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Posts Tagged ‘svezia’

(“Now it is fall”, di Edith Södergran (1892-1923), trad. Maria G. Di Rienzo. Edith, finno-svedese nata in Russia, contrasse la turbercolosi quando era adolescente e morì a soli 31 anni. Il suo impegno artistico, pienamente riconosciuto solo dopo la sua scomparsa, era attivamente incoraggiato dalla madre, con cui aveva un legame molto forte. Nell’immagine l’Autrice è con il suo gatto Totti.)

edith con totti

ORA E’ AUTUNNO

Quando tutti gli uccelli dorati

volano a casa al di sopra della profonda acqua azzurra,

sulla riva io siedo rapita dallo sparpagliato bagliore;

la partenza fruscia tra gli alberi.

Questo addio è immenso e la separazione si avvicina,

ma la riunione, quella è pure certa.

Con la testa sulle braccia mi addormento facilmente.

Sui miei occhi c’è l’alito di una madre,

dalla sua bocca al mio cuore:

dormi, bambina, e sogna ora che il sole se n’è andato.

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Di recente, mi sono portata a casa la trilogia “Millennium” (1) dello scomparso Stieg Larsson da un negozietto dell’usato: tre volumoni da 850 (e più) pagine l’uno per 9 euro in totale – un affare, non avrei mai potuto acquistarli a prezzo pieno. Poiché sono costretta a passare ore e ore fuori di casa mentre il vicino psicopatico rende la stessa una camera di tortura, ho bisogno di libri da leggere ancora più del solito.

noomi-lisbeth

Avevo già visto i 6 film da un’ora e mezza tratti dalla trilogia e prodotti per la tv svedese – un adattamento con scene aggiuntive delle 3 pellicole uscite al cinema – e avevo già fornito nella mia mente tutti i premi possibili a Noomi Rapace, l’attrice che interpreta magistralmente il personaggio fulcro della serie, Lisbeth Salander (in immagine sopra).

Non ho mai visto invece – e non intendo farlo in futuro – la versione hollywoodiana del 2011 in cui a impersonare Lisbeth è Rooney Mara, anche se so che la sua performance le guadagnò all’epoca una nomination all’Oscar. I remake americani mi irritano per principio, essendo per la maggior parte manipolazioni commerciali che tendono a “semplificare” (e spesso a pornificare) opere originali di altri paesi per renderle più appetibili a un’audience che, evidentemente, i produttori considerano composta da imbecilli che passano il tempo a grattarsi dentro le mutande. Rooney può essere stata bravissima, ma a me risulta irritante già solo la foto promozionale che riproduco qui sotto.

rooney-lisbeth

Comunque, l’adattamento statunitense fu un flop al botteghino e l’annunciata trilogia del regista David Fincher si arrestò al primo capitolo. Tuttavia, come probabilmente saprete, Stieg Larsson non può riposare in pace. Morto prima di poter assaporare il successo del suo lavoro, ha lasciato dietro di sé 200 pagine di appunti che indicavano come avesse intenzione di continuare la storia e su cui la sua famiglia e la sua compagna si sono dati battaglia in tribunale. Alla fine, lo scrittore David Lagercrantz è stato autorizzato a scrivere il quarto e il quinto romanzo della serie, senza basarsi sul suddetto materiale e – ovviamente, a mio parere – massacrando i personaggi. Il 18 ottobre è uscito l’ennesimo film, basato appunto sul quarto romanzo “Quello che non uccide” (o “The Girl in the Spider’s Web”). Lisbeth, questa volta, è l’attrice inglese Claire Foy (in immagine).

claire-lisbeth

Non andrò di certo a vederlo, mi sono bastati i trailer: Lisbeth Salander, geniale hacker dalla memoria fotografica, coperta metaforicamente più dalle cicatrici degli abusi subiti che dai grandiosi tatuaggi, bisessuale senza vergogna, tenera e infrangibile al tempo stesso, micidiale e velocissima nell’autodifesa nonostante la sua esile struttura fisica (e qui aveva ragione Helena di “Orphan Black”: “Essere piccoli è un’arma”), è diventata nel film summenzionato… una vendicatrice della Marvel. E’ “la donna che fa male agli uomini che fanno male alle donne”, come la identifica qualcuno nel trailer ufficiale. Towanda n. 2, insomma. Ma per piacere.

Me li vedo, i produttori (maschi) attorno al tavolo: “Ehi, c’è tutto questo casino delle donne, #Metoo ecc., che ne direste di una supereroina femminista? Violenta e assurda, naturalmente, per niente femminile, con trucco grottesco, accessori punk e compagnia, che salva bellissime modelle bionde – queste sì molto femminili – dalla violenza dei loro mariti, eh?”

Fate pure. Ma non è Lisbeth Salander. E vi auguro un flop peggiore di quello del 2011.

Maria G. Di Rienzo

(1) Uomini che odiano le donne (Män som hatar kvinnor, 2005); La ragazza che giocava con il fuoco (Flickan som lekte med elden, 2006); La regina dei castelli di carta (Luftslottet som sprängdes, 2007).

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(“Swedish rape law would require explicit consent before sexual contact” – Associated Press / The Guardian – 20 dicembre 2017. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

manifestazione svezia

(Dimostrazione contro lo stupro a Malmo, Svezia, 19.12.2017. Foto di Johan Nilsson/EPA.)

La Svezia si sta muovendo per cambiare la sua legge sullo stupro affinché sposti l’onere della prova da chi denuncia al presunto assalitore, in una proposta che richiederà alle persone di ottenere un esplicito consenso prima del contatto sessuale.

Isabella Lovin, la Vice Primo Ministro, ha detto che la recente campagna anti-molestie #metoo (“anch’io”) ha dimostrato la necessità di una nuova legislazione, la cui approvazione da parte del Parlamento è attesa per giovedì.

Secondo l’attuale legge svedese, una persona può essere perseguita per stupro solo se si dimostra che ha usato minacce o violenza. Secondo la proposta di legge, lo stupro potrà essere provato se chi denuncia non ha dato il suo esplicito consenso verbale o ha chiaramente dimostrato il desiderio di intraprendere attività sessuali.

Stefan Lofven, il Primo Ministro, ha ribadito come la “storica riforma, che la sua coalizione stava preparando sin da quando ha preso il potere nel 2014, miri a spostare l’onore della prova da chi denuncia lo stupro o l’assalto sessuale al presunto perpetratore. Rivolgendosi alle vittime ha detto: “La società è al vostro fianco.”

Se la legge sarà approvata, entrerà in vigore il 1° luglio.

La bozza fa parte di una serie di iniziative attualmente proposte. Altre renderanno illegale per gli svedesi assumere prostitute all’estero e aumenteranno le pene per gli offensori. Comprare sesso in Svezia è già illegale.

I critici dicono che la legge proposta non darà come risultato più condanne.

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Sono solo quindici minuti di documentario, ma potremmo definirli un quarto d’ora di premi:

Miglior Film e Premio del pubblico all’International Cycling Film Festival (2016);

Premio della giuria al Bike Shorts Film Festival (2017);

Premio per il Messaggio Ispiratore all’Ektopfilm International Festival per i film sullo sviluppo sostenibile (2017);

Premio per il miglior “corto” al London Feminist Film Festival (2017)…

Si tratta di “Cycologic”, prodotto dall’abilità e dalla passione di tre registe/produttrici svedesi (Emilia Stålhammar, Veronica Pålsson e Elsa Löwdin) e della protagonista: la ciclo-attivista ugandese Amanda Ngabirano (in immagine).

amanda cycologic

Il documentario segue in particolare la campagna di Amanda per avere piste ciclabili nella sua città, Kampala, dove il traffico è caotico, pericoloso e altamente inquinante, mostrando allo stesso tempo – una volta di più – come in determinati luoghi il solo andare in bicicletta, per le donne, equivalga a rompere stereotipi e a rinegoziare il loro ruolo nella società. Anche queste cicliste sono seguite dalle registe. Potete dare un’occhiata a che succede qui:

https://vimeo.com/185684431

“La bicicletta non è roba da poveri. – dice Amanda nel trailer summenzionato – E’ per le persone indipendenti, libere, liberate. Tu scegli come e dove muoverti.” E notando l’assenza delle sue simili nel via vai di automobili, motociclette e motorini aggiunge ironicamente: “Dove sono le donne? Non hanno piedi, non hanno gambe, non hanno energia?” Li hanno eccome. Nel poco tempo trascorso dall’uscita del film, Amanda ha convinto a pedalare persino la polizia: si è fatta tramite con le forze dell’ordine olandesi, che hanno donato le biciclette “da ronda” ai loro colleghi. Maria G. Di Rienzo

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racchetta rotta

2 settembre 2017, “The Guardian”: “Fabio Fognini buttato fuori dall’US Open a causa dei commenti osceni diretti all’arbitro”. Riassumo: durante il suo match con un altro italiano, terminato in una sconfitta, il tennista ha urlato “troia” e “bocchinara” all’arbitro svedese di sesso femminile, Louise Engzelle, la quale ha giustamente denunciato tale comportamento. Fognini ha ricevuto tre multe dalla Federazione Internazionale Tennis, la sua partecipazione al torneo è stata sospesa e ha commentato il tutto lamentandosi del “moralismo” che lo circonda.

In un mondo veramente libero e disinibito, infatti, gli insulti a sfondo sessuale – ovviamente solo se diretti alle donne – dovrebbero esseri considerati un innocuo e sano sfogo della dirompente energia maschile. Dirò di più: i corpi delle donne dovrebbero essere sempre e comunque a disposizione quali ricettacoli di tale energia, si concretizzi quest’ultima in offese verbali o offese fisiche (botte e stupri) o nella compravendita di carne umana (tratta e prostituzione) – sostenere il contrario è bigotto e sa di stantio. Le donne scelgono questi scenari ecc. ecc.

Be’, l’arbitro Engzelle ha scelto di insegnare l’educazione a Fognini. Temo che il tentativo sia stato vano, ma non dobbiamo smettere di sperare. Maria G. Di Rienzo

P.S. “E’ NORMALE! E “arbitro cornuto”, allora? – No, è NORMALIZZATO per l’umiliazione costante della sessualità femminile. E il “cornuto” alla sessualità di chi fa riferimento? A quella della moglie / compagna / fidanzata dell’arbitro di sesso maschile, non alla sua.

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(“Legalise prostitution? We are being asked to accept industrialised sexual exploitation”, di Kat Banyard per The Guardian, 22 agosto 2017, trad. Maria G. Di Rienzo. Kat Banyard, nata nel 1982, è una scrittrice e un’attivista femminista, co-fondatrice e direttrice di UK Feminista. Il suo ultimo libro qui citato, “Pimp State: Sex, Money and the Future of Equality” è pubblicato da Faber e acquistabile online.)

pimp state

In questo momento, è in atto una spinta globale diretta ai governi affinché non solo tollerino, ma abilitino attivamente il commercio sessuale. La richiesta è chiara: decriminalizzate i tenutari dei bordelli, i magnaccia e altre “terze arti”, permettendo loro di profittare liberamente – e non smorzare di certo la domanda di commercio. Questa non è una banale indicazione politica. Le poste in gioco sono immense.

Il modo in cui rispondiamo sarà il metro di misura per quanto seriamente prendiamo la violenza contro le donne e la diseguaglianza che la sorregge. Perché ciò che ci è chiesto di fare è accettare e normalizzare lo sfruttamento industriale del sesso.

Nelle maniere in cui è commercializzato, il commercio di sesso si riduce al concetto di un prodotto molto semplice: una persona (di solito un uomo) può pagare per accedere sessualmente al corpo di un’altra (di solito una donna), la quale non vuole liberamente far sesso con lui. Egli sa che è così – altrimenti non dovrebbe pagarla per essere là. Il denaro non è coincidenza, è coercizione. E abbiamo un termine per questo: abuso sessuale. Indurre i governi a facilitare un mercato commerciale nello sfruttamento sessuale richiede perciò mascherarlo con miti quali: la domanda è inevitabile; il pagare per il sesso è una transazione del consumatore, non abuso; la pornografia è una mera “fantasia” e decriminalizzare l’intero commercio, incluso il mantenimento di magnaccia e bordelli, tiene le donne al sicuro.

Nel libro “Pimp State” (ndt. “Stato magnaccia”) mi sono messa in viaggio per scoprire la realtà dietro questi miti. Il viaggio mi ha portato in un bordello a più piani a Stoccarda, dove ho accompagnato Sabine Constabel, una locale assistente sociale del lavoro, mentre andava di stanza in stanza a informare le donne che c’era un medico disponibile a vederle quella sera. Tredici anni prima, il governo tedesco si era piegato alle richieste di decriminalizzare lo sfruttamento dei magnaccia e il possesso dei bordelli, di modo che questi potessero operare in modo aperto e legale, dovendo offrire meno dei requisiti richiesti per l’apertura di un ristorante

Constabel non ha avuto esitazioni quando le ho chiesto chi ha guidato gli sforzi affinché la prostituzione fosse riconosciuta come lavoro: “Sono stati i gestori dei bordelli… volevano queste leggi che permettono loro di guadagnare quanto più denaro possibile.” Queste leggi sono state di certo produttive per alcuni. La Germania è ora la sede di una catena dei cosiddetti “mega-bordelli” con un commercio sessuale del valore stimato di 16 miliardi di euro l’anno.

Le donne che Sabine e io incontrammo quella sera a Stoccarda vivevano e “lavoravano” nella loro stanza singola al bordello. Nessuna parlava tedesco come lingua madre ed erano tutte molto giovani – la maggioranza attorno ai vent’anni. Il proprietario faceva pagare loro la stanza 120 euro al giorno, il che si traduce nel dover compiere atti sessuali con quattro uomini ogni giorno solo per andare in pari.

“Ci sono giovani donne, qui, che dicono “Morirò in questo posto” – mi raccontò Sabine – Posso comprendere bene cosa intendono. Ci credo. Credo a quel che dicono sulla realtà del fatto che i “clienti” possono danneggiare le donne a un punto tale che non è possibile far tornare tutto alla normalità.”

Fare ricerca per “Pimp State” mi ha anche condotto a passare ore discorrendo con i “clienti” – i compratori di sesso – dopo aver messo un annuncio sul mio giornale locale in cui dicevo di cercare uomini disposti a parlare della ragione per cui pagano per il sesso. Basandomi sulla risposta che il mio annuncio ha avuto, non c’è scarsità di compratori di sesso disposti a rimuginare su quel che fanno. In effetti, il numero di uomini che pagano per il sesso nel Regno Unito è raddoppiato durante gli anni ’90 raggiungendo l’uno su dieci, con una ricerca effettuata su 6.000 uomini che ha scoperto come i più disponibili a pagare per il sesso fossero giovani professionisti con un alto numero di partner sessuali (non pagate).

Ho sentito una varietà di giustificazioni uscire dagli uomini con cui ho parlato del perché pagano donne per il sesso: “Non ho altra scelta… Al momento sono single perciò devo comprarlo.”; “E’ solo una cosa da maschi, in cui ne prendi più che puoi.”; “Penso sia solo una questione di fare il proprio dovere.”, per esempio. Quel che univa questi uomini, tuttavia, era un soverchiante senso di aver diritto all’accesso sessuale ai corpi delle donne.

Alcuni elaboravano esplicitamente sulla nozione di essere meri consumatori che si servivano di lavoratrici disponibili. Uno si lamentò delle occasioni in cui aveva ricevuto “poca qualità in cambio del denaro”, che definì come “loro chiaramente non ne godevano”. Un altro uomo descrisse l’aver pagato per il sesso con una donna che ovviamente non desiderava essere là come “un pessimo servizio, veramente pessimo.” Ricordò mentre mi parlava al telefono: “Siamo andati di sopra e come posso dirlo, lei era, tipo, molto distaccata. Molto fredda. E’ stato davvero deludente, nel senso che io stavo pagando… nessun toccamento nei posti che avrei voluto. Persino l’atto sessuale è stata una vera merda. Davvero molto, molto deludente.”

Soprattutto, il viaggio per disfare i miti che circondano il commercio di sesso mi ha portata all’inevitabile conclusione che il cambiamento è possibile, che non dobbiamo vivere all’interno delle storie culturali e legali preparate dai magnaccia e dai pornografi, che c’è un’alternativa. E l’alternativa è costituita dal coraggio e dalla compassione delle molte ispiranti attiviste da me incontrate mentre scrivevo il libro, coraggio e compassione che sono requisiti per giungere allo scopo.

Attiviste come Diane Martin (insignita dall’Ordine dell’Impero Britannico – ndt. nel 2013, per il suo lavoro di attivista contro la prostituzione) che dopo essere stata sfruttata nella prostituzione nella tarda adolescenza, ha passato circa vent’anni ad aiutare altre donne a uscire dal commercio e ora fa campagna per una legge abolizionista nel Regno Unito. Iniziato in modo pionieristico in Svezia, il quadro legale abolizionista lavora per mettere fine alla domanda di commercio sessuale. Criminalizza l’acquisto di sesso e il profitto di parti terze, ma decriminalizza completamente la vendita di sesso e fornisce sostegno e servizi d’uscita alle persone sfruttate tramite prostituzione.

Martin è inequivocabile sul perché un approccio abolizionista è necessario: “E’ la domanda che alimenta quello sfruttamento che è l’industria del sesso. Io voglio rendere in pratica impossibile al crimine organizzato, ai magnaccia e ai puttanieri di operare qui. Voglio essere parte di una società che rigetta l’idea di persone in vendita.”

Un commercio basato su uomini che pagano l’accesso sessuale ai corpi delle donne è fondamentalmente incompatibile con l’eguaglianza fra i sessi. Sta a noi assicurarci che l’eguaglianza vinca.

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(brano tratto da: “Salvadoran Woman Becomes First Person to Be Granted Asylum Due to Regressive Abortion Laws”, di Kathy Bougher per Rewire, 28 marzo 2017. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

“E’ ora che si sia noi donne a prendere le decisioni sui nostri corpi.” Maria Teresa Rivera (in immagine).

maria teresa

La scorsa settimana, a Maria Teresa Rivera del Salvador è stato garantito asilo politico in Svezia sulla base della sua incarcerazione per accuse relative all’aborto: è la prima persona nella storia a ricevere una protezione di questo tipo. L’Agenzia per la Migrazione della Svezia ha reso nota la sua decisione a Rivera il 20 di marzo. (…)

L’aborto è diventato illegale in Salvador, qualsiasi ne siano le circostanze, dal 1997. Oltre a bandire l’interruzione di gravidanza, la legge è sovente mal applicata a donne che sperimentano problemi ostetrici e cercano servizi medici d’emergenza negli ospedali pubblici. Questo è stato il caso di Rivera. Nel 2011, Rivera abortì spontaneamente nella latrina di casa e il feto morì. Priva di sensi, grondante sangue e a stento viva fu portata in un ospedale pubblico dove fu accusata di essersi procurata l’aborto e mandata in prigione. Nel 2012 fu condannata per omicidio aggravato, anche se le prove mostravano che la morte del feto era un tragico ma naturale incidente e non era dovuto a nessuna azione da lei compiuta. Il giudice la sentenziò a 40 anni di carcere, la condanna più lunga comminata a una donna salvadoregna in base a questa legge.

Durante gli anni che ha passato nell’estremamente sovraffollata prigione femminile di Ilopango, Rivera ha sofferto maltrattamenti da parte delle guardie e a volte dalle altre carcerate, come conseguenza del profondo stigma sociale collegato all’aborto. Come Rivera ha detto in un’intervista a Rewire nel 2016: “Comprendo come molte donne non volessero dire alle altre perché erano là, perché sarebbero state trattate molto male. Ci chiamavano “mangiatrici di bambini” e peggio, ci picchiavano o ci minacciavano. Ma io sapevo di non aver fatto nulla di male, perciò l’ho detto a voce alta. Altre donne allora venivano da me in segreto, perché volevano chiedermi di metterle in contatto con la mia avvocata, di modo da avere aiuto.”

Infine, un tribunale maggiore del Salvador giudicò che il processo che l’aveva portata in prigione era macchiato da errori giudiziari, inclusa la mancanza di prove che Rivera avesse responsabilità nella morte del feto o persino che un qualsiasi crimine fosse stato commesso e ordinò nuovo processo. Dopo anni di ritardi, fu giudicata non colpevole il 20 maggio 2016 e liberata.

Rivera continuò a dover fronteggiare lo stigma nonostante fosse stata dichiarata innocente. Per strada la chiamavano “assassina di bambini”. Inoltre, il pubblico ministero del governo annunciò che avrebbe fatto appello alla sentenza di non colpevolezza e avrebbe tentato di rimandare Rivera in prigione a completare l’originaria sentenza di quarant’anni. Pesando le minacce che continuava a ricevere e la possibilità di tornare in galera, Rivera decise di lasciare il Salvador con il figlio di 11 anni e chiese asilo in Svezia nell’autunno del 2016: “La discriminazione nella società e sul lavoro, assieme alla persecuzione giudiziaria, che dovevo maneggiare quotidianamente mi hanno portata alla decisione di lasciare il mio paese. Non potevo dare un futuro a mio figlio, là. Era esposto a discriminazioni e pericoli.” (…)

Rivera dice che continuerà a essere un’attivista contro le leggi regressive del Salvador: “Sto rompendo il mio silenzio in Svezia per le mie compañeras che sono ancora in prigione in Salvador.” Rivera ha parlato in favore di un progetto di legge introdotto nell’ottobre 2016 che decriminalizzerebbe l’aborto in Salvador in circostanze specifiche: quando la vita e la salute della donna incinta sono a rischio, quando la gravidanza è il risultato di uno stupro e quando il feto presenta condizioni incompatibili con la vita. Invece, racconta, l’attuale legislazione al vaglio intende alzare le penalità previste per l’aborto a 30-50 anni di carcere ed è “una pena di morte per donne povere. Queste leggi si applicano solo alle donne, e solo alle donne povere. Le figlie e le sorelle dei ricchi vanno nelle loro cliniche private, non in galera. O vanno all’estero per abortire. Noi se abbiamo aborti spontanei andiamo in prigione. In ospedale prima mi hanno accusata di essermi procurata l’aborto e poi hanno cambiato l’accusa in omicidio aggravato e mi hanno mandata in galera. Le mie compañeras sono ancora là a pagare il prezzo di questi leggi.”

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(“Why a Feminist Foreign Policy Is Needed More Than Ever”, di Margot Wallström – in immagine – Ministra degli Esteri della Svezia, IPS – 7 marzo 2017. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

margot wallstrom

Ultimamente, il mondo ha la tendenza a presentarsi in sfumature sempre più cupe. In molti luoghi la democrazia è messa in questione, i diritti delle donne sono minacciati e il sistema multilaterale che ci sono voluti decenni a costruire è indebolito.

Nessuna società è immune da contraccolpi, specialmente non in relazione al genere. C’è continuo bisogno di vigilanza e di persistente pressione affinché donne e bambine godano pienamente dei diritti umani.

Questo è il motivo per cui io, quando ho assunto la carica di Ministra degli Esteri oltre due anni fa, ho annunciato che la Svezia avrebbe seguito una politica estera femminista. Oggi, quella politica è più necessaria che mai.

Il mondo è lacerato da conflitti che sono forse i più complessi e difficili da risolvere che mai. Almeno metà dei conflitti si riaccende entro cinque anni. Oltre un miliardo e mezzo di persone vive in stati fragili e zone di conflitto.

Per poter rispondere a queste sfide globali, dobbiamo unire i punti e vedere cosa guida alla pace. Dobbiamo cambiare le nostre politiche da reattive a proattive, concentrandoci sul prevenire anziché sul rispondere. E la prevenzione non può mai avere successo senza il completo quadro di come determinate situazioni hanno impatto diverso su uomini, donne, bambini e bambine.

Applicare l’analisi di genere, rinforzare la raccolta di dati disaggregati per genere, migliorare l’obbligo dell’assunzione di responsabilità e portare le donne alle negoziazioni di pace e nella costruzione di pace sono le chiave per muoversi in avanti.

Gli studi mostrano che quando le analisi del conflitto includono aspetti di genere e le esperienze delle donne sono più efficienti. La crescita della violenza sessuale e di genere può per esempio essere un indicatore precoce del conflitto. Dobbiamo anche tenere presenti gli studi che mostrano una correlazione fra società basate sull’eguaglianza di genere e la pace.

L’eguaglianza di genere è materia fondamentale per i diritti umani, la democrazia e la giustizia sociale. Ma schiacciante evidenza ci mostra che è anche una precondizione per la crescita sostenibile, il benessere, la pace e la sicurezza. Aumentare l’eguaglianza di genere ha effetti positivi sulla sicurezza alimentare, sull’estremismo, sulla salute, sull’istruzione e numerose altre cruciali preoccupazioni globali.

Con la politica degli esteri femminista svedese, noi mettiamo in gioco tutti i nostri attrezzi di politica estera per l’eguaglianza di genere e applichiamo una sistematica prospettiva di genere in tutto quel che facciamo. E’ uno strumento analitico che serve a prendere decisioni informate. La politica estera femminista è un’agenda per il cambiamento che mira a aumentare i diritti, la rappresentanza e le risorse di tutte le donne e le bambine, basandosi sulla realtà in cui costoro vivono.

La rappresentanza sta al cuore della politica, poiché è un veicolo incredibilmente potente sia per il godimento di diritti sia per l’accesso alle risorse. Che si tratti di politica estera o nazionale, che si tratti della Svezia o di qualsiasi altro paese al mondo, noi vediamo che le donne sono ancora poco rappresentate nelle posizioni influenti in tutte le aree della società. Un processo decisionale non equamente rappresentativo ha più probabilità di fornire risultati discriminatori e non ottimali. Mettete le donne al tavolo sin dall’inizio e noterete che più istanze e prospettive vengono alla luce.

Anche quando si affrontano momenti scoraggianti per la politica mondiale, è importante ricordare che il cambiamento è possibile. La politica degli esteri femminista svedese crea una differenza concreta. Ogni giorno ambasciate, agenzie e dipartimenti implementano politiche basate sul contesto e sulla conoscenza in tutto il mondo. E sempre più paesi stanno comprendendo che l’eguaglianza di genere semplicemente ha senso.

Per menzionare alcuni esempi di come lavoriamo, la Svezia ha fornito grande sostegno al coinvolgimento delle donne nel processo di pace colombiano, assicurandosi che prospettive significative fossero presenti nel trattato di pace. Abbiamo anche creato una rete svedese di donne mediatrici per la pace, co-creato una rete equivalente nordica e abbiamo teso la mano verso altre nazioni e regioni per incoraggiarle a formare le loro proprie reti.

Assieme alla Corte penale internazionale e ai paesi partner, contrastiamo l’impunità per la violenza sessuale e di genere nei conflitti. Ci assicuriamo anche che gli attori del settore umanitario ricevano i nostri fondi solo se il loro lavoro è basato su dati disaggregati per genere. Le linee guida del governo sono state fornite all’Agenzia svedese per lo sviluppo e la cooperazione internazionali, contribuendo a rendere l’eguaglianza di genere il principale obiettivo in un crescente numero di suoi settori che si occupano di istanze specifiche. Questi sono solo alcuni esempi di come la nostra politica degli esteri femminista si traduce in pratica, facendo la differenza per donne e bambine in tutto il mondo.

Il femminismo è una componente di una visione moderna della politica globale, non un idealistico ritiro da essa. Concerne politiche intelligenti che includono intere popolazioni, usano tutti i potenziali a disposizione e non lasciano indietro nessuno/a. Il cambiamento è possibile, necessario e dovuto da lungo tempo.

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prostitution narratives

Ricordate questo libro?

Raccoglie testimonianze di ex prostitute e ne ho tradotto un brano lo scorso aprile:

https://lunanuvola.wordpress.com/2016/04/14/caro-acquirente-di-sesso

Un rifugio antiviolenza australiano (a Townsville, Queensland) decide di tenere una presentazione pubblica del testo il 21 agosto scorso. Ma all’industria del sesso a pagamento questo non piace: i loro rappresentanti locali (“Respect – Rispetto”: sarebbe tutto maiuscolo per urlarlo meglio, ma io sono sensibile ai rumori) telefonano per dire che “non sono d’accordo” e che è quindi necessario ci siano i loro volantini all’ingresso. Chi gestiva lo spazio destinato a fornire ospitalità all’evento ha con molta gentilezza acconsentito – e ha sbagliato, perché l’imposizione doveva essere educatamente e fermamente respinta. Non è che se mi metto a suonare Mozart è obbligatorio che dopo di me qualcuno suoni Salieri: intendo veicolare determinati contenuti tramite una musica specifica e se a qualcuno questo non garba può crearsi il suo spazio per dirlo o strimpellarlo, io non sono tenuta a lasciargli invadere il mio.

Questo andazzo (la cosiddetta “par condicio”, come se ogni soggetto avesse eguale posizionamento sociale, eguale potere e eguale capacità di diffusione sul territorio) è allucinante per me ma tipico della nostra epoca priva di principi etici, per cui tutto si equivale e di conseguenza tutto si annulla: se uccidere è in fondo uguale a non uccidere, allora c’è solo la tua “scelta” in ballo e il doveroso “respect” dovuto alla stessa. E’ veramente comodo – per il neoliberismo.

Comunque, dopo una settimana ai propagandisti della prostituzione i volantini non bastano più. Vanno direttamente al rifugio antiviolenza e dicono di avere informazioni da fornire e di volere appesi nella sala manifesti di donne nude che commerciano sesso e mostrano così tutto il loro “empowerment”. Le organizzatrici rispondono che possono partecipare come gli aggrada, ma che i manifesti non li permettono, in quanto potrebbero offendere le sopravvissute presenti. A questo punto i “rispettosi” replicano che non saranno responsabili di quel che i membri del loro gruppo potrebbero fare durante la presentazione del libro (come era già accaduto al suo lancio, quando le testimonianze delle sopravvissute sono state sistematicamente interrotte da una cafona urlante in piedi su una sedia). Il rifugio antiviolenza ha cambiato posto per l’evento, poiché non si sentiva più in grado di garantire la sicurezza delle relatrici e del pubblico.

In un recente articolo per “Feminist Current” – “The modern john got himself a queer nanny”, 24 agosto 2016, l’autrice svedese Kajsa Ekis Ekman

(https://lunanuvola.wordpress.com/2014/05/09/intervista-a-kajsa-ekis-ekman/)

scrive:

C’è qualcosa di molto strano nel dibattito sulla prostituzione. Mentre in assoluta maggioranza i compratori di sesso sono maschi, in maggioranza schiacciante gli intellettuali che difendono la prostituzione sono donne. (…) In prima linea sul discorso internazionale del “sesso-come-lavoro” generalmente non troviamo un acquirente di sesso, ma un accademico di sesso femminile. In ogni rivista, in ogni conferenza, in ogni evento dove il cliente può essere anche remotamente criticato un’accademica pro-prostituzione è lì per difenderlo. Di chi si tratta? Be’, lei chiama se stessa “sovversiva”, “rivoluzionaria”, persino “femminista”. Questa è esattamente la ragione per cui il cliente ne ha bisogno come ambasciatrice. Una difesa della prostituzione che venga da una donna fa sembrare la prostituzione queer, amichevole per le persone LGBT, moderna, commercio equo, socialista – l’epitome stessa della liberazione femminile. Ma, cosa più importante di tutte, quando lei parla noi dimentichiamo che il compratore di sesso esiste.

L’accordo tacito fra il cliente e l’accademica pro-prostituzione è che lei farà qualsiasi cosa per difendere le azioni di lui, assicurandosi nel contempo che lui resti in ombra. Lei parlerà incessantemente di prostituzione, ma senza mai menzionarlo. Il suo compito è assicurarsi che la prostituzione sembri qualcosa in cui tutto è al femminile. L’accademica queer userà la donna prostituita in ogni modo possibile: analizzandola, costruendola e decostruendola, mostrandola come modello e usandola come microfono (i.e. per migliorare la propria carriera), posizionandosi nel contempo come “buona” contro la “cattiva” femminista.

La mossa mima alla perfezione la prostituzione stessa: la prostituta è visibile, sulla strada o nel bar, mentre il compratore fa solo visita e se ne va, non c’è svergognamento che lo riguardi, ne’ miti che lo circondino. La funzione dell’accademica queer è fare in modo che le cose restino così. (…)

Questa accademica ha la sua propria definizione di dibattito intellettuale. Quando lei parla, lo chiama “ascolto”. Secondo lei, non sta effettivamente parlando in favore della prostituzione, sta solo “ascoltando le lavoratrici del sesso”. Più la sua voce è alta mentre parla, più questo è la prova che lei “ascolta”. Quando invece parla qualcuno che alla prostituzione si oppone, lei lo chiama “silenziare”. L’emergere del movimento delle sopravvissute ha tuttavia dimostrato che questo “ascolto” è tutto fuorché incondizionato. Quando le sopravvissute alla prostituzione parlano contro di essa, l’accademica queer o non le ascolta o le contrasta attivamente. E qui si rivela come le persone che lei sta davvero difendendo non sono le “lavoratrici del sesso”, ma i clienti. (…)

La verità è questa: la funzione di questa accademica non è quella di una rivoluzionaria o di una femminista – non sta tentando di difendere le donne – piuttosto, lei è la balia del compratore di sesso. Una delle più antiche funzioni patriarcali esistenti. Lei lo calma quando è preoccupato e va contro i suoi nemici. Lei si assicura che nessuno gli porti via i giocattoli, qualsiasi cosa lui ne faccia. Ricordate, la balia del passato che viveva in casa trattava sempre il figlio della famiglia, simultaneamente, come padrone e come bambino suo: obbedendogli, rimettendo in ordine i suoi pasticci e lasciandolo piangere nel suo grembo. La balia, più di ogni altro personaggio nel patriarcato, è la donna comprensiva. Non sopporta di veder affamato il suo giovane padrone – lui mangerà sempre prima di lei – ma non lo tratta come un uomo con delle responsabilità. Non importa che età abbia, lui rimarrà sempre un ragazzino che non ha colpe per quel che fa. (…)

Il cliente incarna con esattezza questa tipologia. E’ l’uomo che comanda e si aspetta che ogni suo capriccio sia soddisfatto, ma non si prenderà la responsabilità di quel che fa. Se rovina le vite altrui, se diffonde malattie a trasmissione sessuale alle donne nella prostituzione e a sua moglie, se contribuisce al traffico organizzato di schiave… e allora? Non è un problema suo. Il cliente odierno può non avere più una balia in senso letterale, ma ciò che ha trovato nella donna accademica pro-prostituzione è somigliante: una balia “queer” che allevia le sue preoccupazione, si fa carico dei suoi bisogni e lo difende contro il mondo esterno.

Il cliente può continuare a vantarsi dei suoi viaggi di lavoro e di tutte le “troie” che scoperà, sebbene non accetterebbe mai che sua figlia diventasse una di loro (ne’ vorrebbe, peraltro, sposarne una). Può guardare pornografia ma proibisce alla sua ragazza di “comportarsi da puttanella”, e mai la sua balia gliene chiederà conto. Lei non entrerà mai nei forum online dove i compratori di sesso discutono e “recensiscono” le donne e le ragazze che pagano per informarli che “In effetti il termine è lavoratrice del sesso non battona.” Non lo riprenderà mai per le stigmatizzazioni che opera e per i doppi standard che ha. Gli uomini sono uomini, dopotutto…

Be’, se è così, lasciateli crescere e parlare per se stessi. Se comprare sesso è proprio quella gran cosa, lasciate che gli uomini vengano avanti e dicano cosa fanno e perché: con le loro stesse parole, quelle medesime parole che usano quando vanno nei bordelli. E quando le sopravvissute li chiamano a risponderne, fatevi da parte.”

Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “My mother raised me a feminist”, un più ampio articolo di Edinah Masanga per World Pulse, 9 agosto 2016, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Edinah – in immagine – è giornalista, attivista per i diritti delle donne nonché fondatrice e presidente dell’ong “Women Empowerment Foundation Scribes”.)

Edinah Masanga

Io sono una femminista che è stata cresciuta da femminista senza saperlo, in un piccolo e povero villaggio rurale distante circa 120 km. da Harare nello Zimbabwe. Tutti si conoscevano e le tradizionali norme culturali erano messe in pratica esattamente nello stesso modo da decenni, come se facessimo le prove a teatro.

Io sono la quarta figlia in una famiglia che ha quattro maschi e due femmine. Sono arrivata subito dopo l’ultimo fratello, l’ingegnere aeronautico Simbarashe Masanga che a scuola era un genio. Si impegnava ed era intelligente, ma io pure.

Gli altri lo chiamavano “Dottor Masanga” (dalla maggioranza dei ragazzi svegli ci si aspettava diventassero dottori in medicina) ma salutavano me come “cognata” e “nuora”. Era chiaro sin dall’inizio che io venivo cresciuta per il matrimonio e lui per la vita professionale. Non da qualcuno in particolare, dal sistema nel suo complesso.

Non sono mai stata notata per le mie capacità negli studi ma presa di mira per il mio corpo sì. Ho seni grandi e i miei genitori non potevano permettersi di comprarmi un reggiseno, perciò non ne ho mai indossato uno durante tutta l’adolescenza e i seni hanno cominciato a pendere un po’ quando avevo 15 anni. Così per il villaggio diventai una “puttana” perché i seni pendenti dovevano significare che qualcuno si sdraiava spesso sopra di me. Nessuno pensò al fatto che mi mancava il reggiseno (odio i reggiseni a tutt’oggi).

La nostra sussistenza, come famiglia rurale povera, dipendeva dal lavorare la terra e il fatto che i miei genitori fossero da soli nei campi confondeva la gente. Era consuetudine che le bambine dessero una mano a lavorare la terra mentre i bambini portavano al pascolo il bestiame, ma io non ho mai messo piede nei campi. Per la maggior parte del tempo ero dentro casa con i miei libri.

La gente del mio villaggio non riusciva a capirlo e si lamentava con mia madre perché, secondo loro, stava crescendo una ragazza pigra. “Chi mai vorrà sposarla se non sa neppure cucinare e pulire?”, le dicevano. Spesso la conversazione di mia madre con altre donne del villaggio concerneva il difendere me e la mia “pigrizia”. Loro non ne sapevano niente, ma mia madre mi stava incoraggiando a perseguire istruzione e indipendenza economica, piuttosto che il matrimonio. “Il matrimonio non è uno scopo, è una scelta, ma l’indipendenza economica è la tua vita.”, mi ripeteva continuamente. Non mitigava i termini e mi diceva che avevo bisogno di soldi per vivere, non di essere brava nelle faccende di casa: “Per cucinare, devi avere cibo.”.

Mio fratello, il genio, non svolgeva alcuna faccenda domestica ed era lodato anziché criticato per questo. Nessuno suggeriva che la sua vita sarebbe finita male a causa della “pigrizia” – forse perché il sistema stava crescendo “domestiche” per lui. C’era la doppia aspettativa, per me, che io fossi brillante e una brava donna di casa. Io ero brillante, ma non ho mai avuto riconoscimento per ciò, solo critiche alla mia “pigrizia”.

Mi era anche richiesto di essere bella e di mantenere fermi i miei seni anche senza reggiseno. Dovevo preservare la mia immagine come ragazza decente, una che fosse buon materiale da matrimonio. Si dava per scontato che io fossi cresciuta per servire gli uomini in un mondo di uomini.

Io piangevo quando le vecchie mi pizzicavano i seni per controllare se stavano diventando più soffici (essendo quella la “prova” che gli uomini si sdraiavano spesso su di me) ma mia madre, femminista inconsapevole, mi consolava e mi ricordava che la cosa migliore non era essere una vergine ma una donna con una professione e un mezzo di trasporto proprio. Ad ogni modo io non avevo avuto rapporti sessuali, ma non sapevo come difendere me stessa, i miei seni ciondolavano a causa del loro stesso peso.

Non potevo difendere il mio corpo dagli standard che erano stati fissati secoli prima della mia nascita. Non potevo difendere la mia brama di istruzione in un mondo in cui le ragazze erano cresciute per diventare buone mogli. Non potevo difendere la mia incapacità di lavorare nei campi nei periodi in cui non ero a scuola. Una cosa era chiara: le ragazze erano addestrate a essere serve e mogli, i ragazzi a essere i padroni di casa, dottori, ingegneri eccetera.

Devo dire che mio fratello notò tutto: le critiche, lo svergognamento, i giudizi che dovevo affrontare ogni giorno. Cominciò a difendermi. Diceva alle persone di notare e valutare chi io ero. Quando qualcuno criticava me perché ero pigra e lodava lui perché era un genio, lui rispondeva: “Ma io non sono migliore di Eddie.” Nonostante lui difendesse il mio essere brillante negli studi ciò non era abbastanza. Dovevo essere una potenziale brava moglie per un uomo. Perciò il ritornello cambiò da “E’ pigra.” a “Speriamo che trovi un marito a cui piaccia l’idea di una moglie che va al lavoro.”

Perciò, ora mi era permesso eccellere negli studi, ma non avere ambizione. Qualsiasi cosa volessi fare, dovevo prendere prima in considerazione le necessità degli uomini. Le mie decisioni, il mio corpo, dovevano piacere agli uomini, altrimenti io ero un fallimento.

Mia madre, la femminista inconsapevole, diceva delle donne del villaggio: “Certo, sono perbene e sgobbano duramente, ma cosa possiedono che appartenga loro? Vuoi somigliare a loro, avere dieci figli, camminare scalza e lavorare nei campi per l’intera tua vita?” La parole di mia madre mi aprirono gli occhi. Mi hanno ispirato a volere di più dalla vita. Mi hanno fatto sapere che quel che c’era intorno a me, ragazze che abbandonavano la scuola per sposarsi e avere figli in giovane età, non era tutto quel che c’era.

Le sue parole mi hanno fatto capire questo: ciò che le persone accettano come “normale” ed etichettano come “buono” non equivalgono sempre a cose giuste.

Ogni giorno, mia madre mi sussurrava parole che mi rinforzavano come donna. Non immaginava di star crescendo una femminista, di esserlo lei stessa. Lei era la madre di cui ogni ragazza ha bisogno e lo è ancora. Mi ha sostenuto e aiutato a volere di più. Io non ho sprecato gli insegnamenti di mia madre.

Sono uscita dal liceo come la miglior studente anche se avevo perso più lezioni degli altri perché non potevamo pagare le rette. Sono riuscita a lasciare il villaggio e a diventare una giornalista di successo e una nota attivista per i diritti delle donne nello Zimbabwe.

Sono passata dall’essere scalza, senza mutande e affamata all’essere ben nutrita. Enfatizzo il cibo perché i ricordi più traumatici della mia infanzia riguardano l’andare a letto avendo fame. Ma in quei ricordi affamati e dolorosi c’è pure la voce di mia madre che mi esorta a essere forte. A essere una femminista.

Ora vivo in Svezia, mi guardo indietro ogni giorno e mi sento privilegiata a essere qui, intendendo “qui” come livello del mio potere, non come posto. Ho una voce. Ho una vita. Ho un futuro. Ma non sono cieca al fatto che ciò è accaduto per le parole di indipendenza e fierezza che mia madre mormorava al mio orecchio. Il suo costante ricordarmi che se non avessi raggiunto l’autonomia economicamente avrei dovuto dipendere da uomo per tutta la mia esistenza, che avrei saputo cucinare bene e pulire bene ma non avrei avuto cibo da cuocere o casa da pulire, ha dato forma alla mia vita.

La sua voce mi ha portato, soggettivamente, “al massimo”: nel mio caso l’avere quattro mura, elettricità, cibo, vestiti, mutande e l’aver costruito una casa per i miei genitori in una cittadina urbanizzata è il massimo che sognavo mentre vivevo nella colante capanna di fango di mia madre.

Tutto perché la mamma, la femminista inconsapevole, mi ha cresciuta dicendomi di credere in me stessa e di essere me stessa. Ha cresciuto una femminista.

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