(brano tratto da: “Salvadoran Woman Becomes First Person to Be Granted Asylum Due to Regressive Abortion Laws”, di Kathy Bougher per Rewire, 28 marzo 2017. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)
“E’ ora che si sia noi donne a prendere le decisioni sui nostri corpi.” Maria Teresa Rivera (in immagine).
La scorsa settimana, a Maria Teresa Rivera del Salvador è stato garantito asilo politico in Svezia sulla base della sua incarcerazione per accuse relative all’aborto: è la prima persona nella storia a ricevere una protezione di questo tipo. L’Agenzia per la Migrazione della Svezia ha reso nota la sua decisione a Rivera il 20 di marzo. (…)
L’aborto è diventato illegale in Salvador, qualsiasi ne siano le circostanze, dal 1997. Oltre a bandire l’interruzione di gravidanza, la legge è sovente mal applicata a donne che sperimentano problemi ostetrici e cercano servizi medici d’emergenza negli ospedali pubblici. Questo è stato il caso di Rivera. Nel 2011, Rivera abortì spontaneamente nella latrina di casa e il feto morì. Priva di sensi, grondante sangue e a stento viva fu portata in un ospedale pubblico dove fu accusata di essersi procurata l’aborto e mandata in prigione. Nel 2012 fu condannata per omicidio aggravato, anche se le prove mostravano che la morte del feto era un tragico ma naturale incidente e non era dovuto a nessuna azione da lei compiuta. Il giudice la sentenziò a 40 anni di carcere, la condanna più lunga comminata a una donna salvadoregna in base a questa legge.
Durante gli anni che ha passato nell’estremamente sovraffollata prigione femminile di Ilopango, Rivera ha sofferto maltrattamenti da parte delle guardie e a volte dalle altre carcerate, come conseguenza del profondo stigma sociale collegato all’aborto. Come Rivera ha detto in un’intervista a Rewire nel 2016: “Comprendo come molte donne non volessero dire alle altre perché erano là, perché sarebbero state trattate molto male. Ci chiamavano “mangiatrici di bambini” e peggio, ci picchiavano o ci minacciavano. Ma io sapevo di non aver fatto nulla di male, perciò l’ho detto a voce alta. Altre donne allora venivano da me in segreto, perché volevano chiedermi di metterle in contatto con la mia avvocata, di modo da avere aiuto.”
Infine, un tribunale maggiore del Salvador giudicò che il processo che l’aveva portata in prigione era macchiato da errori giudiziari, inclusa la mancanza di prove che Rivera avesse responsabilità nella morte del feto o persino che un qualsiasi crimine fosse stato commesso e ordinò nuovo processo. Dopo anni di ritardi, fu giudicata non colpevole il 20 maggio 2016 e liberata.
Rivera continuò a dover fronteggiare lo stigma nonostante fosse stata dichiarata innocente. Per strada la chiamavano “assassina di bambini”. Inoltre, il pubblico ministero del governo annunciò che avrebbe fatto appello alla sentenza di non colpevolezza e avrebbe tentato di rimandare Rivera in prigione a completare l’originaria sentenza di quarant’anni. Pesando le minacce che continuava a ricevere e la possibilità di tornare in galera, Rivera decise di lasciare il Salvador con il figlio di 11 anni e chiese asilo in Svezia nell’autunno del 2016: “La discriminazione nella società e sul lavoro, assieme alla persecuzione giudiziaria, che dovevo maneggiare quotidianamente mi hanno portata alla decisione di lasciare il mio paese. Non potevo dare un futuro a mio figlio, là. Era esposto a discriminazioni e pericoli.” (…)
Rivera dice che continuerà a essere un’attivista contro le leggi regressive del Salvador: “Sto rompendo il mio silenzio in Svezia per le mie compañeras che sono ancora in prigione in Salvador.” Rivera ha parlato in favore di un progetto di legge introdotto nell’ottobre 2016 che decriminalizzerebbe l’aborto in Salvador in circostanze specifiche: quando la vita e la salute della donna incinta sono a rischio, quando la gravidanza è il risultato di uno stupro e quando il feto presenta condizioni incompatibili con la vita. Invece, racconta, l’attuale legislazione al vaglio intende alzare le penalità previste per l’aborto a 30-50 anni di carcere ed è “una pena di morte per donne povere. Queste leggi si applicano solo alle donne, e solo alle donne povere. Le figlie e le sorelle dei ricchi vanno nelle loro cliniche private, non in galera. O vanno all’estero per abortire. Noi se abbiamo aborti spontanei andiamo in prigione. In ospedale prima mi hanno accusata di essermi procurata l’aborto e poi hanno cambiato l’accusa in omicidio aggravato e mi hanno mandata in galera. Le mie compañeras sono ancora là a pagare il prezzo di questi leggi.”