione alle armi ed allo spionaggio, e violazioni dei diritti civili e dei diritti umani. Nella nostra regione, il paradigma anti-terrorista di Bush è stato convertito – con ben poche differenze – nella guerra ai narcotici. Questo passaggio retorico serve a distanziare le politiche attuali dalla discreditata dottrina della sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush, che era largamente impopolare in America Latina, una regione che non è interessata dalle minacce del terrorismo internazionale. I promotori della guerra alle droghe, invece, possono almeno puntare il dito su un problema reale e dei cattivi “classici”.

Il pensiero “macho” se ne esce di nuovo con la solita vecchia storia del bene contro il male che si confrontano sul campo di battaglia sociale, con il solo possibile risultato di avere un vincitore e uno sconfitto. Come cittadini, noi siamo meri spettatori, chiamati ad ignorare la corruzione massiccia che cancella i confini fra i due contendenti e ad accettare il fatto che la battaglia non finirà mai.

Una volta che gli eserciti abbiano il compito di combattere i loro stessi concittadini sul suolo nazionale, lo spostamento del focus dai cartelli della droga all’obiettivo più vasto di occuparsi di qualsiasi supposta sfida allo stato è un passo breve, storicamente provato. E’ un passo che mette tutti i dissidenti, anche e specialmente quelli nonviolenti, fra le maglie dell’apparato repressivo statale. Ciò che vediamo oggi in America Latina è che dietro agli scopi dichiarati ci sono gli obiettivi a lungo termine di controllare le risorse naturali e di garantirsi l’accesso ad esse: se necessario, con l’uso della forza.

 

Le donne chiamano alla resistenza nonviolenta

In tutta la nostra regione le donne, fra i settori più vulnerabili e formalmente meno “potenti” della società, si sono organizzate contro la violenza. Il loro ruolo fondamentale nei movimenti per la pace e contro la guerra non ha nulla a che fare con le argomentazioni fondamentaliste per cui le donne avrebbero un collegamento biologico più forte con la vita, che le porterebbe ad opporsi alle guerre. Abbiamo abbastanza esempi di donne, in politica e nella società, che hanno promosso guerra e militarizzazione per smentire questa affermazione, e numerosi esempi di uomini che rifiutano di sostenere le guerre.

L’impegno delle donne che si organizzano contro la militarizzazione nasce dalle loro specifiche coscienze ed esperienze, e dai ruoli che rivestono nelle comunità. Dalle “Femministe Resistenti” che hanno scelto di contrastare il colpo di stato in Honduras, alle Madri di Ciudad Juárez, in Messico, è stata la terrificante violenza seminata dalle strategie di confronto armato e dal militarismo a motivare le donne alla mobilitazione per la pace e la democrazia. Ciò che hanno sperimentato le spinge ad agire.

Un’altra ragione che spiega il diffuso attivismo delle donne nei movimenti antimilitaristi è che esse corrono rischi particolari sotto l’occupazione militare. Sono, o possono essere, vittime della violenza sessuale e di crimini basati sul genere, incluso l’uso sistematico dello stupro come arma di guerra e dell’abuso sessuale come punizione per le insubordinazioni. E’ da un po’ di tempo che sappiamo che lo stupro e l’abuso sessuale non sono meri atti individuali di soldati o “bottino di guerra”: sono tattiche di dominio che impiegano i corpi delle donne come mezzi per raggiungere scopi politici e militari. Nondimeno, è stato solo di recente che le Nazioni Unite hanno riconosciuto la violenza sessuale come crimine di guerra e questione riguardante la sicurezza internazionale. Nonostante l’adozione della Risoluzione 1325 dieci anni fa, l’impunità relativa a questi casi continua, favorita dall’indifferenza dell’opinione pubblica, dalla debolezza dei sistemi giudiziari e dal potere detenuto dalle stesse forze militari responsabili degli abusi.

 

L’organizzarsi delle donne nelle nazioni sotto assedio

L’Haiti di oggi è un tragico esempio di violenza sessuale diffusa in un ambiente militarizzato. Nonostante la presenza di 12.000 soldati appartenenti alla Missione stabilizzatrice delle Nazioni Unite, dopo il terremoto del 12 gennaio 2010 centinaia e centinaia di casi di stupro sono stati denunciati nei campi profughi; un’ong ha riportato la cifra di 230 stupri in 15 campi totali solo fra gennaio e marzo dello stesso anno, una cifra statistica che sfortunatamente appare essere solo la punta dell’iceberg. La concentrazione del volontariato internazionale e lo spiegamento di truppe non sono serviti a proteggere le donne haitiane. Le testimonianze di quelle violentate nei campi profughi attestano che i soldati non rispondono alle loro denunce e notano che la militarizzazione del paese ha indirizzato un enorme ammontare di risorse alle truppe, risorse che se fossero state canalizzate in cibo e alloggi avrebbero tolto le donne da condizioni ad alto rischio. Il caso di Haiti mette in luce una volta di più l’importanza dello sviluppo di analisi basate sul genere dall’inizio degli sforzi per la pace, al fine di raggiungere una visione complessiva delle violenze e di rendere maggiormente inclusiva la definizione di “sicurezza”.

Il contributo dato dalle donne ai movimenti antimilitaristi nei loro paesi non è solo questione di sostegno ad organizzazioni popolari o di rappresentazione, sebbene siano entrambe cose importanti. Le donne hanno anche le loro specifiche richieste, in merito ai loro diritti umani ed all’uguaglianza di genere. Questa agenda deve essere un pilastro nella costruzione di giustizia sociale e pace duratura.

Quale che sia l’urgenza delle lotte contro la militarizzazione in numerosi luoghi, le donne non hanno messo da parte l’agenda femminista, ne’ l’hanno lasciata per occuparsene “più tardi”. Come spiega Adelay Carias delle “Femministe Resistenti”: “Le immediate necessità di contrastare l’esercito, di fermare la repressione e di tornare all’ordine costituzionale sono ciò che ci ha motivate e guidate in questa lotta. Ma anche, sin dall’inizio, abbiamo capito che era venuto il momento di porre le nostre richieste, di ampliare i confini del nostro progetto… I nostri slogan “No ai colpi di stato, no ai colpi alle donne”, “Basta con il femminicidio”, “Ne’ lo stivale del soldato ne’ la tonaca del prete contro le lesbiche”, “Fuori i rosari dalle nostre ovaie”, si potevano udire in tutte le città in cui abbiamo sfilato chiedendo pace, libertà, eguaglianza, democrazia, giustizia.”

Yolanda Becerra, dell’Organizzazione popolare delle donne di Colombia, sottolinea che nel suo paese il movimento delle donne contro la militarizzazione e per la pace con giustizia, sta lottando “per tutti i diritti: il diritto di avere una vita dignitosa, il diritto di scegliere, il diritto di parlare, il diritto di mangiare pur essendo poveri…” Nell’agosto dello scorso anno, le donne colombiane hanno tenuto “l’Incontro internazionale delle donne e dei popoli d’America contro la militarizzazione” per costruire reti, discutere dei conflitti armati da una prospettiva di genere e “cercare modi per disarticolare la logica della guerra”. Donne da tutto il mondo hanno partecipato all’evento, che era legato alle proteste contro l’accordo per permettere la presenza militare statunitense in almeno sette basi dell’esercito colombiano.

Le donne pagano un prezzo salato per la loro resistenza. Le femministe honduregne hanno presentato un rapporto il 2.11.2010 alla Commissione Inter-Americana per i Diritti Umani in cui documentano centinaia di casi di stupro, abuso sessuale e violazione di diritti umani, nonché l’assassinio di donne della resistenza per mano dei fautori del colpo di stato. Alla colombiana Yolanda Becerra, dopo che aveva ricevuto molteplici minacce, la stessa Commissione garantì delle misure protettive.

La senatrice Piedad Córdoba, nota oppositrice della militarizzazione del suo paese e sostenitrice di una soluzione negoziata del conflitto, descrisse la situazione della Colombia all’Incontro internazionale succitato. Parlò dei quattro milioni di rifugiati interni che sono il risultato della militarizzazione del paese e del “trasferimento di più di cinque milioni di ettari di terra, appartenenti ai campesinos, agli interessi della grande industria che finanzia i corpi paramilitari” e concluse: “Questa è la ragione per cui le donne hanno deciso: non daremo più figli alla guerra. E’ impossibile usare la guerra per fermare la guerra. La pace non è solo una bella parola. La pace è la necessità di discutere come distribuire i benefici dello sviluppo, è discutere dei destinatari della ricchezza. Ci stiamo confrontando con uno stato che militarizza il pensiero, che militarizza persino il desiderio, l’amore, l’amicizia. Qualsiasi cosa accada, dobbiamo usare le nostre voci per protestare contro la guerra.”

La risposta del governo alle coraggiose parole di Córdoba fu velocissimo. Neppure un mese dopo la sua partecipazione al meeting delle donne contro la militarizzazione, le fu tolto il seggio al Senato e fu bandita da qualsiasi carica pubblica per 18 anni. Il governo della “sicurezza democratica”, l’ultima versione della militarizzazione, ha legami con le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC). Córdoba aveva in effetti partecipato alle negoziazioni ufficiali con le FARC – che sono solo un’altra espressione delle strutture militari patriarcali – ed ottenuto il rilascio di numerosi ostaggi. Dice che le misure del governo non la deruberanno della sua voce e continua a giocare un ruolo importante nel movimento per la pace.

Ora le donne messicane stanno cominciando a soffrire ciò che le loro colleghe colombiane conoscono da decenni. La militarizzazione del Messico, tramite il pretesto della “guerra alla droga” e le iniziative statunitensi, ha raggiunto livelli scioccanti, così come il numero delle persone uccise grazie ad essa. In Messico, come in Colombia, sono le donne le prime linee delle nuove organizzazioni contro la militarizzazione.

Fu una donna, la madre di un giovane assassinato, ad interrompere il discorso di Calderón a Ciudad Juárez nel febbraio 2010. Gridò la sua protesta contro la fallita strategia di sicurezza che ha fatto della città territorio occupato, e che ha aumentato di più di dieci volte il numero degli omicidi. Sono state le donne ad alzarsi in piedi e a voltare la schiena a un Presidente che aveva promesso sicurezza ed ha consegnato morte. E continuano ad essere le donne, all’interno di movimenti propri o misti, quelle che rigettano l’affermazione del governo – ripetuta sino alla nausea – che le morti dei loro figli sono prezzi ragionevoli da pagare per la lotta al crimine organizzato. Sul confine nord del Messico, i difensori dei diritti umani sono stati giustiziati o esiliati. I loro casi sono diversi da quelli delle giovani donne vittime del femminicidio, tuttavia l’impunità regna sovrana per entrambi.

La militarizzazione ha un impatto diretto sulle vite delle donne e sulle forme della loro resistenza. Daysi Flores delle “Femministe Resistenti” racconta la sua esperienza: “Nel giro di un anno, abbiamo dovuto imparare a convivere con la tristezza, con il senso di impotenza, con la rabbia, la paura e la disperazione. Per quanto la dittatura cerchi di mostrarsi con una bella faccia, ti basta camminare per la strada per sapere che il paese è ora di proprietà dell’esercito. Per cui, abbiamo dovuto essere creative: apprendere come fronteggiare le minacce, come non essere uccise, arrestate, stuprate o rapite. E nonostante i rischi, ci rifiutiamo di rinunciare all’idea di democrazia, democrazia vera, quella che ci hanno rubato con i loro fucili, con i gas lacrimogeni, con i pestaggi e gli omicidi. Per questo continuiamo a protestare, anche se ciò mette a rischio le nostre vite.”

Le reti di solidarietà fra donne a livello internazionale sino ad ora hanno funzionato casualmente o in modo effimero. Le donne che si oppongono alla militarizzazione in situazioni di conflitto, e le loro famiglie, sono esposte al rischio di assassinio, abuso sessuale, violenza fisica e psicologica. Dobbiamo costruire reti di responso rapido, di modo che nessuna donna che alzi la voce contro la militarizzazione si trovi da sola. Il processo deve essere velocizzato, prima che la militarizzazione diventi un aspetto “normale” della vita e distrugga il tessuto sociale che è la base per una pace durevole.

Questa è la grande sfida che tutte noi abbiamo davanti.

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Un Campo per favorire la mobilitazione ed il trasferimento di risorse, e per aprire canali di comunicazione diretta con le donne verrà aperto sulla frontiera tra Haiti e la Repubblica dominicana. Il Campo prende nome da Myriam Merlet (1953-2010), femminista haitiana. Organizzato da gruppi femministi di Haiti, Repubblica dominicana, America Latina, Caraibi, una volta attivo verrà completamente gestito dalle donne haitiane. Il suo scopo, oltre quello di raccogliere e fornire risorse, è di lavorare con i difensori e le difensore dei diritti umani per monitorare, denunciare e domandare provvedimenti legali in riferimento alle violazioni dei diritti umani avvenute durante il terremoto e dopo di esso. Il Campo includerà un Centro per la Salute per dar sollievo al dolore, alle ferite, alle malattie ed ai traumi dovuti al terremoto.

Coordinatrici di questo sforzo sono il Collettivo Donne e Salute (COMUS) ed il gruppo femminista CIPAF (Centro d’indagine per l’azione femminile), entrambi dominicani. Lo spazio che si aprirà con il Campo servirà anche come centro di comunicazione, e includerà le trasmissioni radio via internet prodotte da FIRE (Impegno Radio Femminista Internazionale) così come blog e network organizzati dalle donne della regione attive nella comunicazione. FIRE è stata la prima internet-radio internazionale creata e diretta dalle donne dell’America Latina e dei Caraibi.

Abbiamo bisogno della vostra partecipazione per raccogliere risorse, condividere informazioni, rendere efficace la solidarietà. Dal 1° febbraio sarà disponibile una pagina relativa al Campo Femminista su www.radiofeminista.net

Nel frattempo potete scrivere, in inglese a oficina@radiofeminista.net

Oppure, in spagnolo, a colec.mujer@codetel.net.do

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