(di Laura Carlsen, direttrice dei Programmi per le Americhe del Centro per la Politica Internazionale di Città del Messico, www.cipamericas.org Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo)

Quando George W. Bush lasciò la Casa Bianca, il resto del mondo respirò di sollievo. La “dottrina della sicurezza nazionale” fatta di attacchi unilaterali, dell’invasione dell’Iraq motivata dal falso pretesto delle armi di distruzione di massa, e dell’abbandono dei forum multilaterali aveva aperto una nuova fase nelle aggressioni statunitensi. Nonostante ad essere sotto i riflettori fosse il Medioriente, la crescente minaccia di un intervento armato americano gettava la sua lunga ombra su molte parti del mondo. Due anni più tardi, quel senso di sollievo ha lasciato il posto a profonda preoccupazione. Dopo aver sperato in qualcosa di almeno simile a politiche di buon vicinato e di (relativa) non ingerenza, ci troviamo a fronteggiare una nuova ondata di militarizzazione in America Latina sostenuta e promossa dall’amministrazione Obama.
In alcuni paesi, la militarizzazione già caratterizza la vita quotidiana; soldati con fucili d’assalto pattugliano i quartieri e convogli armati monopolizzano le strade. Per Haiti, Honduras, Messico e Colombia, le speranze di tornare ad una civile coesistenza pacifica sono state distrutte da questa ondata. In altri paesi, come Costa Rica, le nuove politiche concertate fra governi conservatori e il Dipartimento della difesa statunitense stanno forzando restrizioni civili e costituzionali con il coinvolgimento degli eserciti. Paura, caos e segretezza sono gli attrezzi preferiti per abbattere le barriere che frenano la militarizzazione.
I costi della militarizzazione
Un esame di questo nuovo scenario rivela standard di vita deteriorati, aumento della violenza, migrazioni forzate, spostamento di priorità nei finanziamenti dai bisogni di base della popolazione alle armi ed allo spionaggio, e violazioni dei diritti civili e dei diritti umani. Nella nostra regione, il paradigma anti-terrorista di Bush è stato convertito – con ben poche differenze – nella guerra ai narcotici. Questo passaggio retorico serve a distanziare le politiche attuali dalla discreditata dottrina della sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush, che era largamente impopolare in America Latina, una regione che non è interessata dalle minacce del terrorismo internazionale. I promotori della guerra alle droghe, invece, possono almeno puntare il dito su un problema reale e dei cattivi “classici”.
Il pensiero “macho” se ne esce di nuovo con la solita vecchia storia del bene contro il male che si confrontano sul campo di battaglia sociale, con il solo possibile risultato di avere un vincitore e uno sconfitto. Come cittadini, noi siamo meri spettatori, chiamati ad ignorare la corruzione massiccia che cancella i confini fra i due contendenti e ad accettare il fatto che la battaglia non finirà mai.
Una volta che gli eserciti abbiano il compito di combattere i loro stessi concittadini sul suolo nazionale, lo spostamento del focus dai cartelli della droga all’obiettivo più vasto di occuparsi di qualsiasi supposta sfida allo stato è un passo breve, storicamente provato. E’ un passo che mette tutti i dissidenti, anche e specialmente quelli nonviolenti, fra le maglie dell’apparato repressivo statale. Ciò che vediamo oggi in America Latina è che dietro agli scopi dichiarati ci sono gli obiettivi a lungo termine di controllare le risorse naturali e di garantirsi l’accesso ad esse: se necessario, con l’uso della forza.
Le donne chiamano alla resistenza nonviolenta
In tutta la nostra regione le donne, fra i settori più vulnerabili e formalmente meno “potenti” della società, si sono organizzate contro la violenza. Il loro ruolo fondamentale nei movimenti per la pace e contro la guerra non ha nulla a che fare con le argomentazioni fondamentaliste per cui le donne avrebbero un collegamento biologico più forte con la vita, che le porterebbe ad opporsi alle guerre. Abbiamo abbastanza esempi di donne, in politica e nella società, che hanno promosso guerra e militarizzazione per smentire questa affermazione, e numerosi esempi di uomini che rifiutano di sostenere le guerre.
L’impegno delle donne che si organizzano contro la militarizzazione nasce dalle loro specifiche coscienze ed esperienze, e dai ruoli che rivestono nelle comunità. Dalle “Femministe Resistenti” che hanno scelto di contrastare il colpo di stato in Honduras, alle Madri di Ciudad Juárez, in Messico, è stata la terrificante violenza seminata dalle strategie di confronto armato e dal militarismo a motivare le donne alla mobilitazione per la pace e la democrazia. Ciò che hanno sperimentato le spinge ad agire.
Un’altra ragione che spiega il diffuso attivismo delle donne nei movimenti antimilitaristi è che esse corrono rischi particolari sotto l’occupazione militare. Sono, o possono essere, vittime della violenza sessuale e di crimini basati sul genere, incluso l’uso sistematico dello stupro come arma di guerra e dell’abuso sessuale come punizione per le insubordinazioni. E’ da un po’ di tempo che sappiamo che lo stupro e l’abuso sessuale non sono meri atti individuali di soldati o “bottino di guerra”: sono tattiche di dominio che impiegano i corpi delle donne come mezzi per raggiungere scopi politici e militari. Nondimeno, è stato solo di recente che le Nazioni Unite hanno riconosciuto la violenza sessuale come crimine di guerra e questione riguardante la sicurezza internazionale. Nonostante l’adozione della Risoluzione 1325 dieci anni fa, l’impunità relativa a questi casi continua, favorita dall’indifferenza dell’opinione pubblica, dalla debolezza dei sistemi giudiziari e dal potere detenuto dalle stesse forze militari responsabili degli abusi.
L’organizzarsi delle donne nelle nazioni sotto assedio
L’Haiti di oggi è un tragico esempio di violenza sessuale diffusa in un ambiente militarizzato. Nonostante la presenza di 12.000 soldati appartenenti alla Missione stabilizzatrice delle Nazioni Unite, dopo il terremoto del 12 gennaio 2010 centinaia e centinaia di casi di stupro sono stati denunciati nei campi profughi; un’ong ha riportato la cifra di 230 stupri in 15 campi totali solo fra gennaio e marzo dello stesso anno, una cifra statistica che sfortunatamente appare essere solo la punta dell’iceberg. La concentrazione del volontariato internazionale e lo spiegamento di truppe non sono serviti a proteggere le donne haitiane. Le testimonianze di quelle violentate nei campi profughi attestano che i soldati non rispondono alle loro denunce e notano che la militarizzazione del paese ha indirizzato un enorme ammontare di risorse alle truppe, risorse che se fossero state canalizzate in cibo e alloggi avrebbero tolto le donne da condizioni ad alto rischio. Il caso di Haiti mette in luce una volta di più l’importanza dello sviluppo di analisi basate sul genere dall’inizio degli sforzi per la pace, al fine di raggiungere una visione complessiva delle violenze e di rendere maggiormente inclusiva la definizione di “sicurezza”.
Il contributo dato dalle donne ai movimenti antimilitaristi nei loro paesi non è solo questione di sostegno ad organizzazioni popolari o di rappresentazione, sebbene siano entrambe cose importanti. Le donne hanno anche le loro specifiche richieste, in merito ai loro diritti umani ed all’uguaglianza di genere. Questa agenda deve essere un pilastro nella costruzione di giustizia sociale e pace duratura.
Quale che sia l’urgenza delle lotte contro la militarizzazione in numerosi luoghi, le donne non hanno messo da parte l’agenda femminista, ne’ l’hanno lasciata per occuparsene “più tardi”. Come spiega Adelay Carias delle “Femministe Resistenti”: “Le immediate necessità di contrastare l’esercito, di fermare la repressione e di tornare all’ordine costituzionale sono ciò che ci ha motivate e guidate in questa lotta. Ma anche, sin dall’inizio, abbiamo capito che era venuto il momento di porre le nostre richieste, di ampliare i confini del nostro progetto… I nostri slogan “No ai colpi di stato, no ai colpi alle donne”, “Basta con il femminicidio”, “Ne’ lo stivale del soldato ne’ la tonaca del prete contro le lesbiche”, “Fuori i rosari dalle nostre ovaie”, si potevano udire in tutte le città in cui abbiamo sfilato chiedendo pace, libertà, eguaglianza, democrazia, giustizia.”
Yolanda Becerra, dell’Organizzazione popolare delle donne di Colombia, sottolinea che nel suo paese il movimento delle donne contro la militarizzazione e per la pace con giustizia, sta lottando “per tutti i diritti: il diritto di avere una vita dignitosa, il diritto di scegliere, il diritto di parlare, il diritto di mangiare pur essendo poveri…” Nell’agosto dello scorso anno, le donne colombiane hanno tenuto “l’Incontro internazionale delle donne e dei popoli d’America contro la militarizzazione” per costruire reti, discutere dei conflitti armati da una prospettiva di genere e “cercare modi per disarticolare la logica della guerra”. Donne da tutto il mondo hanno partecipato all’evento, che era legato alle proteste contro l’accordo per permettere la presenza militare statunitense in almeno sette basi dell’esercito colombiano.
Le donne pagano un prezzo salato per la loro resistenza. Le femministe honduregne hanno presentato un rapporto il 2.11.2010 alla Commissione Inter-Americana per i Diritti Umani in cui documentano centinaia di casi di stupro, abuso sessuale e violazione di diritti umani, nonché l’assassinio di donne della resistenza per mano dei fautori del colpo di stato. Alla colombiana Yolanda Becerra, dopo che aveva ricevuto molteplici minacce, la stessa Commissione garantì delle misure protettive.
La senatrice Piedad Córdoba, nota oppositrice della militarizzazione del suo paese e sostenitrice di una soluzione negoziata del conflitto, descrisse la situazione della Colombia all’Incontro internazionale succitato. Parlò dei quattro milioni di rifugiati interni che sono il risultato della militarizzazione del paese e del “trasferimento di più di cinque milioni di ettari di terra, appartenenti ai campesinos, agli interessi della grande industria che finanzia i corpi paramilitari” e concluse: “Questa è la ragione per cui le donne hanno deciso: non daremo più figli alla guerra. E’ impossibile usare la guerra per fermare la guerra. La pace non è solo una bella parola. La pace è la necessità di discutere come distribuire i benefici dello sviluppo, è discutere dei destinatari della ricchezza. Ci stiamo confrontando con uno stato che militarizza il pensiero, che militarizza persino il desiderio, l’amore, l’amicizia. Qualsiasi cosa accada, dobbiamo usare le nostre voci per protestare contro la guerra.”
La risposta del governo alle coraggiose parole di Córdoba fu velocissimo. Neppure un mese dopo la sua partecipazione al meeting delle donne contro la militarizzazione, le fu tolto il seggio al Senato e fu bandita da qualsiasi carica pubblica per 18 anni. Il governo della “sicurezza democratica”, l’ultima versione della militarizzazione, ha legami con le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC). Córdoba aveva in effetti partecipato alle negoziazioni ufficiali con le FARC – che sono solo un’altra espressione delle strutture militari patriarcali – ed ottenuto il rilascio di numerosi ostaggi. Dice che le misure del governo non la deruberanno della sua voce e continua a giocare un ruolo importante nel movimento per la pace.
Ora le donne messicane stanno cominciando a soffrire ciò che le loro colleghe colombiane conoscono da decenni. La militarizzazione del Messico, tramite il pretesto della “guerra alla droga” e le iniziative statunitensi, ha raggiunto livelli scioccanti, così come il numero delle persone uccise grazie ad essa. In Messico, come in Colombia, sono le donne le prime linee delle nuove organizzazioni contro la militarizzazione.
Fu una donna, la madre di un giovane assassinato, ad interrompere il discorso di Calderón a Ciudad Juárez nel febbraio 2010. Gridò la sua protesta contro la fallita strategia di sicurezza che ha fatto della città territorio occupato, e che ha aumentato di più di dieci volte il numero degli omicidi. Sono state le donne ad alzarsi in piedi e a voltare la schiena a un Presidente che aveva promesso sicurezza ed ha consegnato morte. E continuano ad essere le donne, all’interno di movimenti propri o misti, quelle che rigettano l’affermazione del governo – ripetuta sino alla nausea – che le morti dei loro figli sono prezzi ragionevoli da pagare per la lotta al crimine organizzato. Sul confine nord del Messico, i difensori dei diritti umani sono stati giustiziati o esiliati. I loro casi sono diversi da quelli delle giovani donne vittime del femminicidio, tuttavia l’impunità regna sovrana per entrambi.
La militarizzazione ha un impatto diretto sulle vite delle donne e sulle forme della loro resistenza. Daysi Flores delle “Femministe Resistenti” racconta la sua esperienza: “Nel giro di un anno, abbiamo dovuto imparare a convivere con la tristezza, con il senso di impotenza, con la rabbia, la paura e la disperazione. Per quanto la dittatura cerchi di mostrarsi con una bella faccia, ti basta camminare per la strada per sapere che il paese è ora di proprietà dell’esercito. Per cui, abbiamo dovuto essere creative: apprendere come fronteggiare le minacce, come non essere uccise, arrestate, stuprate o rapite. E nonostante i rischi, ci rifiutiamo di rinunciare all’idea di democrazia, democrazia vera, quella che ci hanno rubato con i loro fucili, con i gas lacrimogeni, con i pestaggi e gli omicidi. Per questo continuiamo a protestare, anche se ciò mette a rischio le nostre vite.”
Le reti di solidarietà fra donne a livello internazionale sino ad ora hanno funzionato casualmente o in modo effimero. Le donne che si oppongono alla militarizzazione in situazioni di conflitto, e le loro famiglie, sono esposte al rischio di assassinio, abuso sessuale, violenza fisica e psicologica. Dobbiamo costruire reti di responso rapido, di modo che nessuna donna che alzi la voce contro la militarizzazione si trovi da sola. Il processo deve essere velocizzato, prima che la militarizzazione diventi un aspetto “normale” della vita e distrugga il tessuto sociale che è la base per una pace durevole.
Questa è la grande sfida che tutte noi abbiamo davanti.
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