(tratto da: “Preventing violence against women: a sluggish cascade?”, un più ampio intervento di Anne Marie Goetz per Open Democracy, 25 novembre 2014, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Anne Marie Goetz è docente universitaria e capo-consigliera su pace e sicurezza per l’Agenzia Donne delle Nazioni Unite.)
La violenza contro le donne fa notizia a livello internazionale. Joyti Singh Pandey fu stuprata e torturata da un gruppo di persone su un autobus di Delhi e morì qualche settimana dopo nel dicembre 2012. Anene Booysen, in Sudafrica, fu stuprata e torturata da un gruppo di persone e morì nel febbraio 2013. Questi casi innescarono locali proteste di massa che collegavano la violenza contro le donne ai grotteschi fallimenti dei governi. La veemenza delle proteste e le richieste di giustizia e cambiamento sociale furono udite in tutto il mondo.
La violenza contro le donne in situazioni di conflitto, dal Sudan del sud al Congo orientale all’Ucraina, fino alle atrocità commesse dall’ISIS, non è più ignorata come inevitabile danno collaterale e resa invisibile alla Storia come nel passato. L’eliminazione di questa violenza è inserita nella bozza “Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile – i successori degli Obiettivi per lo Sviluppo del Millennio 2000/2015. Ma la violenza continua ad avvenire.
Condanne chiare, formulazione di nuove leggi e dichiarazioni internazionali, addestramento di polizia e personale giudiziario, coalizioni di uomini contro la violenza: cosa manca? Che noi si sappia i nomi delle vittime, che noi si abbia una consapevolezza maggiore dell’estensione e degli schemi della violenza contro le donne, che partiti politici promettano di mettervi fine, che i peacekeeper internazionali abbiano mandato di prevenire la violenza sessuale: questi sono tutti segni della “cascata” di impegni nazionali e globali per cancellare questo pervasivo abuso dei diritti umani.
Le teoriche delle relazioni internazionali identificano tre stadi nei cambiamenti normativi ove istanze che erano in precedenza considerate intrattabili prendono il centro dello scenario: si va dall’emergere della norma alla sua “cascata” e infine alla sua interiorizzazione. La “cascata” di condanne della violenza contro le donne è uno dei passaggi normativi più clamorosi della nostra epoca. Ma il terribile fatto che la violenza continua suggerisce il nostro essere bloccati alla fase della “cascata”. Qualcosa sta bloccando la fase successiva che vedrebbe di routine: interventi di efficace prevenzione della violenza, processi decisivi e condanne legali e ovunque alternative significative per le donne alla dipendenza economica da specifici uomini.
Io ritengo ci siano tre ragioni per il blocco. Primo, la vasta condanna pubblica del problema ha spesso portato a soluzioni prive del contenuto femminista: e perciò tali soluzioni falliscono nell’affrontare le cause che stanno alle radici del problema stesso. Secondo, le più forti agenti del cambiamento – le organizzazioni femministe – non riescono a fare il loro essenziale lavoro in contesti di sempre più grave diseguaglianza sociale e insicurezza. Terzo, c’è stata di recente un’interruzione della solidarietà internazionale che può essere assai potente nell’affrontare questa violenza.
Le femministe hanno sempre detto che la violenza contro le donne è mossa da profonde diseguaglianze fra uomini e donne, diseguaglianze che celebrano mascolinità violente. Nulla di meno di una drastica trasformazione sociale per eliminare le basi legislative, economiche e politiche dei culti del privilegio maschile metterà fine alla violenza. Ma i cambiamenti sociali profondi non “vendono” politicamente e investono orizzonti temporali che vanno oltre il ciclo elettorale: perciò, invece di proporre cambiamenti a lungo termine, colleghiamo la prevenzione della violenza alla riduzione del crimine. Invece di investire seriamente nella smilitarizzazione e nel pacifismo per contrastare la violenza sessuale negli scenari di conflitto, riasseriamo che si tratta di un metodo di combattimento illegale e chiediamo per esso responso militare/giudiziario. Ci concentriamo nell’acciuffare i perpetratori e mettere fine all’impunità, ma non sulla discriminazione che la alimenta. Senza una trasformazione sociale in mente, i provvedimenti sono come il tentare di fermare una fuoriuscita di petrolio da un pozzo danneggiato spargendoci sopra una colata di cemento. L’abuso continua semplicemente ad arrivare. Togliere il progetto di cambiamento sociale femminista dalla definizione della violenza contro le donne e dalle soluzioni prospettate per essa rende le soluzioni stesse paternalistiche e inefficaci.
Ciò ci conduce al secondo punto: il futuro incerto delle organizzazioni femministe nella lotta alla violenza contro le donne. Noi sappiamo che movimenti di donne diversificati e consistenti, con autonomi gruppi femministi (autonomi sta per non controllati dallo stato, da partiti, da interessi tradizionali o privati), sono la chiave per fermare la violenza contro le donne. Le organizzazioni femministe in primo luogo politicizzano l’istanza, portandola fuori dalla vergogna personale e verso un crimine serio che richiede pubblica risposta. Le organizzazioni femministe continuano a fornire rifugio, aiuto legale e risorse alle donne affinché costoro possano costruirsi vite migliori. Il finanziamento alle organizzazioni femministe è cruciale.
Integrare le organizzazioni femministe negli sforzi pubblici di affrontare il problema – come consigliere, esperte, fornitrici di servizi antiviolenza – dovrebbe essere un elemento irrinunciabile di ogni piano di prevenzione nazionale. Ma le organizzazioni femministe continuano nella maggioranza dei contesti ad avere scarse finanze e ad essere escluse dalla formazione delle politiche in materia. Questo è il terzo punto: le ricerche sul finanziamento laico dei gruppi di donne indicano che esso sta da tempo declinando. Il sostegno finanziario è disperatamente necessario soprattutto nelle situazioni di conflitto, ma in quei casi le organizzazioni di donne raramente soddisfano gli standard richiesti dai donatori esterni. A questo proposito, il fondo stabilito dall’Olanda nel 2013 per sostenere le organizzazioni di donne in Medioriente – “Donne in prima linea” – è un’eccezione, costituito com’è non per portare avanti attività decise dal donatore, ma semplicemente per aiutare le donne a costruire capacità e gruppi di consenso. Perché una base di sostenitori è quello di cui c’è bisogno, una base in grado non solo di protestare nelle strade, ma di sostenere e poi monitorare rappresentanti politici affidabili. L’evaporazione delle donne nelle proteste pro-democrazia, dalla Primavera Araba all’Ucraina, ove la lotta si è spostata sul piano parlamentare o sul confitto armato, mostra la fragilità della base di sostegno femminista, almeno se confrontata con la capacità di forze conservatrici ben strutturate di diffondersi nel vuoto politico.
Il fattore che distingue l’azione di massa a breve termine dalla continua azione collettiva per far avanzare agende progressiste, è l’impegno della classe media e l’assorbimento delle agende da parte di partiti politici e sindacati. Ma in moltissimi paesi la classe media si sta riducendo a causa del velocissimo aumento della diseguaglianza economica. La drammatica polarizzazione fra ricchi e poveri lascia nel mezzo scarso spazio. La politica confiscata dalle élite e la loro capacità di fuggire o di isolarsi dagli orrori sociali indebolisce gravemente la democrazia, così come le idee sulla comune dignità di base di tutti gli esseri umani.
Tempi difficili e povertà incombente impediscono alle azioni collettive delle donne di raggiungere qualcosa di più di una solidarietà tesa alla sopravvivenza. Senza risorse la mobilitazione femminista e il suo progetto di cambiamento sociale per mettere fine alla violenza contro le donne entrano in stallo. Gli approcci femministi per fermare la violenza contro le donne sono sempre partiti da una posizione minoritaria. Le loro sfide ai privilegi maschili incontrano un contrattacco spesso violento. Le loro proposte di cambiare la suddivisione del lavoro e i valori sociali incontrano incredulità ed obiezioni dottrinali. Perciò non è un caso che gli approcci femministi abbiano ottenuto visibilità senza precedenti attraverso il networking internazionale: leader femministe isolate e assediate sono state capaci di usare la “rete” non solo per ottenere solidarietà e per raccogliere fondi, ma per far avanzare le norme internazionali sui diritti delle donne, rafforzando in tal modo le loro posizioni nelle lotte politiche “domestiche”.
La solidarietà internazionale ha fornito influenza e ascendente ai gruppi femministi. Dal 1975 il meccanismo più potente per ottenere ciò è stata la periodica Conferenza sulle Donne delle Nazioni Unite. Il prossimo anno segnerà il 20° anniversario della Conferenza di Pechino e della sua Piattaforma d’Azione: in settembre, l’Assemblea Generale passerà una giornata a riflettere sui progressi da Pechino in poi, un evento in cui sono garantite le affermazioni ipocrite e false su quanto i singoli governi stanno facendo per migliorare le vite di donne e bambine. Ma almeno la “cascata” sarà messa alla prova.
Una quinta Conferenza sui diritti delle donne non fermerà la violenza contro le donne. Però potrebbe dare una spintarella alla “cascata” di impegni presi su carta affinché diventino interventi di prevenzione più normalizzati e di routine. Per il 2015 è tardi. Ma la lotta per mettere fine all’aspetto più persistente della diseguaglianza di genere – la violenza contro le donne – dovrebbe ora far sua la richiesta di una Quinta Conferenza Mondiale sulle Donne da tenersi al più presto possibile. Potrebbe spingere il movimento della “cascata” all’interiorizzazione degli sforzi per porre fine alla violenza.