(tratto da: “My mother raised me a feminist”, un più ampio articolo di Edinah Masanga per World Pulse, 9 agosto 2016, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Edinah – in immagine – è giornalista, attivista per i diritti delle donne nonché fondatrice e presidente dell’ong “Women Empowerment Foundation Scribes”.)

Io sono una femminista che è stata cresciuta da femminista senza saperlo, in un piccolo e povero villaggio rurale distante circa 120 km. da Harare nello Zimbabwe. Tutti si conoscevano e le tradizionali norme culturali erano messe in pratica esattamente nello stesso modo da decenni, come se facessimo le prove a teatro.
Io sono la quarta figlia in una famiglia che ha quattro maschi e due femmine. Sono arrivata subito dopo l’ultimo fratello, l’ingegnere aeronautico Simbarashe Masanga che a scuola era un genio. Si impegnava ed era intelligente, ma io pure.
Gli altri lo chiamavano “Dottor Masanga” (dalla maggioranza dei ragazzi svegli ci si aspettava diventassero dottori in medicina) ma salutavano me come “cognata” e “nuora”. Era chiaro sin dall’inizio che io venivo cresciuta per il matrimonio e lui per la vita professionale. Non da qualcuno in particolare, dal sistema nel suo complesso.
Non sono mai stata notata per le mie capacità negli studi ma presa di mira per il mio corpo sì. Ho seni grandi e i miei genitori non potevano permettersi di comprarmi un reggiseno, perciò non ne ho mai indossato uno durante tutta l’adolescenza e i seni hanno cominciato a pendere un po’ quando avevo 15 anni. Così per il villaggio diventai una “puttana” perché i seni pendenti dovevano significare che qualcuno si sdraiava spesso sopra di me. Nessuno pensò al fatto che mi mancava il reggiseno (odio i reggiseni a tutt’oggi).
La nostra sussistenza, come famiglia rurale povera, dipendeva dal lavorare la terra e il fatto che i miei genitori fossero da soli nei campi confondeva la gente. Era consuetudine che le bambine dessero una mano a lavorare la terra mentre i bambini portavano al pascolo il bestiame, ma io non ho mai messo piede nei campi. Per la maggior parte del tempo ero dentro casa con i miei libri.
La gente del mio villaggio non riusciva a capirlo e si lamentava con mia madre perché, secondo loro, stava crescendo una ragazza pigra. “Chi mai vorrà sposarla se non sa neppure cucinare e pulire?”, le dicevano. Spesso la conversazione di mia madre con altre donne del villaggio concerneva il difendere me e la mia “pigrizia”. Loro non ne sapevano niente, ma mia madre mi stava incoraggiando a perseguire istruzione e indipendenza economica, piuttosto che il matrimonio. “Il matrimonio non è uno scopo, è una scelta, ma l’indipendenza economica è la tua vita.”, mi ripeteva continuamente. Non mitigava i termini e mi diceva che avevo bisogno di soldi per vivere, non di essere brava nelle faccende di casa: “Per cucinare, devi avere cibo.”.
Mio fratello, il genio, non svolgeva alcuna faccenda domestica ed era lodato anziché criticato per questo. Nessuno suggeriva che la sua vita sarebbe finita male a causa della “pigrizia” – forse perché il sistema stava crescendo “domestiche” per lui. C’era la doppia aspettativa, per me, che io fossi brillante e una brava donna di casa. Io ero brillante, ma non ho mai avuto riconoscimento per ciò, solo critiche alla mia “pigrizia”.
Mi era anche richiesto di essere bella e di mantenere fermi i miei seni anche senza reggiseno. Dovevo preservare la mia immagine come ragazza decente, una che fosse buon materiale da matrimonio. Si dava per scontato che io fossi cresciuta per servire gli uomini in un mondo di uomini.
Io piangevo quando le vecchie mi pizzicavano i seni per controllare se stavano diventando più soffici (essendo quella la “prova” che gli uomini si sdraiavano spesso su di me) ma mia madre, femminista inconsapevole, mi consolava e mi ricordava che la cosa migliore non era essere una vergine ma una donna con una professione e un mezzo di trasporto proprio. Ad ogni modo io non avevo avuto rapporti sessuali, ma non sapevo come difendere me stessa, i miei seni ciondolavano a causa del loro stesso peso.
Non potevo difendere il mio corpo dagli standard che erano stati fissati secoli prima della mia nascita. Non potevo difendere la mia brama di istruzione in un mondo in cui le ragazze erano cresciute per diventare buone mogli. Non potevo difendere la mia incapacità di lavorare nei campi nei periodi in cui non ero a scuola. Una cosa era chiara: le ragazze erano addestrate a essere serve e mogli, i ragazzi a essere i padroni di casa, dottori, ingegneri eccetera.
Devo dire che mio fratello notò tutto: le critiche, lo svergognamento, i giudizi che dovevo affrontare ogni giorno. Cominciò a difendermi. Diceva alle persone di notare e valutare chi io ero. Quando qualcuno criticava me perché ero pigra e lodava lui perché era un genio, lui rispondeva: “Ma io non sono migliore di Eddie.” Nonostante lui difendesse il mio essere brillante negli studi ciò non era abbastanza. Dovevo essere una potenziale brava moglie per un uomo. Perciò il ritornello cambiò da “E’ pigra.” a “Speriamo che trovi un marito a cui piaccia l’idea di una moglie che va al lavoro.”
Perciò, ora mi era permesso eccellere negli studi, ma non avere ambizione. Qualsiasi cosa volessi fare, dovevo prendere prima in considerazione le necessità degli uomini. Le mie decisioni, il mio corpo, dovevano piacere agli uomini, altrimenti io ero un fallimento.
Mia madre, la femminista inconsapevole, diceva delle donne del villaggio: “Certo, sono perbene e sgobbano duramente, ma cosa possiedono che appartenga loro? Vuoi somigliare a loro, avere dieci figli, camminare scalza e lavorare nei campi per l’intera tua vita?” La parole di mia madre mi aprirono gli occhi. Mi hanno ispirato a volere di più dalla vita. Mi hanno fatto sapere che quel che c’era intorno a me, ragazze che abbandonavano la scuola per sposarsi e avere figli in giovane età, non era tutto quel che c’era.
Le sue parole mi hanno fatto capire questo: ciò che le persone accettano come “normale” ed etichettano come “buono” non equivalgono sempre a cose giuste.
Ogni giorno, mia madre mi sussurrava parole che mi rinforzavano come donna. Non immaginava di star crescendo una femminista, di esserlo lei stessa. Lei era la madre di cui ogni ragazza ha bisogno e lo è ancora. Mi ha sostenuto e aiutato a volere di più. Io non ho sprecato gli insegnamenti di mia madre.
Sono uscita dal liceo come la miglior studente anche se avevo perso più lezioni degli altri perché non potevamo pagare le rette. Sono riuscita a lasciare il villaggio e a diventare una giornalista di successo e una nota attivista per i diritti delle donne nello Zimbabwe.
Sono passata dall’essere scalza, senza mutande e affamata all’essere ben nutrita. Enfatizzo il cibo perché i ricordi più traumatici della mia infanzia riguardano l’andare a letto avendo fame. Ma in quei ricordi affamati e dolorosi c’è pure la voce di mia madre che mi esorta a essere forte. A essere una femminista.
Ora vivo in Svezia, mi guardo indietro ogni giorno e mi sento privilegiata a essere qui, intendendo “qui” come livello del mio potere, non come posto. Ho una voce. Ho una vita. Ho un futuro. Ma non sono cieca al fatto che ciò è accaduto per le parole di indipendenza e fierezza che mia madre mormorava al mio orecchio. Il suo costante ricordarmi che se non avessi raggiunto l’autonomia economicamente avrei dovuto dipendere da uomo per tutta la mia esistenza, che avrei saputo cucinare bene e pulire bene ma non avrei avuto cibo da cuocere o casa da pulire, ha dato forma alla mia vita.
La sua voce mi ha portato, soggettivamente, “al massimo”: nel mio caso l’avere quattro mura, elettricità, cibo, vestiti, mutande e l’aver costruito una casa per i miei genitori in una cittadina urbanizzata è il massimo che sognavo mentre vivevo nella colante capanna di fango di mia madre.
Tutto perché la mamma, la femminista inconsapevole, mi ha cresciuta dicendomi di credere in me stessa e di essere me stessa. Ha cresciuto una femminista.
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