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Domani e dopodomani, al Teatro Melico Salazar di San José, Costa Rica, Guadalupe Urbina intende esporre in musica il viaggio della propria vita: “Dalla Guadalupe che lasciò la provincia di Guanacaste cantando canzoni di protesta sulla proprietà della terra e la segregazione razziale, alla Guadalupe urbana che “prese possesso” della capitale. La Guadalupe di oggi non può più fare sempre quel che le piace. Questa donna è un poco stanca e il suo corpo richiede attenzione.” L’ultima frase si riferisce ai tre cicli di trattamento medico che la cantautrice ha già affrontato per combattere la presenza di tumori.

guadalupe

Nata nel 1959 da una famiglia contadina (il padre era migrato in Costa Rica dal Nicaragua), ultima di 10 figli, ha vissuto in Europa e viaggiato in Africa. Ha due figli, Antonio e Angela. Attualmente dirige la Fondazione “Voz Propia” che appoggia i/le giovani con aspirazioni artistiche e fa parte della comunità autogestita Longo Mai.

Il movimento che porta questo nome ha origini in Austria, Svizzera, Germania e Francia: giovani della “generazione del ’68” fondarono la prima comunità autogestita in Francia nel 1973 – “Longo maï” in provenzale significa “Possa durare a lungo”. Nel 1979, quando molti nicaraguensi fuggivano dal regime del terrore di Somoza, decisero di comprare terra in Costa Rica per renderla disponibile ai rifugiati, di modo che essi vivessero in modo indipendente e dignitoso. Longo Mai oggi comprende circa 2.200 acri, metà dei quali costituiti da foresta pluviale protetta.

Guadalupe ha ricevuto vari premi internazionali per il suo talento e le sue ricerche sulla musica popolare e la narrazione orale. Dalle tradizioni mesoamericane ha derivato quel che potremmo definire il suo “sentiero spirituale”, che segue le molte dimensioni dell’archetipo femminile. Pittrice, scrittrice, poeta, autrice teatrale, il suo ultimo album in studio – con 11 brani originali – è del 2016: “Cantos Simples del Amor de la Tierra”.

“L’arte ci permette di muoverci, di essere commossi, connessi e rinnovati. – dice Guadalupe – La metafora è il linguaggio che ci permette di entrare in relazione con la soggettività. L’arte, usando linguaggio metaforico, può esprimere in maniera più completa l’esperienza, la conoscenza e la rivitalizzazione delle risonanze che è così cruciale nel rompere l’isolamento per costruire movimenti. La canzone ha un potere unico; è il potere di muovere il tuo corpo e i tuoi sentimenti, di trasportarti inevitabilmente in un luogo che ti dà autorità perché evoca, raccoglie e soprattutto libera ciò che tu hai necessità di liberare.” Maria G. Di Rienzo

madremonte

(Madremonte, dipinto di Guadalupe Urbina)

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Il 17 e 18 giugno 2016 più di 80 attiviste provenienti da Costa Rica, Salvador, Honduras, Guatemala, Panama e Nicaragua si sono riunite nella capitale di quest’ultimo paese, Managua, per un simposio femminista dell’America Centrale. Le organizzatrici erano le donne del gruppo Programa Feminista La Corriente – http://lacorrientenicaragua.org/

L’evento, come potete vedere dall’immagine sottostante, si chiamava “Corpi che sfidano e costruiscono nuove realtà”.

simposio femminista 2016

Il fulcro dei dialoghi era il dare una cornice alla difficile realtà sperimentata dalle donne dell’America Centrale per migliorare l’attivismo teso a cambiarla. I numeri del femminicidio nella regione continuano a essere molto alti; i fondamentalismi religiosi sono in crescita (“Sembra che i nostri Paesi non siano governati da Costituzioni, ma dalla Bibbia”, ha detto una delle partecipanti); i diritti delle donne fanno passi indietro (ad esempio con la criminalizzazione dell’aborto terapeutico); le gravidanze di adolescenti aumentano a causa della mancanza di educazione sessuale e riproduttiva, e la situazione è peggiorata dall’impazzare della violenza di genere sui social media e dallo sciovinismo dei giovani uomini che la agiscono in condizioni di impunità.

Le attiviste hanno discusso varie strategie e tecniche, sottolineato la necessità per chiunque sia impegnata in lotte e campagne a lungo termine – che richiedono alti prezzi in termini di esaurimento emotivo – ad avere cura di sé e a ricevere sostegno, e l’intenzione di creare nuovi spazi di dialogo fra femministe di differenti generazioni: “Le giovani possono imparare dalle veterane e queste ultime possono essere influenzate dall’energia e dalle idee nuove di quelle che sono appena arrivate.” Inoltre, ha concluso il simposio, c’è l’urgente necessità di documentare il lavoro del movimento delle donne: “Dobbiamo lavorare per maneggiare meglio la conoscenza femminista, diffondere, socializzare e condividere Storia. Il patriarcato è enorme, violento e predatorio perché troppo poco è stato fatto per smantellare i suoi miti.”

Ma il commento forse più bello e più azzeccato è stato quello di Esperanza White, attivista femminista del Nicaragua: “Sono commossa e rallegrata da quel che sto pensando… e cioè che la nostra forza come donne sta nelle differenze fra noi. Lesbiche, indigene, disabili, di origini africane, transessuali, eterosessuali… corpi differenti con una stessa anima e gli stessi problemi.”

Riguardate la fotografia. Sono tutti là, corpi diversi, corpi giovani e corpi anziani, corpi chiari e corpi scuri, con ogni possibile sfumatura nel mezzo. Corpi non addomesticati dall’oggettificazione sessuale e dalla recita patriarcale di una “femminilità” fasulla. Corpi come questi sono in se stessi una sfida e una gloria e una promessa. Maria G. Di Rienzo

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Ciudad Juarez - Messico

(Intervista ad Ana Carcedo di Cefemina – Centro Feminista de Información y Acción, Costa Rica, di Gabriela De Cicco per Awid, 30.11.2012. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo)

Cosa si intende per “femicidio” e “femminicidio”?

Ana Carcedo (AC): In Honduras e in Costa Rica, quando cominciammo nel 1994 ad indagare sulle morti delle donne, adottammo il concetto di “femicide” sviluppato da Diana Russell (http://www.dianarussell.com/) e lo traducemmo come “femicidio”. Contemporaneamente, senza che noi lo sapessimo, nella Repubblica Dominicana Susy Pola stava conducendo ricerche simili alle nostre e tradusse “femicide” come “feminicidio”. Marcela Lagarde espanse il concetto di Russell includendo l’impunità: lei sostiene che questo è qualcosa di nuovo e che si chiama “feminicidio”.

Per cui, nell’America Centrale ci sono due differenti termini per descrivere due tipi di crimine. Il femicidio è l’assassinio di donne da parte di uomini perché sono donne, a causa della loro “subordinazione” di genere. Tale subordinazione è dovuta alle relazioni diseguali di potere fra donne e uomini a cui ci si riferisce nella Convenzione Inter-Americana sulla prevenzione, la sanzione e lo sradicamento della violenza contro le donne, chiamata Convenzione “Belem do Para”.

Questa violenza non è casuale. E’ il prodotto di una particolare struttura sociale in cui le donne occupano una posizione più bassa e subordinata, il che facilita la violenza contro di esse. Il femicidio è la forma più estrema di violenza contro le donne.

Femminicidio si riferisce all’impunità e alla complicità relative ai femicidi. Il crimine non viene commesso solo quando si uccide una donna, ma anche quando lo Stato non investiga accuratamente e si fa complice. In questo caso, noi diciamo che lo Stato commette il crimine di non garantire alle donne una vita libera dalla violenza e di non garantire il loro diritto alla giustizia.

Cosa vi ha spinto ad indagare sulle morti delle donne nel 1994?

AC: Sin dagli anni ’80, le femministe hanno lavorato duro per rendere visibili le differenti forme di violenza contro le donne. Fu durante il primo incontro latino-americano e dei Caraibi (Bogotà, Colombia, luglio 1981, ndt.) che il 25 novembre fu stabilito come Giorno Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Che la violenza uccidesse era una realtà che avevamo compreso da prima, ma durante gli anni ’90 cominciammo a voler portare attenzione su questa realtà. In questo periodo un legge che includeva misure protettive passò in Costa Rica, ma non era quella che le femministe avevano proposto. Le organizzazioni femministe, inclusa Cefemina, avevano proposto una legge che proteggesse le donne all’interno delle relazioni, ma quella che passò parlava invece di proteggere le “persone”. Per cui, nel 1997, cominciammo a lavorare per avere una legge che criminalizzasse la violenza contro le donne.

Restammo irremovibili rispetto al fatto che doveva essere un legge che rispettasse la “Belem do Para”, e non una legge neutra rispetto al genere, ad uso e consumo degli uomini. In quel contesto volevamo dimostrare che la violenza non è simmetrica, non è lineare; volevamo provare che i femicidi esistevano e che non esisteva situazione paragonabile per gli uomini. Fu così che la prima ricerca sul femicidio ebbe inizio in Costa Rica.

Secondo te i femicidi stanno aumentando? Se sì perché pensi che accada? Dove sono maggiormente prevalenti?

AC: In Honduras, Guatemala, El Salvador, i femicidi sono aumentati, non solo di numero, sono cresciuti anche in brutalità. Nel resto dell’America Centrale il dato fluttua, ad eccezione del Messico che ha un tasso permanentemente alto di femicidi. L’ipotesi che noi avanziamo nella ricerca, che si intitola “Noi non dimentichiamo, Noi non accettiamo. Femicidio nell’America Centrale.”, è che l’aumento sia collegato agli attuali contesti economici e politici della regione. L’imposizione dell’economia della globalizzazione ha significato perdite consistenti per i nostri paesi, in special modo per le donne. Ciò ha dato come risultato il crescente successo degli affari di mafia. Le condizioni che nutrono la violenza contro le donne sono create nei nostri paesi, come il traffico di donne e di droghe. Anche la migrazione comporta rischi seri per le donne. A livello economico esse sono relegate nelle maquilas (laboratori in cui operano in condizioni di semi-schiavitù, ndt.), e anche la militarizzazione e le maras (gang criminali giovanili, ndt.) sono problemi.

Per il passato, le reti mafiose avevano una sorta di codice di condotta che lasciava le donne fuori da tutto. Oggi è l’esatto opposto: i criminali usano le donne come leve. Per esempio, usano le donne delle famiglie “nemiche”, perché esse sono comunque “a disposizione” e i nemici si sentiranno minacciati. E’ quella che Rita Segato (femminista brasiliana, ndt.) chiama il messaggio orizzontale inviato da uomini ad altri uomini uccidendo donne. Esso dice: “Questo è il mio territorio. Se oso uccidere senza temere ritorsioni è perché mi sono già comprato a mazzette le autorità locali.” Le giornaliste e le difensore dei diritti umani delle donne, poiché apertamente espongono queste situazioni, sono particolarmente vulnerabili a tale forma di violenza.

Dove hanno fallito le politiche per contrastare i femicidi nei paesi in cui essi sono in crescita?

AC: Nonostante tutte le leggi, il problema continua ad essere la fallacia dell’indagine legale. Non c’è interesse a farla in modo corretto. In Costa Rica noi abbiamo leggi che criminalizzano la violenza contro le donne, ma a più del 70% delle denunce che ricadono sotto queste leggi non viene dato proseguimento legale: il magistrato decide che nessun crimine è stato commesso. Alle donne che chiedono giustizia per le loro figlie si risponde che le ragazze erano mareras (appartenenti alle gang criminali giovanili, ndt.), puttane, tossicomani, quando in effetti erano solo studentesse. E inoltre, cosa importerebbe anche se fossero mareras o prostitute? Alla denuncia deve seguire un’indagine, punto e basta.

Gli Stati reagiscono solo quando organismi internazionali esercitano pressione su di loro. Il Guatemala ha risposto bene alle pressioni: nel 2008 hanno approvato la legge “Contro il femicidio ed altre forme di violenza dirette alle donne”. Ora hanno avvocati e magistrati specializzati in materia. E quest’anno hanno risolto casi di femicidio commessi dalle maras, dimostrando che la cosa può essere fatta se c’è la volontà politica di farla.

Quali cambiamenti sono necessari affinché queste politiche siano efficaci? Cos’altro dovrebbero fare gli Stati?

AC: Quasi tutti i paesi dell’America Centrale hanno leggi specifiche sulla violenza contro le donne. Abbiamo bisogno di magistrati che sappiamo come indagare e presentare le accuse, e che vogliamo farlo. Dobbiamo chiedere che il pm raccolga tutte le prove e gli esami specifici richiesti. Più polizia dev’essere istruita ad un responso rapido, in particolar modo nelle situazioni ad alto rischio. A livello regionale ed internazionale dobbiamo creare spazi dove agli Stati si richieda di rispondere per quanto sta accadendo.

Puoi dirci qualcosa del “Modello di protocollo per investigare e documentare efficacemente il femicidio/femminicidio”?

AC: Ci stiamo lavorando. Tentiamo di mettere insieme alcune linee guida specifiche per indagare sui femicidi, che tendono a non essere seguite quando i femicidi sono indagati come omicidi ordinari. Sviluppare l’ipotesi è cruciale: il primo che arriva sulla scena del crimine crea un’ipotesi basata sulle sue prime impressioni. Ad esempio, se un cadavere di donna è scoperto in uno spazio vuoto, si può concludere che l’attacco è derivato da un tentativo di rapina; se questa ipotesi diventa la sola ipotesi in campo non c’è altro da fare, il caso è chiuso. La chiave è avere una buona ipotesi investigativa che non sia chiusa e, soprattutto, che contempli la possibilità di un omicidio intenzionale, commesso da persone che conoscevano la donna. Per le analisi tecniche non è diverso: secondo il nostro modello gli esperti fanno le autopsie al modo solito, ma stanno più attenti (e riportano al magistrato) se vi sono segni di morsi, marchi di coltello, se la parola puta (puttana) è stata incisa sul petto della donna, eccetera.

Io sono fra quelle che pensano che ogni omicidio di donna dovrebbe essere investigato dapprima come possibile femicidio, scartando l’ipotesi qualora nulla la comprovi. Ciò permetterebbe di evitare la perdita di informazioni importanti e più casi potrebbero essere risolti.

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(di Laura Carlsen, direttrice dei Programmi per le Americhe del Centro per la Politica Internazionale di Città del Messico, www.cipamericas.org Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo)

 

 

Quando George W. Bush lasciò la Casa Bianca, il resto del mondo respirò di sollievo. La “dottrina della sicurezza nazionale” fatta di attacchi unilaterali, dell’invasione dell’Iraq motivata dal falso pretesto delle armi di distruzione di massa, e dell’abbandono dei forum multilaterali aveva aperto una nuova fase nelle aggressioni statunitensi. Nonostante ad essere sotto i riflettori fosse il Medioriente, la crescente minaccia di un intervento armato americano gettava la sua lunga ombra su molte parti del mondo. Due anni più tardi, quel senso di sollievo ha lasciato il posto a profonda preoccupazione. Dopo aver sperato in qualcosa di almeno simile a politiche di buon vicinato e di (relativa) non ingerenza, ci troviamo a fronteggiare una nuova ondata di militarizzazione in America Latina sostenuta e promossa dall’amministrazione Obama.

In alcuni paesi, la militarizzazione già caratterizza la vita quotidiana; soldati con fucili d’assalto pattugliano i quartieri e convogli armati monopolizzano le strade. Per Haiti, Honduras, Messico e Colombia, le speranze di tornare ad una civile coesistenza pacifica sono state distrutte da questa ondata. In altri paesi, come Costa Rica, le nuove politiche concertate fra governi conservatori e il Dipartimento della difesa statunitense stanno forzando restrizioni civili e costituzionali con il coinvolgimento degli eserciti. Paura, caos e segretezza sono gli attrezzi preferiti per abbattere le barriere che frenano la militarizzazione.

 

I costi della militarizzazione

Un esame di questo nuovo scenario rivela standard di vita deteriorati, aumento della violenza, migrazioni forzate, spostamento di priorità nei finanziamenti dai bisogni di base della popolazione alle armi ed allo spionaggio, e violazioni dei diritti civili e dei diritti umani. Nella nostra regione, il paradigma anti-terrorista di Bush è stato convertito – con ben poche differenze – nella guerra ai narcotici. Questo passaggio retorico serve a distanziare le politiche attuali dalla discreditata dottrina della sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush, che era largamente impopolare in America Latina, una regione che non è interessata dalle minacce del terrorismo internazionale. I promotori della guerra alle droghe, invece, possono almeno puntare il dito su un problema reale e dei cattivi “classici”.

Il pensiero “macho” se ne esce di nuovo con la solita vecchia storia del bene contro il male che si confrontano sul campo di battaglia sociale, con il solo possibile risultato di avere un vincitore e uno sconfitto. Come cittadini, noi siamo meri spettatori, chiamati ad ignorare la corruzione massiccia che cancella i confini fra i due contendenti e ad accettare il fatto che la battaglia non finirà mai.

Una volta che gli eserciti abbiano il compito di combattere i loro stessi concittadini sul suolo nazionale, lo spostamento del focus dai cartelli della droga all’obiettivo più vasto di occuparsi di qualsiasi supposta sfida allo stato è un passo breve, storicamente provato. E’ un passo che mette tutti i dissidenti, anche e specialmente quelli nonviolenti, fra le maglie dell’apparato repressivo statale. Ciò che vediamo oggi in America Latina è che dietro agli scopi dichiarati ci sono gli obiettivi a lungo termine di controllare le risorse naturali e di garantirsi l’accesso ad esse: se necessario, con l’uso della forza.

 

Le donne chiamano alla resistenza nonviolenta

In tutta la nostra regione le donne, fra i settori più vulnerabili e formalmente meno “potenti” della società, si sono organizzate contro la violenza. Il loro ruolo fondamentale nei movimenti per la pace e contro la guerra non ha nulla a che fare con le argomentazioni fondamentaliste per cui le donne avrebbero un collegamento biologico più forte con la vita, che le porterebbe ad opporsi alle guerre. Abbiamo abbastanza esempi di donne, in politica e nella società, che hanno promosso guerra e militarizzazione per smentire questa affermazione, e numerosi esempi di uomini che rifiutano di sostenere le guerre.

L’impegno delle donne che si organizzano contro la militarizzazione nasce dalle loro specifiche coscienze ed esperienze, e dai ruoli che rivestono nelle comunità. Dalle “Femministe Resistenti” che hanno scelto di contrastare il colpo di stato in Honduras, alle Madri di Ciudad Juárez, in Messico, è stata la terrificante violenza seminata dalle strategie di confronto armato e dal militarismo a motivare le donne alla mobilitazione per la pace e la democrazia. Ciò che hanno sperimentato le spinge ad agire.

Un’altra ragione che spiega il diffuso attivismo delle donne nei movimenti antimilitaristi è che esse corrono rischi particolari sotto l’occupazione militare. Sono, o possono essere, vittime della violenza sessuale e di crimini basati sul genere, incluso l’uso sistematico dello stupro come arma di guerra e dell’abuso sessuale come punizione per le insubordinazioni. E’ da un po’ di tempo che sappiamo che lo stupro e l’abuso sessuale non sono meri atti individuali di soldati o “bottino di guerra”: sono tattiche di dominio che impiegano i corpi delle donne come mezzi per raggiungere scopi politici e militari. Nondimeno, è stato solo di recente che le Nazioni Unite hanno riconosciuto la violenza sessuale come crimine di guerra e questione riguardante la sicurezza internazionale. Nonostante l’adozione della Risoluzione 1325 dieci anni fa, l’impunità relativa a questi casi continua, favorita dall’indifferenza dell’opinione pubblica, dalla debolezza dei sistemi giudiziari e dal potere detenuto dalle stesse forze militari responsabili degli abusi.

 

L’organizzarsi delle donne nelle nazioni sotto assedio

L’Haiti di oggi è un tragico esempio di violenza sessuale diffusa in un ambiente militarizzato. Nonostante la presenza di 12.000 soldati appartenenti alla Missione stabilizzatrice delle Nazioni Unite, dopo il terremoto del 12 gennaio 2010 centinaia e centinaia di casi di stupro sono stati denunciati nei campi profughi; un’ong ha riportato la cifra di 230 stupri in 15 campi totali solo fra gennaio e marzo dello stesso anno, una cifra statistica che sfortunatamente appare essere solo la punta dell’iceberg. La concentrazione del volontariato internazionale e lo spiegamento di truppe non sono serviti a proteggere le donne haitiane. Le testimonianze di quelle violentate nei campi profughi attestano che i soldati non rispondono alle loro denunce e notano che la militarizzazione del paese ha indirizzato un enorme ammontare di risorse alle truppe, risorse che se fossero state canalizzate in cibo e alloggi avrebbero tolto le donne da condizioni ad alto rischio. Il caso di Haiti mette in luce una volta di più l’importanza dello sviluppo di analisi basate sul genere dall’inizio degli sforzi per la pace, al fine di raggiungere una visione complessiva delle violenze e di rendere maggiormente inclusiva la definizione di “sicurezza”.

Il contributo dato dalle donne ai movimenti antimilitaristi nei loro paesi non è solo questione di sostegno ad organizzazioni popolari o di rappresentazione, sebbene siano entrambe cose importanti. Le donne hanno anche le loro specifiche richieste, in merito ai loro diritti umani ed all’uguaglianza di genere. Questa agenda deve essere un pilastro nella costruzione di giustizia sociale e pace duratura.

Quale che sia l’urgenza delle lotte contro la militarizzazione in numerosi luoghi, le donne non hanno messo da parte l’agenda femminista, ne’ l’hanno lasciata per occuparsene “più tardi”. Come spiega Adelay Carias delle “Femministe Resistenti”: “Le immediate necessità di contrastare l’esercito, di fermare la repressione e di tornare all’ordine costituzionale sono ciò che ci ha motivate e guidate in questa lotta. Ma anche, sin dall’inizio, abbiamo capito che era venuto il momento di porre le nostre richieste, di ampliare i confini del nostro progetto… I nostri slogan “No ai colpi di stato, no ai colpi alle donne”, “Basta con il femminicidio”, “Ne’ lo stivale del soldato ne’ la tonaca del prete contro le lesbiche”, “Fuori i rosari dalle nostre ovaie”, si potevano udire in tutte le città in cui abbiamo sfilato chiedendo pace, libertà, eguaglianza, democrazia, giustizia.”

Yolanda Becerra, dell’Organizzazione popolare delle donne di Colombia, sottolinea che nel suo paese il movimento delle donne contro la militarizzazione e per la pace con giustizia, sta lottando “per tutti i diritti: il diritto di avere una vita dignitosa, il diritto di scegliere, il diritto di parlare, il diritto di mangiare pur essendo poveri…” Nell’agosto dello scorso anno, le donne colombiane hanno tenuto “l’Incontro internazionale delle donne e dei popoli d’America contro la militarizzazione” per costruire reti, discutere dei conflitti armati da una prospettiva di genere e “cercare modi per disarticolare la logica della guerra”. Donne da tutto il mondo hanno partecipato all’evento, che era legato alle proteste contro l’accordo per permettere la presenza militare statunitense in almeno sette basi dell’esercito colombiano.

Le donne pagano un prezzo salato per la loro resistenza. Le femministe honduregne hanno presentato un rapporto il 2.11.2010 alla Commissione Inter-Americana per i Diritti Umani in cui documentano centinaia di casi di stupro, abuso sessuale e violazione di diritti umani, nonché l’assassinio di donne della resistenza per mano dei fautori del colpo di stato. Alla colombiana Yolanda Becerra, dopo che aveva ricevuto molteplici minacce, la stessa Commissione garantì delle misure protettive.

La senatrice Piedad Córdoba, nota oppositrice della militarizzazione del suo paese e sostenitrice di una soluzione negoziata del conflitto, descrisse la situazione della Colombia all’Incontro internazionale succitato. Parlò dei quattro milioni di rifugiati interni che sono il risultato della militarizzazione del paese e del “trasferimento di più di cinque milioni di ettari di terra, appartenenti ai campesinos, agli interessi della grande industria che finanzia i corpi paramilitari” e concluse: “Questa è la ragione per cui le donne hanno deciso: non daremo più figli alla guerra. E’ impossibile usare la guerra per fermare la guerra. La pace non è solo una bella parola. La pace è la necessità di discutere come distribuire i benefici dello sviluppo, è discutere dei destinatari della ricchezza. Ci stiamo confrontando con uno stato che militarizza il pensiero, che militarizza persino il desiderio, l’amore, l’amicizia. Qualsiasi cosa accada, dobbiamo usare le nostre voci per protestare contro la guerra.”

La risposta del governo alle coraggiose parole di Córdoba fu velocissimo. Neppure un mese dopo la sua partecipazione al meeting delle donne contro la militarizzazione, le fu tolto il seggio al Senato e fu bandita da qualsiasi carica pubblica per 18 anni. Il governo della “sicurezza democratica”, l’ultima versione della militarizzazione, ha legami con le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC). Córdoba aveva in effetti partecipato alle negoziazioni ufficiali con le FARC – che sono solo un’altra espressione delle strutture militari patriarcali – ed ottenuto il rilascio di numerosi ostaggi. Dice che le misure del governo non la deruberanno della sua voce e continua a giocare un ruolo importante nel movimento per la pace.

Ora le donne messicane stanno cominciando a soffrire ciò che le loro colleghe colombiane conoscono da decenni. La militarizzazione del Messico, tramite il pretesto della “guerra alla droga” e le iniziative statunitensi, ha raggiunto livelli scioccanti, così come il numero delle persone uccise grazie ad essa. In Messico, come in Colombia, sono le donne le prime linee delle nuove organizzazioni contro la militarizzazione.

Fu una donna, la madre di un giovane assassinato, ad interrompere il discorso di Calderón a Ciudad Juárez nel febbraio 2010. Gridò la sua protesta contro la fallita strategia di sicurezza che ha fatto della città territorio occupato, e che ha aumentato di più di dieci volte il numero degli omicidi. Sono state le donne ad alzarsi in piedi e a voltare la schiena a un Presidente che aveva promesso sicurezza ed ha consegnato morte. E continuano ad essere le donne, all’interno di movimenti propri o misti, quelle che rigettano l’affermazione del governo – ripetuta sino alla nausea – che le morti dei loro figli sono prezzi ragionevoli da pagare per la lotta al crimine organizzato. Sul confine nord del Messico, i difensori dei diritti umani sono stati giustiziati o esiliati. I loro casi sono diversi da quelli delle giovani donne vittime del femminicidio, tuttavia l’impunità regna sovrana per entrambi.

La militarizzazione ha un impatto diretto sulle vite delle donne e sulle forme della loro resistenza. Daysi Flores delle “Femministe Resistenti” racconta la sua esperienza: “Nel giro di un anno, abbiamo dovuto imparare a convivere con la tristezza, con il senso di impotenza, con la rabbia, la paura e la disperazione. Per quanto la dittatura cerchi di mostrarsi con una bella faccia, ti basta camminare per la strada per sapere che il paese è ora di proprietà dell’esercito. Per cui, abbiamo dovuto essere creative: apprendere come fronteggiare le minacce, come non essere uccise, arrestate, stuprate o rapite. E nonostante i rischi, ci rifiutiamo di rinunciare all’idea di democrazia, democrazia vera, quella che ci hanno rubato con i loro fucili, con i gas lacrimogeni, con i pestaggi e gli omicidi. Per questo continuiamo a protestare, anche se ciò mette a rischio le nostre vite.”

Le reti di solidarietà fra donne a livello internazionale sino ad ora hanno funzionato casualmente o in modo effimero. Le donne che si oppongono alla militarizzazione in situazioni di conflitto, e le loro famiglie, sono esposte al rischio di assassinio, abuso sessuale, violenza fisica e psicologica. Dobbiamo costruire reti di responso rapido, di modo che nessuna donna che alzi la voce contro la militarizzazione si trovi da sola. Il processo deve essere velocizzato, prima che la militarizzazione diventi un aspetto “normale” della vita e distrugga il tessuto sociale che è la base per una pace durevole.

Questa è la grande sfida che tutte noi abbiamo davanti.

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