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(“Indigenous, Afro-Honduran communities join together to fight pandemic”, 11 maggio 2020, Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, trad. Maria G. Di Rienzo.)

garifuna - unfpa

Tegucigalpa, Honduras – Nel mentre le nazioni lottano con la pandemia del Covid-19, le comunità indigene e di discendenza africana sono fra le più vulnerabili con molte persone che fronteggiano povertà, scarso accesso alle cure sanitarie e informazioni limitate. In Honduras, membri di queste comunità si stanno unendo per assicurarsi che informazioni e risorse raggiungano i più esposti.

“Dobbiamo essere creativi di questi tempi.”, dice Yimene Calderón, a capo dell’Organizzazione per lo Sviluppo Etnico, che sta lavorando con la comunità Garífuna per aumentare la conoscenza delle misure di controllo dell’infezione e per fornire sostegno alle famiglie in stato di bisogno.

I Garífuna si stanno “mostrando resilienti, facendo affidamento sulla medicina e sul cibo tradizionali, e cercando aiuto e solidarietà per ricevere assistenza dal governo: non individualmente, ma collettivamente, operando come un network.”, lei dice.

Sino ad ora, più di 1.800 casi della malattia sono stati confermati in Honduras. L’esplosione è concentrata lungo la costa nord del paese, dove vive la maggioranza della popolazione Garífuna. Questa comunità ha le sue radici sia in gruppi indigeni sia in gruppi di origine africana. Molte famiglie hanno a capo donne e nonne, con uno o entrambi i genitori che lavorano all’estero per mandare soldi a casa. Come in ogni altra comunità afro-honduregna e indigena, in alcuni quartieri e case manca l’elettricità, l’accesso a internet e l’acqua corrente. L’insicurezza alimentare è comune e molti non sono in grado di accedere a cure sanitarie per la distanza o perché non se le possono permettere.

Molte fonti di reddito – incluse le rimesse, il turismo e il piccolo commercio – sono state gravemente ridimensionate. I più vulnerabili possono non essere in grado di osservare il distanziamento sociale o frequenti lavaggi delle mani e altre misure di prevenzione della malattia. Ma queste comunità si sono anche dimostrate forti e flessibili.

Comunità afro-honduregne e indigene hanno unito i loro sforzi per contenere la diffusione del Covid-19. Lavorando con il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione e con la Pan American Health Organization, hanno tradotto le informazioni sulla prevenzione dell’infezione nella lingua

Garífuna, così come nelle lingue Misquito, Tawahka e Chortí. Queste informazioni sono usate dai lavoratori della sanità, dalle reti delle radio comunitarie, da programmi televisivi e da attivisti per la gioventù al fine di promuovere comportamenti sicuri.

I membri della comunità si stanno anche facendo da soli le mascherine di stoffa. “Abbiamo coordinato numerosi gruppi di discussione con medici, infermieri e personale sanitario nella comunità.”, dice Suamy Bermúdez, un dottore Garífuna che sta lavorando con altri per sviluppare una campagna allo scopo di raggiungere case isolate con accesso limitato alle cure sanitarie.

La campagna fornirà informazioni sulla prevenzione del contagio e le medicine tradizionali, disseminate nelle chat, durante conferenze e con manuali. La campagna affronterà anche la questione dei diritti dei popoli indigeni.

“Storicamente, le popolazioni più vulnerabili dell’Honduras hanno subito segregazione e mancanza di investimento nella sanità. – dice Kenny Castillo, portavoce del Direttorato dei popoli indigeni e afro-honduregni del Ministero per lo Sviluppo e l’Inclusione Sociale – Abbiamo aperto canali per affrontare la situazione, includendovi il dialogo per affrontare non solo l’istanza Covid-19 ma lo scenario posteriore ad essa, dove le comunità dovrebbero avere una posizione forte nel richiedere investimenti su salute e istruzione.”

In aggiunta al suo sostegno all’azione comunitaria, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione sta lavorando con altri per sostenere politiche che assicurino alle donne indigene e di discendenza africana i diritti a servizi e informazioni su salute sessuale e riproduttiva, all’empowerment e alla prevenzione della violenza.

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dina meza

(“Meet Dina Meza, Honduras” – Nobel Women’s Initiative, marzo 2018. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Dina Meza – in immagine – è una giornalista indipendente e un’attivista per i diritti umani, nonché la fondatrice di PEN Honduras, organizzazione che sostiene i giornalisti in situazioni di rischio. Ha ricevuto vari premi per la sua attività nel corso degli anni.)

Puoi parlarci del tuo lavoro?

Sebbene io sia una giornalista dal 1992, non sono in grado di lavorare nei media del mainstream perché sono considerata una dissidente. Perciò nel 2014 ho creato “Pasos de Animal Grande”, un periodico online. C’è molta censura in Honduras, ma usare i media digitali mi permette di affrontare in modo indipendente temi importanti come l’impunità, la violenza contro le donne e la violenza contro i difensori dei diritti umani. Anch’io lavoro come difensora dei diritti umana e nonostante le molteplici minacce che ricevo costantemente sono in grado di svolgere il mio compito grazie al sostegno di Peace Brigades International, i cui membri mi accompagnano quando vado a fare le mie interviste. Io invece accompagno gli studenti universitari quando protestano e sono incarcerati per aver espresso le loro opinioni.

Cosa ti ha indotto a decidere di fare questo lavoro?

E’ stata una tragedia familiare che mi ha fatto concentrare sui diritti umani. Nel 1989, mio fratello maggiore fu rapito dall’esercito e portato in una località clandestina dove fu torturato per cinque giorni. Fortunatamente ne uscì vivo, ma i militari avevano spezzato la sua spina dorsale e non è mai stato in grado di tornare a vivere una vita normale. Fino a quel momento non avevo compreso sino a che punto le violazioni dei diritti umani stessero piagando l’Honduras.

La mia esperienza mi ha insegnato che nessuna famiglia dovrebbe attraversare questo da sola e ho impegnato la mia vita a lavorare con le famiglie che lottano per i diritti umani dei loro cari. Non potrei guardare i miei figli negli occhi sapendo di non fare nulla per aiutare il mio paese. Ho tre figli, due maschi e una femmina, e la mia attività ha un impatto profondo su di loro. Capiscono che può avere terribili conseguenze, ma capiscono anche che è necessaria per produrre il cambiamento che tutti desideriamo per il nostro paese.

Che tipo di minacce hai dovuto affrontare a causa del tuo lavoro?

Su base giornaliera, vivo con la paura costante che qualcuno faccia irruzione nella mia auto, sono seguita da automobili con targhe senza numeri, e ho ricevuto innumerevoli telefonate di minaccia.

La mia famiglia e io abbiamo vissuto fra le intimidazioni nei nostri confronti per gli ultimi 11 anni. Dobbiamo continuamente cambiare casa. Uomini armati mi si presentano regolarmente alla porta. Mia figlia ha ricevuto minacce a sfondo sessuale, persino sulla strada per andare a scuola. Il mio telefono è sotto controllo 24 ore su 24. Questa è la vita che chi difende i diritti umani fa in Honduras. Ma abbiamo anche imparato a proteggere noi stessi. E il sostegno di organizzazioni internazionali pro-diritti umani è stata la chiave che mi ha permesso di continuare ad agire.

Essere una difensora dei diritti umani in un ambiente oppressivo può diventare estremamente pesante. Come ti prendi cura di cuore e spirito in uno spazio così aggressivo?

Io credo che nessuno dovrebbe mai perdere la speranza. Io sono cristiana e mi sento come se dio mi proteggesse. Ascolto testimonianze di persone che soffrono di estremi abusi dei loro diritti umani ogni giorno. Spesso ci sono studenti che piangono sulla mia spalla dopo essere stati picchiati da uomini in uniforme per aver esercitato i loro diritti. Vedere la gioventù lottare per un Honduras migliore mi dà forza e ispirazione. Può essere duro, ma io amo totalmente il mio lavoro. Amo essere una giornalista e amo difendere i diritti umani.

Cosa diresti a un/una giovane attivista – in Honduras o dovunque nel mondo – che sta lottando in una situazione apparentemente senza speranza?

Tutto cambia. Nessun male dura per sempre, perciò non disperare. Aggrappati alla speranza, aggrappati alle tue motivazioni per cambiare il sistema.

Coloro che stanno danneggiando il mondo sono meno di quelli come noi che stanno lottando per correggerli. Noi dobbiamo ricordare questo e concentrarci su questo.

C’è qualcosa d’altro che vorresti aggiungere?

L’Honduras è uno splendido paese ma ha bisogno di molta solidarietà a livello internazionale. Circa una dozzina di persone controlla le ricchezze del paese e opprime le comunità locali. Vorrei che la gente venisse a vedere di persona. Io dirigo un’organizzazione per la democrazia e i diritti umani; se una giovane persona vuole venire in Honduras a dare una mano, noi siamo felici di darle il benvenuto: accogliamo sempre i volontari.

( http://penhonduras.org/ )

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(“Visionary and creative resistance: meet the women challenging extractivism – and patriarchy”, di Inna Michaeli e Semanur Karaman per Open Democracy, 3 maggio 2017, trad. Maria G. Di Rienzo.)

“Cos’è lo stato? Noi siamo lo stato! Lo stato è lo stato grazie a noi.” disse Havva Ana (Madre Eva), una donna di 63 anni che, nel luglio 2015, partecipò a una dimostrazione per bloccare la demolizione delle antiche foreste a Rize, in Turchia.

havva ana

Quel che Havva Ana (in immagine qui sopra) intendeva è che lo stato dipende dal popolo per la sua legittimazione – e che non deve dare priorità al profitto a breve termini rispetto ai diritti e al benessere. Le foreste di Çamlıhemşin hanno, per centinaia di anni, fornito mezzi di sussistenza e connessioni ancestrali nella regione del Mar Nero.

Messa di fronte alla distruzione, la donna ha resistito ai bulldozer e alle forze di sicurezza, formando una catena umana con altri dimostranti per arrestare la loro avanzata. Si è confrontata con la violenza con tutto quel che aveva: mettendo il suo corpo in prima linea. La polizia ha rimosso i manifestanti dal luogo con la forza, permettendo alla demolizione di continuare.

Havva Ana fa parte di un più vasto ecosistema di donne che lottano in prima fila per difendere terra, ambienti e modi di vivere dal violento modello di “sviluppo” basato sulle attività estrattive e sulla mercificazione senza limiti della natura. Questo è un lavoro pericoloso e le difensore dei diritti umani e dell’ambiente hanno dovuto fronteggiare attacchi sistematici. A livello globale, le élite economiche e politiche stanno distruggendo il pianeta, violando gli standard internazionali sui diritti umani e i trattati che proteggono i diritti dei popoli indigeni.

Nel 2015, 156 omicidi sono stati registrati dallo speciale rapporteur sullo stato dei diritti umani delle Nazioni Unite: il 45% era costituito da difensori/e di diritti ambientali, sulla terra e indigeni. Nello stesso anno, l’ong Global Witness documentò l’assassinio di 185 difensori/e dei diritti umani in 16 paesi, con Brasile, Filippine e Colombia in testa alla classifica per omicidi di attivisti indigeni.

L’assassino di Berta Cáceres, avvenuto l’anno scorso nella sua casa in Honduras, seguito ad anni di attivismo per proteggere il fiume Gualcarque dal progetto idroelettrico “Agua Zarca”, emblematico delle ritorsioni contro le donne che resistono alla distruzione dell’ambiente e a interessi potenti. Recente evidenza legale indica che il governo dell’Honduras possa aver collaborato con forze paramilitari addestrate negli Usa per ucciderla. Molte altri attacchi e omicidi non sono neppure denunciati.

Nel frattempo, una nuova ricerca di AWID e della Coalizione Internazionale delle Difensore dei Diritti Umani delle Donne, basata su consultazioni con donne che vivono in Africa, Asia e America Latina, rivela chiari schemi con specifiche di genere della violenza contro le donne che difendono terre e comunità – e guarda alle strategie delle donne per l’azione e la resistenza contro le industrie estrattive e il potere delle corporazioni.

“Quando mi minacciano, dicono che mi uccideranno ma che, prima di uccidermi, mi stupreranno. Non dicono questo ai miei colleghi maschi. Tali minacce sono dirette molto specificatamente alle donne indigene.”, dice Lolita Chavez (in immagine qui sotto), una difensora indigena dei diritti umani delle donne che vive in Guatemala, nella sua testimonianza raccolta come parte di questa ricerca.

lolita chavez

Molti difensori dei diritti umani in tutto il mondo fronteggiano criminalizzazione, stigmatizzazione e violenza, ma le donne fanno esperienza di minacce addizionali legate al genere. Per esempio, la stigmatizzazione può comprendere termini sessualmente degradanti o il mettere in discussione la donna come cattiva madre; la marginalizzazione economica delle donne può rendere difficile raccogliere il denaro per la cauzione se sono arrestate; forze di sicurezza private, forze paramilitari e membri della polizia che proteggono gli interessi corporativi hanno usato stupro, aggressione sessuale e intimidazione contro le donne difensore dei diritti umani. E’ importante sottolineare come le donne che si confrontano con le industrie estrattive sfidino non solo il potere delle corporazioni, ma anche il patriarcato e devono affrontare la repressione su ambo i fronti.

Mirtha Vázquez, una difensora dei diritti umani del Perù, dice: “Per noi, lo sviluppo ha a che fare con il benessere e la dignità delle persone e con la loro autodeterminazione su come vogliono vivere.” Nonostante il trattamento violento che fronteggiano troppo sesso, le donne difensore di terra, popolo e natura sono state visionarie e creative. La nostra ricerca sottolinea anche il loro lavoro di successo e ispirativo. Una delle storie di questo tipo è quella di Aleta Baun, una donna indonesiana che ha viaggiato di villaggio in villaggio per organizzare l’opposizione locale a una cava di marmo.

Ha dovuto subire arresti, pestaggi e minacce di morte. Ma con coraggio e determinazione ha raggiunto centinaia di persone e assieme ad altre donne ha passato un anno intero occupando l’ingresso a un sito di scavo, tessendo stoffe tradizionali. Nel 2010, dopo un anno di questa protesta pacifica, la pressione dell’opinione pubblica ha costretto le compagnie commerciali ad abbandonare le operazioni. Nel 2013, Baun ha vinto il Premio Goldman per l’Ambiente.

In tutto il mondo, le donne stanno chiedendo di mettere fine al potere delle corporazioni nel distruggere il pianeta per interessi a breve termine e avidità, e portano avanti visioni di sviluppo che hanno come interesse centrale le persone e la natura. Come spiega Bonita Meyersfeld, docente di diritto all’Università di Witwatersrand a Johannesburg: “Un progetto che genera benefici economici può essere chiamato “sviluppo” solo se tali profitti sono reinvestiti nella comunità. Altrimenti, stiamo parlando di sfruttamento, non di sviluppo.”

Molte altre migliaia di donne da ogni parte del mondo, oltre a quelle menzionate, stanno resistendo all’equazione sviluppo con investimenti stranieri e profitto per pochi. Invece, stanno offrendo una critica e progressista visione di uno sviluppo guidato dall’autodeterminazione, dalla dignità e dal rispetto e cura per la natura. Dobbiamo ascoltarle.

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I rischi che fronteggiano hanno molte forme, incluse le molestie, le campagne diffamatorie e la violenza fisica – non solo contro di loro, ma spesso anche contro le loro famiglie. Sperimentano l’esaurimento a causa del loro impegno e il ruolo vitale che giocano è sovente non visibile all’opinione pubblica. Pure, rifiutano di smettere di lottare perché credono che i nostri diritti umani dovrebbero essere protetti e rispettati.”

Chi sono? Sono le difensore dei diritti umani delle donne e così sono presentate nella campagna organizzata da Global Fund for Women, JASS (Just Associates), e MADRE:

https://www.globalfundforwomen.org/defendher/

Mentre crescono estremismo politico e restrizioni dirette ai gruppi della società civile, le difensore si trovano davanti attacchi sistematici che hanno lo scopo di ridurle al silenzio. – continua la presentazione – Dozzine di esse sono state uccise o imprigionate per aver parlato di sesso, per aver difeso i fiumi, per aver portato alla luce la corruzione. Tramite la campagna DefendHer stiamo rendendo visibili il loro ruolo e i rischi da esse affrontati nella speranza che ottengano sostegno e che si rispettino la loro sicurezza e le loro voci. Questa campagna presenta le storie di 14 incredibili difensore dei diritti umani e dei gruppi in tutto il mondo che, nonostante minacce e rappresaglie stanno lavorando per: mettere fine alla violenza contro le donne; far avanzare i diritti delle persone LGBTI; proteggere il pianeta e i diritti delle comunità indigene e molto altro.”

defendher

(Illustrazione originale per la campagna dell’artista femminista María María Acha-Kutscher, https://lunanuvola.wordpress.com/2015/07/03/mujeres )

Poiché l’appello dice chiaramente “diffondete le loro storie, passate parola e accendete conversazioni sul loro lavoro”, ma tradurre tutti i pezzi mi costringerebbe a comprare occhiali nuovi, eccovi un sommario su chi sono queste donne:

Marta Alicia Alanis, lavora in Argentina, fa parte dei Cattolici argentini per l’autodeterminazione e della Campagna nazionale per il diritto all’aborto legale, sicuro e gratuito.

Nelle sue parole: “Le donne dovrebbero poter scegliere di diventare madri. Non dovrebbe essere un’imposizione dovuta alla mancanza di accesso a educazione sessuale o contraccettivi, o al destino, o alla semplice sfortuna.”

Alia Almirchaoui, dell’Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq (di cui ho parlato spesso). E’ un’irachena di colore sopravvissuta alla violenza e dalla violenza sta difendendo le sue simili. Nelle sue parole: “Nessuna persona è migliore di un’altra. Io sono qui per difendere la diversità all’interno della società.”

Khadrah Al Sana, dell’organizzazione israeliana Sidreh, che difende la sicurezza delle donne beduine. Nelle sue parole: “Le donne devono vivere in dignità e non devono essere separate dalla società in cui vivono: ognuno ha un ruolo importante nella vita e le donne dovrebbero poter dare e ricevere benefici in questo mondo.”

Bai Bibyaon Ligkayan Bigkay, filippina del gruppo etnico Lumad, lavora nelle associazioni indigene femminili e miste (Sabokahan, Pasaka, Bai). Sta difendendo i territori nel raggio del monte Pantaron e chiedendo il ritiro dei gruppi militari e paramilitari.

Nelle sue parole: “Voglio che le giovani generazioni abbiamo una vita migliore di quella che ho fatto io, voglio che godano i frutti dei nostri sacrifici. Il solo ostacolo che la mia età (70 anni) mi pone è qualche limitazione fisica, ma il mio spirito di lotta ha un’energia altissima.”

Azra Causevic, dell’associazione Okvir per i diritti delle persone omosessuali, bisessuali, transgender ecc. di Bosnia ed Erzegovina: vuole una vita dignitosa, libera dalla violenza per tutti.

Nelle sue parole: Dobbiamo difenderci l’un l’altro sempre, in ogni situazione in cui vediamo ingiustizia, proprio perché sappiamo come ci sente a essere dei sopravvissuti.”

Melania Chiponda, Zimbabwe, della WoMin African Gender and Extractives Alliance. Lavora per i diritti delle donne sulla terra e per mettere fine agli abusi sessuali perpetrati dalle forze di sicurezza. Nelle sue parole: “Se porti via la terra alle donne nelle aree rurali, porti via la loro sopravvivenza. Perciò lottiamo. Perché non abbiamo più nulla da perdere.”

Leduvina Guill, nicaraguense dell’ong Wangki Tangni, difende il diritto di donne e bambine a vivere vite senza violenza. Nelle sue parole: “Combattere la violenza contro le donne è cruciale, perché si tratta delle loro vite; come difensora salvi le vite delle donne. I diritti sono molto importanti, le donne soffrono così tanto quando non hanno diritti.”

Magdalena Kafiar, fa parte del FAMM (Forum giovani donne attiviste indonesiane) ed è ministra della chiesa evangelica. Lavora per la difesa dei diritti delle donne e della terra. Nelle sue parole: “Ormai conosco il pericolo, ma mantengo lo spirito dentro di me e mi muovo in avanti. Devo lottare continuamente per rivelare le ingiustizie in Papua.”

Miriam Miranda, della Organización Fraternal Negra Hondureña (OFRANEH), Honduras. Lotta per il rispetto e la sicurezza delle culture indigene, per l’accesso alla terra e alle risorse, per i diritti delle donne. Nelle sue parole: “La lotta, come la vita stessa, dovrebbe essere gioiosa.”

Irina Maslova, dell’organizzazione Silver Rose, Russia. Agisce nell’ambito della protezione dei diritti umani per tutti, compresi gruppi svantaggiati e donne nelle prostituzione. Nelle sue parole: “La rivoluzione comincia dal basso, quando coloro che sono esclusi da questa vita devono lottare per il loro diritto di rientrarci.”

Honorate Nizigiyimana, dell’organizzazione Développement Agropastoral et Sanitaire (Dagropass), Burundi. Lavora per la pace e la sicurezza delle donne nel suo paese. Nelle sue parole: “Sebbene io sia la più anziana della mia famiglia, sono ancora considerata una persona di poco valore. E’ la cultura attuale del Burundi. Sono questi comportamenti che mi hanno condotta a pensare alla promozione dei diritti delle donne.”

Tin Tin Nyo, dell’Unione donne birmane. Lavora in Thailandia per i diritti delle donne e la loro rappresentazione nelle negoziazioni di pace. Nelle sue parole: “La nostra arma più potente è la nostra voce. Abbiamo verità e sincerità. Queste sono le armi che dobbiamo usare per tutte le donne che sono senza voce e senza aiuto.”

Ana Sandoval, Guatemala, del gruppo di Resistenza Pacifica “La Puya”. Lavora per i diritti comunitari sulla terra e per la chiusura della miniera Progreso VII. Nelle sue parole: “Alla fine, tutte le lotte hanno il medesimo obiettivo: la difesa della vita.”

Menzione di gruppo: Forze unite per i nostri “desaparecidos” in Coahuila e Messico.

Le donne sono Yolanda Moran, Angeles Mendieta, Blanca Martinez. Vogliono giustizia e verità per le famiglie delle persone “scomparse”. Dice Blanca Martinez: “Noi crediamo che bisogna battersi per i propri diritti e difenderli, nessuno li difenderà per noi se non lo facciamo.”

Maria G. Di Rienzo

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La chiamano l’erede di Berta Cáceres (ambientalista e femminista dell’Honduras uccisa nel marzo di quest’anno). Fa parte del popolo indigeno Lenca, ha ventinove anni e cinque bambini. E’ la donna grazie al cui costante impegno la costruzione di una diga sul fiume Chinacla è stata fermata: per questo e per la lotta diretta al riconoscimento delle terre indigene nel dipartimento di La Paz, contro la distruzione ambientale operata in Honduras dalle corporazioni economiche, Ana Mirian Romero ha ricevuto lo scorso giugno a Dublino il premio annuale per i difensori dei diritti umani conferito dall’organizzazione Front Line Defenders.

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La lotta contro la diga idroelettrica è durata cinque anni, sino a che il governo dell’Honduras è stato costretto nel 2015 a riconoscere la sovranità Lenca su terre e fiume: risultato ottenuto grazie al Milpah – Movimento indigeno Lenca di La Paz e al Consiglio indigeno di San Isidro Labrador, le due organizzazioni in cui Ana Mirian Romero svolge un ruolo guida.

Questa è una vittoria che celebrerò per sempre, perché siamo stati in grado di mantenere un fiume libero e incontaminato. – dice Ana – L’acqua è una fonte di vita che sostiene gli esseri umani. Senz’acqua, non saremmo umani. Ora le terre e il fiume sono nelle nostre mani. Noi non combattiamo, noi difendiamo. Difendiamo il fiume perché ci dà sostegno: il nostro cibo, l’acqua che beviamo, le nostre coltivazioni, i nostri animali. Per questo siamo perseguitati e minacciati, ma lo facciamo per il futuro dei nostri bambini.”

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L’Honduras ha un triste primato: è il paese che in rapporto alla propria popolazione ha il più alto tasso di ambientalisti assassinati. Gli attivisti fronteggiano continuamente le aggressioni di polizia, esercito, forze paramilitari e scherani prezzolati delle varie corporazioni economiche. Ad Ana e alla sua famiglia non è stato risparmiato nulla di tutto ciò. Nel tentativo di proteggere i figli dalle minacce di morte Ana e suo marito Rosalio Vasquez Pineda li hanno ritirati da scuola, ma le minacce non sono restate per strada e il 29 gennaio 2016 la loro casa è stata rasa al suolo da un incendio doloso che solo per fortuna non ha fatto vittime. Ma ciò non ha altro effetto su Ana Marin Romero che renderla ancora più convinta e più forte.

Io sono senza paura – dice ancora Ana – perché anche se qualcosa mi accadesse so che le organizzazioni internazionali per i diritti umani sono con noi. E ricorderò per sempre Berta Cáceres. Ha avuto influenza su molte delle organizzazioni indigene in Honduras e proprio a lei ci siamo ispirati per costituire le nostre. La lotta in Honduras deve avanzare di più e con più forza. Se non facciamo nulla le compagnie commerciali si prenderanno fiumi e terre e non lasceranno in vita un solo albero.” Maria G. Di Rienzo

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Il 17 e 18 giugno 2016 più di 80 attiviste provenienti da Costa Rica, Salvador, Honduras, Guatemala, Panama e Nicaragua si sono riunite nella capitale di quest’ultimo paese, Managua, per un simposio femminista dell’America Centrale. Le organizzatrici erano le donne del gruppo Programa Feminista La Corriente – http://lacorrientenicaragua.org/

L’evento, come potete vedere dall’immagine sottostante, si chiamava “Corpi che sfidano e costruiscono nuove realtà”.

simposio femminista 2016

Il fulcro dei dialoghi era il dare una cornice alla difficile realtà sperimentata dalle donne dell’America Centrale per migliorare l’attivismo teso a cambiarla. I numeri del femminicidio nella regione continuano a essere molto alti; i fondamentalismi religiosi sono in crescita (“Sembra che i nostri Paesi non siano governati da Costituzioni, ma dalla Bibbia”, ha detto una delle partecipanti); i diritti delle donne fanno passi indietro (ad esempio con la criminalizzazione dell’aborto terapeutico); le gravidanze di adolescenti aumentano a causa della mancanza di educazione sessuale e riproduttiva, e la situazione è peggiorata dall’impazzare della violenza di genere sui social media e dallo sciovinismo dei giovani uomini che la agiscono in condizioni di impunità.

Le attiviste hanno discusso varie strategie e tecniche, sottolineato la necessità per chiunque sia impegnata in lotte e campagne a lungo termine – che richiedono alti prezzi in termini di esaurimento emotivo – ad avere cura di sé e a ricevere sostegno, e l’intenzione di creare nuovi spazi di dialogo fra femministe di differenti generazioni: “Le giovani possono imparare dalle veterane e queste ultime possono essere influenzate dall’energia e dalle idee nuove di quelle che sono appena arrivate.” Inoltre, ha concluso il simposio, c’è l’urgente necessità di documentare il lavoro del movimento delle donne: “Dobbiamo lavorare per maneggiare meglio la conoscenza femminista, diffondere, socializzare e condividere Storia. Il patriarcato è enorme, violento e predatorio perché troppo poco è stato fatto per smantellare i suoi miti.”

Ma il commento forse più bello e più azzeccato è stato quello di Esperanza White, attivista femminista del Nicaragua: “Sono commossa e rallegrata da quel che sto pensando… e cioè che la nostra forza come donne sta nelle differenze fra noi. Lesbiche, indigene, disabili, di origini africane, transessuali, eterosessuali… corpi differenti con una stessa anima e gli stessi problemi.”

Riguardate la fotografia. Sono tutti là, corpi diversi, corpi giovani e corpi anziani, corpi chiari e corpi scuri, con ogni possibile sfumatura nel mezzo. Corpi non addomesticati dall’oggettificazione sessuale e dalla recita patriarcale di una “femminilità” fasulla. Corpi come questi sono in se stessi una sfida e una gloria e una promessa. Maria G. Di Rienzo

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berta caceres

Berta Càceres – ambientalista, femminista, attivista per i diritti umani e i popoli indigeni – è stata assassinata, in Honduras, nella notte fra il 2 e il 3 marzo. Avevo scritto di lei qui:

https://lunanuvola.wordpress.com/2014/08/17/nessun-dominio-su-di-me/

Adesso voglio solo dirle che il fiume continuerà a cantare il suo nome, sul suolo resterà la sua impronta e nessun vivente che lei ha protetto e amato, per cui ha lottato e vissuto, la dimenticherà mai.

dipinto di diana bryer

¡hasta luego! Maria G. Di Rienzo

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Il direttore del quotidiano cattolico “Avvenire”, Marco Tarquinio, così commenta la “nascita surrogata” in casa Vendola: “Il triste mercato dell’umano cresce e ha ingressi di destra e di sinistra. Si smetta di chiamarli diritti.”, si rammarica del “linguaggio politicamente corretto usato in particolar modo dai notiziari del servizio pubblico radiotelevisivo. Un fenomeno impressionante di camuffamento della dura realtà della cosificazione di una madre senza nome, senza volto e ridotta a pura esecutrice di un contratto padronale” e specifica che “tutte le madri surrogate ‘acquistate’ da coppie eterosessuali od omosessuali sono povere e senza potere”.

Magari “oggettivazione” o “oggettificazione” andavano meglio di cosificazione, ma lasciamolo decidere all’Accademia della Crusca, il punto è un altro.

In tutto il mondo gruppi diversi e svariate chiese usano interpretazioni religiose per creare argomentazioni contrarie ai diritti umani, in special modo delle donne. La chiesa cattolica, egregio sig. Tarquinio, non solo non fa eccezione ma da tre anni conduce una lotta al “gender” (un criterio di analisi per le relazioni umane) completamente basata sul nulla, folle quanto violenta.

Non ho da eccepire alla frase “tutte le madri surrogate ‘acquistate’ da coppie eterosessuali od omosessuali sono povere e senza potere”, ma lei si è mai chiesto perché lo sono? Vediamo.

La povertà e la mancanza di potere possono essere viste come semplicemente accidentali: queste donne sono – per caso sfortunato – nate nel posto sbagliato, nella famiglia sbagliata e nell’epoca sbagliata. Ci fanno pena, ma cosa abbiamo noi miseri mortali da opporre al fato?

La povertà e la mancanza di potere possono essere viste come disegno divino: il misterioso e perfetto creatore dell’universo ha deciso così, vuoi per ricompensare degnamente la sofferenza di queste donne dopo la loro morte, vuoi per condurle all’illuminazione tramite triboli e travagli, vuoi perché hanno mangiato una mela proibita all’alba dell’umanità e la devono pagare per sempre. Anche qui, i documentari sulle loro disgrazie ci fanno piangere, ma ci consoliamo con la certezza che dio ne sa di sicuro più di noi… e poi cambiamo canale per vedere un po’ di tette-culi-cosce o la partita.

La povertà e la mancanza di potere possono essere viste come colpa: è probabile che queste donne miserabili non si siano impegnate abbastanza, non abbiano “lavorato duro” come avrebbero dovuto fare, abbiano compiuto scelte sbagliate, ecc. Adesso cosa vogliono, che la collettività si faccia carico del loro mantenimento? Dovremmo dar loro i NOSTRI soldi? Ma sapete quanto costa oggi andare a sciare a Courmayeur come autentici villani rifatti (io lo ignoro, ma potete chiedere a Matteo Renzi)?

Com’è ovvio, sig. Tarquinio, lei e io siamo consapevoli che di altro si tratta. Le donne sono i poveri del mondo (circa 80%), sono gli analfabeti del mondo (circa 70%) e sono le principali vittime di violenza ovunque perché sono donne. Cioè, sono stimate inferiori, incomplete, intrinsecamente incapaci e persino malvagie sulla base del loro sesso: costruire una mistica su un dato biologico e farla passare per “natura” o per “volontà di dio” è quanto la sua chiesa e altre hanno fatto per secoli e continuano a fare. In poche parole, il “genere” lo avete creato (anche) voi, perché è IMPOSSIBILE determinare in base al sesso di nascita le capacità, le attitudini e le inclinazioni di un essere umano. Quindi, attribuire a lui o lei dei “ruoli” predeterminati non è naturale, è prescrizione della comunità, precetto religioso e costume sociale.

Sinteticamente, le donne povere e senza potere di cui si acquistano gli uteri come se fossero macchinari sono tali grazie allo stigma posto sul loro genere e devono restare povere e senza potere per mantenere in essere una struttura di potere piramidale. Sulla vetta di quest’ultima banchettano una manciata di uomini – in maggioranza bianchi – che ricavano profitto dal loro sfruttamento lavorativo, emotivo, familiare, sessuale, ma ai livelli intermedi anche il maschio più derelitto può ricavare senso di legittimazione e scampoli di dominio credendo di essere superiore alle donne: infatti, quando queste ultime si ribellano in qualche modo alla faccenda il maschio stressato, disoccupato, in preda a raptus, depresso ecc. ecc. non ha altra scelta che “raddrizzarle” a botte o scannarle in via definitiva.

Non so se quel suo “si smetta di chiamarli diritti” nasconda un’insofferenza al discorso dei diritti umani in sé, ma ora che le ho detto perché in maggioranza le donne sono povere e senza potere le dirò come le si mantiene tali: negando loro il godimento dei loro legittimi diritti umani, quelli che la Dichiarazione di Vienna definisce “universali, indivisibili, interdipendenti e interconnessi”, in nome della cultura, della religione e della tradizione.

CEDAW, Protocollo di Maputo e Convenzione di Belem do Para obbligano infatti gli Stati firmatari a eliminare costumi e pratiche basati sull’idea dell’inferiorità o della superiorità di un sesso rispetto all’altro, riconoscendo che i ruoli stereotipati imposti a donne e uomini legittimano o esasperano la violenza contro le donne – che è sessuale, domestica, politica, economica… che le rende meri corpi esistenti per la soddisfazione degli uomini, in ogni senso. E che devo dirle, sig. Tarquinio, i governi firmano e i firmatari si fanno ritrarre con la penna in mano e i sorrisi smaglianti, ma spesso poi non applicano quel che hanno sottoscritto: principalmente per non disturbare le chiese presenti sul territorio nazionale, beninteso quelle che hanno potere, soldi, influenza sull’opinione pubblica ed è purtroppo il caso della chiesa sua.

In Salvador, per soddisfare la chiesa cattolica, le leggi che impediscono l’interruzione di gravidanza sono così medievali che le donne vanno in galera per gli aborti spontanei. In Paraguay, per soddisfare la chiesa cattolica, una bambina di 11 anni, rimasta incinta dopo uno stupro, è stata costretta a partorire contro la sua volontà. Nelle Filippine, per soddisfare la chiesa cattolica, l’aborto è illegale in ogni caso.

Astinenza: chiaramente non efficace al 100%

Astinenza: chiaramente non efficace al 100%

E dove la chiesa cattolica fomenta la convinzione che le persone omosessuali siano “sbagliate”, “confuse”, “malate” e così via, accadono cose spiacevoli come la morte di Paola Barraza (Comayaguela, Honduras – 24 gennaio 2016), attivista transgender per i diritti umani. In precedenza, nell’agosto 2015, Paola era già stata attaccata in prossimità della sede dell’ong in cui lavorava (Asociación LGTB Arcoíris): raggiunta da numerosi colpi di arma da fuoco era rimasta gravemente ferita ma era sopravvissuta. Il 24 gennaio scorso gli assassini hanno bussato direttamente alla porta di casa sua e quando ha aperto le hanno sparato tre volte in testa e due al petto. Nella settimana successiva ancora nessun investigatore si stava occupando del caso.

Paola Barraza è morta perché voleva quel che era già suo e le veniva negato: diritti umani. Innumerevoli donne, ragazze e bambine muoiono, sono vendute e comprate, stuprate e battute e vivono esistenze infernali per la stessa ragione: sono viste come meno-che-umane e i loro diritti sono subordinati ai loro supposti imprescindibili “ruoli” nella famiglia e nella società – guarda caso, sono tutti ruoli di servizio agli uomini.

Allora, sig. Tarquinio, se degli uomini pensano sia loro “diritto” comprare l’utero di una donna la colpa non è del “politicamente corretto”, ma sta un po’ più a monte. Per esempio, qualcuno che con questa colpa ha molto a che fare si affaccia a volte da un balcone, la domenica, per benedire urbi et orbi. Maria G. Di Rienzo

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Aurelia

Aurelia Martina Arzú ha cinquant’anni e vive in Honduras. Poiché nessuna lista delle “donne più qualcosa del 2015” la include, ho deciso di celebrarla io. La sua esclusione dalle liste di belle – sexy – eleganti – ricche – famose eccetera non è una sorpresa e tanto meno una preoccupazione sia per lei sia per me: la cosa strana è che nessuno sta facendo una lista celebrativa delle donne come Aurelia, quelle che sono importantissime perché con il loro lavoro tengono insieme questo mondo, lo curano, lo cambiano in meglio.

Nello specifico Aurelia, che fa parte dell’associazione di attiviste/i Ofraneh (Organización Fraternal Negra Hondureña), è determinata:

a proteggere la sua comunità dalle devastazioni imputabili al cambiamento climatico (di cui ha fatto esperienza in prima persona quando il suo villaggio, Santa Rosa de Aguan, fu semidistrutto da un uragano);

a lottare con le persone Garifuna – i discendenti di africani, caraibici e arawak che vivono nell’America Centrale – per i loro diritti sociali, economici, culturali e territoriali;

a mettere fine alla violenza domestica e al patriarcato nella propria cultura.

I problemi che avevamo dopo l’uragano, nel 1998, – racconta Aurelia – hanno i loro strascichi ambientali ancora oggi. Il cambiamento climatico ha distrutto molte delle risorse naturali a cui facevamo riferimento. Le 46 comunità Garifuna, per la maggior parte stanziate sulla costa, sono a rischio di sparizione: la tradizione le connette profondamente alla Terra tramite l’agricoltura, la pesca, le fattorie e tutto questo è svanito o in pericolo di svanire. I soldi possono andare e venire, ma difendere il suolo è di vitale importanza, il suolo dura la vita intera.”

L’attivista dice anche che le donne Garifuna sono eccezionalmente forti e presenti nella lotta per i diritti sulla terra: “Se c’è una dimostrazione, le donne Garifuna ci sono. Se ci sono assemblee, le donne Garifuna si alzano e prendono parola. Se c’è da proteggere i bambini, le donne Garifuna sono le prime. Nonostante facciano esperienza di violenza domestica, manchi loro indipendenza economica e siano oppresse dal machismo, ci sono. Le donne devono avere i loro diritti: il diritto alla libertà, a fare quel che desiderano delle loro vite, perché possono. E dovrebbero avere il diritto di scegliere il/la proprio/a partner. Il patriarcato e il machismo devono essere eliminati affinché le donne possano essere se stesse e agire in base a se stesse, non in base a ciò che è stato loro imposto.”

Nel tempo libero che riesce a ritagliarsi, ad Aurelia piace ballare. E’ anche l’allenatrice della squadra di calcio locale: una squadra maschile, per vostra informazione. Maria G. Di Rienzo

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Cosa condividono queste persone, così diverse per età, nazionalità, tipo di attivismo? Sono difensore dei diritti umani delle donne e rifiutano di ritirarsi pur dovendo affrontare violenza e persecuzioni. C’è un altro termine con cui possono essere definite: femministe. Sapete, quelle che passano il tempo a ordire complotti contro gli uomini e hanno come unica preoccupazione trovare qualcuno che vada a letto con loro…

Questa è Atena Daemi, iraniana.

atena daemi

Ha fatto campagne per i diritti dei bambini e delle donne e contro la pena di morte. Nell’ottobre 2014 è stata arrestata e detenuta in un ospedale per mesi prima del processo. Nella clinica Sadeghiyeh, Atena è stata torturata: al punto che ha contratto una malattia della pelle (stare molto tempo incatenate su un tavolo da operazioni chirurgiche non è sano, pare), perso vista e sofferto di un attacco cardiaco. Il 14 maggio 2015 il Tribunale rivoluzionario dell’Iran l’ha condannata a 14 anni di prigione: perché l’aver dimostrato a favore dei bambini di Kobane in Siria, l’ascoltare le canzoni di protesta di Shahin Najafi e postare su FB articoli contro la pena capitale nel proprio paese equivalgono per i dotti giuristi a “assembramenti illegali, propaganda contro lo stato, blasfemia e insulti al supremo leader dell’Iran”.

Questa è Yadanar Su Po Paing, meglio nota come “Po Po”.

po po

Ha vent’anni ed è membro della Federazione nazionale birmana degli studenti, un’organizzazione che ha organizzato la protesta conto il… decreto “buona scuola” del proprio paese, una legge che limita la libertà accademica e marginalizza lingue e culture di etnie diverse. Po Po è stata una delle leader delle dimostrazioni degli studenti. L’8 aprile 2015 è stata prelevata da casa e buttata in prigione, con l’accusa di aver partecipato a “raduni illegali” e “sommosse”. Lo scorso luglio, un tribunale di Rangoon l’ha rilasciata dietro cauzione.

E questa è Gladys Lanza Ochoa, 73enne difensora dei diritti umani che vive in Honduras.

gladys

Gladys ha cominciato a lavorare per la giustizia sociale, per i diritti umani e per i diritti dei lavoratori quando il suo paese era ancora sotto dittatura militare, negli anni ’60 dello scorso secolo. In quel periodo era la voce del sindacato. Dal 2002 è la coordinatrice del Movimento delle donne per la Pace “Visitación Padilla”, un’organizzazione di cui fanno parte donne provenienti da ogni angolo dell’Honduras e il cui scopo è affrontare la violenza di genere e favorire la partecipazione delle donne alla vita pubblica, assieme alla democrazia e ai diritti umani. L’organizzazione subisce continuamente intimidazioni poliziesche e giudiziarie. Nel marzo 2015, Gladys è stata condannata a 18 mesi di prigione per aver assistito legalmente una donna che aveva denunciato Juan Carlos Reyes, un membro del governo, per molestie sessuali. La motivazione della sentenza è che il signor Reyes avrebbe sofferto di “diffamazione”.

Le attiviste dell’articolo di Front Line Defenders, da cui ho tratto le immagini, sono 12, una per ogni obiettivo stabilito dalla Piattaforma d’Azione di Pechino scaturita dalla Conferenza mondiale sulle Donne di due decenni fa. Potete leggere tutte le loro storie su:

https://medium.com/@FrontLineDefenders/beijing-platform-for-action-b6f4403c42f4

Maria G. Di Rienzo

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