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A poco a poco

(“bit by bit”, di Leonarda Carranza – in immagine – poeta e scrittrice contemporanea di origine salvadoregna. Fa parte del Collettivo “Pages on Fire” con cui tiene seminari sulla scrittura creativa e organizza eventi e letture pubbliche. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

leonarda

A poco a poco e passo dopo passo

Nonna mi insegna

i colori

A poco a poco

e passo dopo passo lei insegna

e io imparo

l’aspetto dell’indifferenza

come ci si sente a non essere volute

a non essere abbracciate o sostenute

a non sedersi nel suo grembo

A poco a poco

e passo dopo passo io apprendo

a non aspettarmi un sorriso

a non percepirla

Non vado da lei quando ho paura

Non chiedo di lei quando sono malata

E lei insegna

come le madri

e le bisnonne che sono venute prima le hanno insegnato

a stare indietro

a guardare

mentre lei offre se stessa e il suo amore a

corpi bianchi e di pelle chiara

E a poco a poco

e passo dopo passo

io imparo il colore

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(brano tratto da: “The women behind El Salvador’s historic environmental victory”, di Daniela Marin Platero e Laila Malik per Awid, 11 aprile 2017, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

In un’epoca in cui le corporazioni multinazionali portano in tribunale i governi in tutto il mondo, per avere il diritto di estrarre risorse naturali a spese della terra e dei popoli che la abitano, la prospettiva di vittoria sembra a volte fievole.

Ma questo mese, in Salvador, la marea è cambiata. Prendendo una decisione che stabilisce un precedente a livello globale, il paese latino-americano ha bandito l’estrazione mineraria di metalli in tutta la nazione. Era il solo modo di fermare il progetto “El Dorado” di una compagnia canadese-australiana che intendeva cercare oro nella regione centrale del Salvador: la realizzazione del progetto – in un paese che ha risorse idriche scarse e inquinate – avrebbe messo a serio rischio di contaminazione il fiume Lempa, fonte d’acqua per il 77,5% della popolazione salvadoregna.

Il bando è il coronamento di 11 anni di proteste da parte delle comunità locali, in cui le donne sono state le principali attiviste: organizzando marce e blocchi stradali e seminari informativi hanno difeso territori e diritti umani.

carolina

Carolina Amaya (in immagine qui sopra), femminista ecologista e fondatrice del Tavolo Nazionale contro l’estrazione metallifera, dice che il bando chiuderà 25 progetti che si trovavano in fase esplorativa e annullerà i permessi di sfruttamento conferiti alla compagnia transnazionale “Commerce Group”. Amaya, Antonia Recinos – Presidente dell’Associazione per lo sviluppo socioeconomico Santa Marta (prima immagine qui sotto) e Vidalina Morales (seconda immagine qui sotto) sono tre delle donne che hanno passato anni a lottare in prima linea, ispirando e motivando centinaia di altre. Alcune, durante questa lotta, sono cadute: la loro compagna Dora Alicia Sorto, membro del Comitato Ambientalista di Cabañas, è stata uccisa nel 2009, quando era incinta di otto mesi.

antonia

vidalina

Amaya dice anche che la lista delle cose da fare rimane lunga, incluso l’assicurarsi il pagamento dei risarcimenti dalla compagnia mineraria Oceana Gold che ha distrutto ecosistemi e relative comunità, il lavorare su consultazioni popolari per stabilire comuni liberi dall’attività estrattiva, il rafforzare l’organizzazione della resistenza in vista di possibili cambi di governo e il premere per l’approvazione di protezioni legali quali la legge sull’acqua e la ratificazione di impegni presi per sostenere la protezione di assetti naturali.

Vidalina Morales aggiunge che il sentiero per andare avanti è molto chiaro: “Noi siamo le legittime proprietarie dei nostri territori e dei nostri corpi. Non possiamo continuare a vivere senza proteggere e accudire i nostri beni comuni. Dobbiamo intensificare gli impegni organizzativi a ogni livello e lavorare alla costruzione e alla difesa di progetti alternativi.”

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(brano tratto da: “Salvadoran Woman Becomes First Person to Be Granted Asylum Due to Regressive Abortion Laws”, di Kathy Bougher per Rewire, 28 marzo 2017. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

“E’ ora che si sia noi donne a prendere le decisioni sui nostri corpi.” Maria Teresa Rivera (in immagine).

maria teresa

La scorsa settimana, a Maria Teresa Rivera del Salvador è stato garantito asilo politico in Svezia sulla base della sua incarcerazione per accuse relative all’aborto: è la prima persona nella storia a ricevere una protezione di questo tipo. L’Agenzia per la Migrazione della Svezia ha reso nota la sua decisione a Rivera il 20 di marzo. (…)

L’aborto è diventato illegale in Salvador, qualsiasi ne siano le circostanze, dal 1997. Oltre a bandire l’interruzione di gravidanza, la legge è sovente mal applicata a donne che sperimentano problemi ostetrici e cercano servizi medici d’emergenza negli ospedali pubblici. Questo è stato il caso di Rivera. Nel 2011, Rivera abortì spontaneamente nella latrina di casa e il feto morì. Priva di sensi, grondante sangue e a stento viva fu portata in un ospedale pubblico dove fu accusata di essersi procurata l’aborto e mandata in prigione. Nel 2012 fu condannata per omicidio aggravato, anche se le prove mostravano che la morte del feto era un tragico ma naturale incidente e non era dovuto a nessuna azione da lei compiuta. Il giudice la sentenziò a 40 anni di carcere, la condanna più lunga comminata a una donna salvadoregna in base a questa legge.

Durante gli anni che ha passato nell’estremamente sovraffollata prigione femminile di Ilopango, Rivera ha sofferto maltrattamenti da parte delle guardie e a volte dalle altre carcerate, come conseguenza del profondo stigma sociale collegato all’aborto. Come Rivera ha detto in un’intervista a Rewire nel 2016: “Comprendo come molte donne non volessero dire alle altre perché erano là, perché sarebbero state trattate molto male. Ci chiamavano “mangiatrici di bambini” e peggio, ci picchiavano o ci minacciavano. Ma io sapevo di non aver fatto nulla di male, perciò l’ho detto a voce alta. Altre donne allora venivano da me in segreto, perché volevano chiedermi di metterle in contatto con la mia avvocata, di modo da avere aiuto.”

Infine, un tribunale maggiore del Salvador giudicò che il processo che l’aveva portata in prigione era macchiato da errori giudiziari, inclusa la mancanza di prove che Rivera avesse responsabilità nella morte del feto o persino che un qualsiasi crimine fosse stato commesso e ordinò nuovo processo. Dopo anni di ritardi, fu giudicata non colpevole il 20 maggio 2016 e liberata.

Rivera continuò a dover fronteggiare lo stigma nonostante fosse stata dichiarata innocente. Per strada la chiamavano “assassina di bambini”. Inoltre, il pubblico ministero del governo annunciò che avrebbe fatto appello alla sentenza di non colpevolezza e avrebbe tentato di rimandare Rivera in prigione a completare l’originaria sentenza di quarant’anni. Pesando le minacce che continuava a ricevere e la possibilità di tornare in galera, Rivera decise di lasciare il Salvador con il figlio di 11 anni e chiese asilo in Svezia nell’autunno del 2016: “La discriminazione nella società e sul lavoro, assieme alla persecuzione giudiziaria, che dovevo maneggiare quotidianamente mi hanno portata alla decisione di lasciare il mio paese. Non potevo dare un futuro a mio figlio, là. Era esposto a discriminazioni e pericoli.” (…)

Rivera dice che continuerà a essere un’attivista contro le leggi regressive del Salvador: “Sto rompendo il mio silenzio in Svezia per le mie compañeras che sono ancora in prigione in Salvador.” Rivera ha parlato in favore di un progetto di legge introdotto nell’ottobre 2016 che decriminalizzerebbe l’aborto in Salvador in circostanze specifiche: quando la vita e la salute della donna incinta sono a rischio, quando la gravidanza è il risultato di uno stupro e quando il feto presenta condizioni incompatibili con la vita. Invece, racconta, l’attuale legislazione al vaglio intende alzare le penalità previste per l’aborto a 30-50 anni di carcere ed è “una pena di morte per donne povere. Queste leggi si applicano solo alle donne, e solo alle donne povere. Le figlie e le sorelle dei ricchi vanno nelle loro cliniche private, non in galera. O vanno all’estero per abortire. Noi se abbiamo aborti spontanei andiamo in prigione. In ospedale prima mi hanno accusata di essermi procurata l’aborto e poi hanno cambiato l’accusa in omicidio aggravato e mi hanno mandata in galera. Le mie compañeras sono ancora là a pagare il prezzo di questi leggi.”

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cynthia-guardado

(“A Morning en la Casa de Mi Abuelo”, di Cynthia Guardado – in immagine qui sopra – poeta contemporanea originaria del Salvador, insegnante d’inglese di scuola superiore, attivista per il cambiamento sociale. Fa parte di un circolo femminile di scrittura chiamato “Las Lunas Locas” – “Le Lune Pazze” di cui dice: “Essere circondata da donne mentre scavo in me stessa per scrivere poesia, in uno dei miei momenti di maggiore vulnerabilità, è forse l’esperienza dall’energia più forte che ho incontrato da quando ho cominciato a scrivere versi.” Trad. Maria G. Di Rienzo.)

UNA MATTINA NELLA CASA DI MIO NONNO

(per mia madre)

Mia madre pulisce il gabinetto di suo padre,

nella sua mano una spazzola vecchia come il cucco

strofina il pavimento di cemento

della stanza da bagno di lui. Domani

lui le dirà che lei non erediterà

questa casa ne’ la terra che la circonda.

Domani sarà il compleanno di lei;

lui le dirà che deve pensare

ai suoi figli maschi prima che alle sue figlie.

Loro sono delle aggiunte allo stesso modo di

sua moglie che ha sempre atteso

come Era, con la melagrana in mano.

hera

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un cuore per due

Il capitalismo biasima il matrimonio gay perché distruggerebbe le famiglie. Io biasimo il capitalismo! Le famiglie sono separate su base quotidiana da ambo i lati del confine, a causa delle condizioni economiche disperate create dai cosiddetti accordi sul libero mercato, come CAFTA e NAFTA, che beneficiano solo quelli che stanno in alto. In paesi come il Salvador è abbastanza difficile trovare un lavoro che ti permetta di pagarti le spese del vivere. Ancora più duro è se hai più di 35 anni. E dimenticatelo proprio se sei una donna sopra i 35 anni.

Sempre di più, l’unica via d’uscita per le persone è emigrare dove i lavori ci sono. E quando arrivano sono spesso trattati da invasori subumani. Non mi sarei mai aspettata di imparare così tanto, così velocemente, delle condizioni sociali e della storia nascosta che hanno impatto sulla mia vita di ogni giorno – dopo essere arrivata come donna, come immigrata salvadoregna, come persona omosessuale di colore.” Karla Alegria

(Brano tratto dall’antologia “Talking Back: Voices of Color”, a cura di Nellie Wong, ed. Red Letter Press, 2016. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

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Il 17 e 18 giugno 2016 più di 80 attiviste provenienti da Costa Rica, Salvador, Honduras, Guatemala, Panama e Nicaragua si sono riunite nella capitale di quest’ultimo paese, Managua, per un simposio femminista dell’America Centrale. Le organizzatrici erano le donne del gruppo Programa Feminista La Corriente – http://lacorrientenicaragua.org/

L’evento, come potete vedere dall’immagine sottostante, si chiamava “Corpi che sfidano e costruiscono nuove realtà”.

simposio femminista 2016

Il fulcro dei dialoghi era il dare una cornice alla difficile realtà sperimentata dalle donne dell’America Centrale per migliorare l’attivismo teso a cambiarla. I numeri del femminicidio nella regione continuano a essere molto alti; i fondamentalismi religiosi sono in crescita (“Sembra che i nostri Paesi non siano governati da Costituzioni, ma dalla Bibbia”, ha detto una delle partecipanti); i diritti delle donne fanno passi indietro (ad esempio con la criminalizzazione dell’aborto terapeutico); le gravidanze di adolescenti aumentano a causa della mancanza di educazione sessuale e riproduttiva, e la situazione è peggiorata dall’impazzare della violenza di genere sui social media e dallo sciovinismo dei giovani uomini che la agiscono in condizioni di impunità.

Le attiviste hanno discusso varie strategie e tecniche, sottolineato la necessità per chiunque sia impegnata in lotte e campagne a lungo termine – che richiedono alti prezzi in termini di esaurimento emotivo – ad avere cura di sé e a ricevere sostegno, e l’intenzione di creare nuovi spazi di dialogo fra femministe di differenti generazioni: “Le giovani possono imparare dalle veterane e queste ultime possono essere influenzate dall’energia e dalle idee nuove di quelle che sono appena arrivate.” Inoltre, ha concluso il simposio, c’è l’urgente necessità di documentare il lavoro del movimento delle donne: “Dobbiamo lavorare per maneggiare meglio la conoscenza femminista, diffondere, socializzare e condividere Storia. Il patriarcato è enorme, violento e predatorio perché troppo poco è stato fatto per smantellare i suoi miti.”

Ma il commento forse più bello e più azzeccato è stato quello di Esperanza White, attivista femminista del Nicaragua: “Sono commossa e rallegrata da quel che sto pensando… e cioè che la nostra forza come donne sta nelle differenze fra noi. Lesbiche, indigene, disabili, di origini africane, transessuali, eterosessuali… corpi differenti con una stessa anima e gli stessi problemi.”

Riguardate la fotografia. Sono tutti là, corpi diversi, corpi giovani e corpi anziani, corpi chiari e corpi scuri, con ogni possibile sfumatura nel mezzo. Corpi non addomesticati dall’oggettificazione sessuale e dalla recita patriarcale di una “femminilità” fasulla. Corpi come questi sono in se stessi una sfida e una gloria e una promessa. Maria G. Di Rienzo

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Il direttore del quotidiano cattolico “Avvenire”, Marco Tarquinio, così commenta la “nascita surrogata” in casa Vendola: “Il triste mercato dell’umano cresce e ha ingressi di destra e di sinistra. Si smetta di chiamarli diritti.”, si rammarica del “linguaggio politicamente corretto usato in particolar modo dai notiziari del servizio pubblico radiotelevisivo. Un fenomeno impressionante di camuffamento della dura realtà della cosificazione di una madre senza nome, senza volto e ridotta a pura esecutrice di un contratto padronale” e specifica che “tutte le madri surrogate ‘acquistate’ da coppie eterosessuali od omosessuali sono povere e senza potere”.

Magari “oggettivazione” o “oggettificazione” andavano meglio di cosificazione, ma lasciamolo decidere all’Accademia della Crusca, il punto è un altro.

In tutto il mondo gruppi diversi e svariate chiese usano interpretazioni religiose per creare argomentazioni contrarie ai diritti umani, in special modo delle donne. La chiesa cattolica, egregio sig. Tarquinio, non solo non fa eccezione ma da tre anni conduce una lotta al “gender” (un criterio di analisi per le relazioni umane) completamente basata sul nulla, folle quanto violenta.

Non ho da eccepire alla frase “tutte le madri surrogate ‘acquistate’ da coppie eterosessuali od omosessuali sono povere e senza potere”, ma lei si è mai chiesto perché lo sono? Vediamo.

La povertà e la mancanza di potere possono essere viste come semplicemente accidentali: queste donne sono – per caso sfortunato – nate nel posto sbagliato, nella famiglia sbagliata e nell’epoca sbagliata. Ci fanno pena, ma cosa abbiamo noi miseri mortali da opporre al fato?

La povertà e la mancanza di potere possono essere viste come disegno divino: il misterioso e perfetto creatore dell’universo ha deciso così, vuoi per ricompensare degnamente la sofferenza di queste donne dopo la loro morte, vuoi per condurle all’illuminazione tramite triboli e travagli, vuoi perché hanno mangiato una mela proibita all’alba dell’umanità e la devono pagare per sempre. Anche qui, i documentari sulle loro disgrazie ci fanno piangere, ma ci consoliamo con la certezza che dio ne sa di sicuro più di noi… e poi cambiamo canale per vedere un po’ di tette-culi-cosce o la partita.

La povertà e la mancanza di potere possono essere viste come colpa: è probabile che queste donne miserabili non si siano impegnate abbastanza, non abbiano “lavorato duro” come avrebbero dovuto fare, abbiano compiuto scelte sbagliate, ecc. Adesso cosa vogliono, che la collettività si faccia carico del loro mantenimento? Dovremmo dar loro i NOSTRI soldi? Ma sapete quanto costa oggi andare a sciare a Courmayeur come autentici villani rifatti (io lo ignoro, ma potete chiedere a Matteo Renzi)?

Com’è ovvio, sig. Tarquinio, lei e io siamo consapevoli che di altro si tratta. Le donne sono i poveri del mondo (circa 80%), sono gli analfabeti del mondo (circa 70%) e sono le principali vittime di violenza ovunque perché sono donne. Cioè, sono stimate inferiori, incomplete, intrinsecamente incapaci e persino malvagie sulla base del loro sesso: costruire una mistica su un dato biologico e farla passare per “natura” o per “volontà di dio” è quanto la sua chiesa e altre hanno fatto per secoli e continuano a fare. In poche parole, il “genere” lo avete creato (anche) voi, perché è IMPOSSIBILE determinare in base al sesso di nascita le capacità, le attitudini e le inclinazioni di un essere umano. Quindi, attribuire a lui o lei dei “ruoli” predeterminati non è naturale, è prescrizione della comunità, precetto religioso e costume sociale.

Sinteticamente, le donne povere e senza potere di cui si acquistano gli uteri come se fossero macchinari sono tali grazie allo stigma posto sul loro genere e devono restare povere e senza potere per mantenere in essere una struttura di potere piramidale. Sulla vetta di quest’ultima banchettano una manciata di uomini – in maggioranza bianchi – che ricavano profitto dal loro sfruttamento lavorativo, emotivo, familiare, sessuale, ma ai livelli intermedi anche il maschio più derelitto può ricavare senso di legittimazione e scampoli di dominio credendo di essere superiore alle donne: infatti, quando queste ultime si ribellano in qualche modo alla faccenda il maschio stressato, disoccupato, in preda a raptus, depresso ecc. ecc. non ha altra scelta che “raddrizzarle” a botte o scannarle in via definitiva.

Non so se quel suo “si smetta di chiamarli diritti” nasconda un’insofferenza al discorso dei diritti umani in sé, ma ora che le ho detto perché in maggioranza le donne sono povere e senza potere le dirò come le si mantiene tali: negando loro il godimento dei loro legittimi diritti umani, quelli che la Dichiarazione di Vienna definisce “universali, indivisibili, interdipendenti e interconnessi”, in nome della cultura, della religione e della tradizione.

CEDAW, Protocollo di Maputo e Convenzione di Belem do Para obbligano infatti gli Stati firmatari a eliminare costumi e pratiche basati sull’idea dell’inferiorità o della superiorità di un sesso rispetto all’altro, riconoscendo che i ruoli stereotipati imposti a donne e uomini legittimano o esasperano la violenza contro le donne – che è sessuale, domestica, politica, economica… che le rende meri corpi esistenti per la soddisfazione degli uomini, in ogni senso. E che devo dirle, sig. Tarquinio, i governi firmano e i firmatari si fanno ritrarre con la penna in mano e i sorrisi smaglianti, ma spesso poi non applicano quel che hanno sottoscritto: principalmente per non disturbare le chiese presenti sul territorio nazionale, beninteso quelle che hanno potere, soldi, influenza sull’opinione pubblica ed è purtroppo il caso della chiesa sua.

In Salvador, per soddisfare la chiesa cattolica, le leggi che impediscono l’interruzione di gravidanza sono così medievali che le donne vanno in galera per gli aborti spontanei. In Paraguay, per soddisfare la chiesa cattolica, una bambina di 11 anni, rimasta incinta dopo uno stupro, è stata costretta a partorire contro la sua volontà. Nelle Filippine, per soddisfare la chiesa cattolica, l’aborto è illegale in ogni caso.

Astinenza: chiaramente non efficace al 100%

Astinenza: chiaramente non efficace al 100%

E dove la chiesa cattolica fomenta la convinzione che le persone omosessuali siano “sbagliate”, “confuse”, “malate” e così via, accadono cose spiacevoli come la morte di Paola Barraza (Comayaguela, Honduras – 24 gennaio 2016), attivista transgender per i diritti umani. In precedenza, nell’agosto 2015, Paola era già stata attaccata in prossimità della sede dell’ong in cui lavorava (Asociación LGTB Arcoíris): raggiunta da numerosi colpi di arma da fuoco era rimasta gravemente ferita ma era sopravvissuta. Il 24 gennaio scorso gli assassini hanno bussato direttamente alla porta di casa sua e quando ha aperto le hanno sparato tre volte in testa e due al petto. Nella settimana successiva ancora nessun investigatore si stava occupando del caso.

Paola Barraza è morta perché voleva quel che era già suo e le veniva negato: diritti umani. Innumerevoli donne, ragazze e bambine muoiono, sono vendute e comprate, stuprate e battute e vivono esistenze infernali per la stessa ragione: sono viste come meno-che-umane e i loro diritti sono subordinati ai loro supposti imprescindibili “ruoli” nella famiglia e nella società – guarda caso, sono tutti ruoli di servizio agli uomini.

Allora, sig. Tarquinio, se degli uomini pensano sia loro “diritto” comprare l’utero di una donna la colpa non è del “politicamente corretto”, ma sta un po’ più a monte. Per esempio, qualcuno che con questa colpa ha molto a che fare si affaccia a volte da un balcone, la domenica, per benedire urbi et orbi. Maria G. Di Rienzo

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Il 23 gennaio scorso, AWID – Association for Women’s Rights in Development, ha chiesto a un bel mucchio di femministe in giro per il mondo cosa si augurano per il 2015, quali sono le loro speranze, i loro sogni e le loro aspirazioni. Le risposte sono state raccolte da Nana Darkoa Sekyiamah e Mégane Ghorbani. Quella che segue è una mia piccola selezione (perché dieci pagine non le avreste mai lette, lo so). Maria G. Di Rienzo

Be Loud Be Proud di Lori Portka

YEWANDE OMOTOSO, 34enne, Barbados/Nigeria/Sudafrica, Scrittrice e Architetta.

Sarebbe grandioso svegliarsi in mondo dove i corpi delle donne non sono merci; dove ovunque io guardi non sono oppressa da immagini sui media che mi dicono come dovrei apparire per essere una vera donna o per essere davvero bella; dove bambine e bambini non siano dominati da quest’immaginario che normalizza qualcosa di profondamente problematico.

CRISTINA PALABAY, 35enne, Filippine, Segretaria generale di Karatapan – Alleanza per l’avanzamento dei diritti delle persone.

Nel 2015, mi auguro il rilascio di tutte le prigioniere politiche. Con rinnovata speranza, aspiro ad un più forte movimento delle donne che sfidi le strutture e le filosofie al centro dell’oppressione delle donne – patriarcato, globalizzazione, militarizzazione e fondamentalismo.

MORENA HERRERA, 54enne, El Salvador, Direttrice Colectiva Feminista para el Desarrollo Local.

Sogno una società che prenda passi concreti nella lotta per la libertà delle donne e la loro autonomia sui loro corpi e le loro vite. Sogno movimenti femministi coesi e più interazioni creative con altri movimenti sociali che mettono in questione i modelli capitalisti, patriarcali e omofobici, di società.

MINNA SALAMI, 36enne, Nigeria/Finlandia, Scrittrice e Direttrice di Ms Afropolitan.

Spero quest’anno di vedere più donne che prendano spazio e diano forma ad agende nella sfera geo-politica, in quella socio-economica e nelle nostre vite private. Abbiamo bisogno di più donne nella comunicazione e nel dar forma alla narrazione anche per il bene delle generazioni future. E’ importante che le ragazze e le bambine vedano donne che non hanno paura di dire come la pensano.

JULIETTE MAUGHAN, 33enne, Barbados, Consulente sul genere – Fondatrice di Ev-O!-lution e Co-editrice di Senseisha – Memorie dai Caraibi.

Ho in mente un anno in cui concentrarsi sul fornire alle donne lo spazio per definire e dar forma alla propria sessualità, sul creare una società che sia libera da ogni forma di violenza e in cui le donne abbiamo accesso a prodotti e servizi per le loro necessità di salute sessuale e riproduttiva.

SHEWAGA GEBRE-MICHAEL, 25enne, Etiopia, Coordinatrice comunicazione e raccolta fondi di RECFAM – Fondazione ricerca e consulenza per i migranti africani.

La mia speranza, il mio sogno e la mia aspirazione sono che chiunque comprenda davvero come i diritti delle donne concernano tutti. Dobbiamo tutti capire che non possiamo progredire come persone, come cittadini del mondo mentre neghiamo alle donne la loro umanità e minacciamo il loro diritto ad esistere.

YESICA TRINIDAD, 37enne, Honduras, Coordinatrice Rete Nazionale delle Difensore dei diritti umani.

Sogno il giorno in cui le donne potranno camminare per le strade senza temere per la propria vita. Sogno il giorno in cui le femministe e le difensore dei diritti umani saranno di più di una manciata e diventeranno una forza che si confronta con il patriarcato. Sogno che le donne disimparino i modi in cui la società ci ha insegnato ad avere relazioni l’una con l’altra e che noi si lasci da parte le competizioni che ci consumano.

AXELA ROMERO, 47enne, Messico, Segretaria Iniziativa Donne Mesoamericane Difensore dei diritti umani e Coordinatrice Gruppo di Lavoro per l’Inclusione Sociale.

Auguro a tutte noi donne la riconciliazione con i nostri corpi, così che noi si sia svelte a rispondere quando i nostri corpi chiedono riposo e lentezza e il godere di qualcosa. Mi auguro che noi si abbia cura di noi stesse senza provare sensi di colpa o doverlo giustificare. E mi auguro che nessuna di noi perda la capacità di lasciar sbrigliata la sua immaginazione, perché anche nelle peggiori condizioni il mondo è pieno di bellezza, potenziale e risorse sufficienti per rendere ognuna di noi felice e di valore.

MEGHANA BAHAR, 34enne, Sri Lanka, Specialista Comunicazioni di MUSAWAH.

Nel 2015 vorrei che i movimenti per i diritti delle donne incorporassero pienamente i principi per cui lottano: ciò significa allontanarsi da quelle strutture e sistemi che sostengono il patriarcato e disimparare il condizionamento patriarcale che mantiene le donne bloccate e le rende senza voce.

KHIRA ARAB, 55enne, Marocco, Giornalista – Famille Actuelle Magazine.

La bacchetta magica non ci aiuterà, ma la mobilitazione e la solidarietà lo faranno. Condivido con altre donne marocchine dei sogni per quest’anno: il vedere finalmente l’Agenzia per la parità e la lotta ad ogni forma di discriminazione prevista dalla Costituzione; piena ed eguale partecipazione delle donne alla vita politica ed economica; più uguaglianza in termini di diritti e giustizia; la fine di stupri e assalti di cui le donne soffrono; l’effettiva implementazione di una legge che protegga le donne da ogni forma di violenza e che la lotta contro la violenza di genere sia dichiarata nel 2015 Grande Causa Nazionale.

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breaking out my cage di crayolajustgotbetter

Lo scorso 22 gennaio, Guadalupe (nome fittizio) è stata “perdonata”. Il Parlamento del suo paese, il Salvador, ha così annullato una sentenza a trent’anni di prigione per omicidio aggravato. Chi aveva ucciso, Guadalupe? Nessuno. Era stata stuprata, era rimasta incinta, aveva portato avanti la gravidanza giacché la legge salvadoregna non le permette di abortire in nessun caso, aveva partorito un bimbo morto.

Guadalupe, che di mestiere faceva la domestica e non è mai riuscita a finire le scuole elementari, fu interrogata quand’era ancora nel letto d’ospedale, senza avvocato. Il processo fu veloce e brutale nei suoi confronti in modo infame. Praticamente prima di capire quel che stava succedendo, Guadalupe si è trovata in cella. E ci è rimasta per sette anni. Chi deve perdonare chi?

Com’è ovvio, il “perdono” non è sgorgato dal grande cuore compassionevole dei deputati – in Parlamento c’è una maggioranza di destra – che tre giorni prima avevano votato contro il rilascio della giovane donna, ma è frutto della martellante campagna di organizzazioni femministe e della società civile, come la coalizione Agrupación Ciudadana e il Centro per i diritti riproduttivi. La loro iniziativa, “Las 17”, è rimbalzata su Amnesty International, che ha lanciato una petizione affinché la legislazione sull’interruzione di gravidanza sia cambiata, e ha raggiunto l’attenzione internazionale. Dal punto di vista della propaganda, a questo punto, ogni incollato-alla-cadrega (sedia) ha pensato fosse meglio “perdonare”. Ma restano nelle carceri dozzine di donne che scontano sentenze per omicidio avendo abortito, per scelta o naturalmente. “Le 17” della campagna hanno ricevuto a questo proposito condanne che vanno dai 12 ai 40 anni di carcere: la più anziana di loro ha 29 anni.

Nella fascia d’età 13/16 sono invece le ragazze malesi “perdonate” dal governo negli stessi giorni. Il Dipartimento Islamico dei Territori Federali aveva in precedenza intimato loro di presentarsi spontaneamente per essere interrogate, altrimenti avrebbe emesso un mandato di cattura.

E cosa avevano fatto, le ragazzine, per allertare in questo modo l’FBI locale? Sono andate a un concerto a Kuala Lumpur, del gruppo “B1 A4” (polli d’allevamento “idol” del pop sudcoreano). Lo show era legale, la loro presenza era legale, non hanno infranto alcuna norma. Invitate dalla band sono salite sul palcoscenico, hanno abbracciato i loro idoli e una di loro, dotata di regolare fazzoletto, ha ricevuto un bacio sulla fronte – sulla stoffa, in realtà.

Oltraggio, scandalo, offesa-alla-nostra-religione! Hanno toccato le “nostre donne”! Le nostre donne si sono comportate da puttane! Vergonnniaaaa! (in malese) Ma poiché anche questa vicenda è stata prontamente diffusa a livello internazionale, dopo alcuni giorni risultava piuttosto evidente su chi cadeva una tonnellata di biasimo – e non erano le ragazze, perciò le autorità hanno detto che invece di arrestarle è meglio “istruirle” affinché “non sbaglino più”. Perdonate.

E’ straordinario. Fate delle nostre vite di donne e ragazze delle galere perenni. Poi avete la faccia tosta di “perdonarci” quando le femministe e chi lavora per i diritti umani vi accendono il fuoco sotto il sedere. Siete ridicoli persino quando infliggete dolore. Qualcuna delle vostre vittime forse vi perdonerà, ma il ridicolo no, non perdona. Maria G. Di Rienzo

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(“How Not to Make Love to a Fat Girl”, di Yesika Salgado, 13 gennaio 2015 per Everyday Feminism, trad. Maria G. Di Rienzo. Yesika è, nelle sue stesse parole, una poeta di giorno, un’astronauta di notte e una ragazza salvadoregna volante/grassa/scura tutto il tempo.)

yesika

Quando siamo seduti sul tuo letto, i nostri corpi sono affamati, lingue, respiro pesante…

Quando ho consegnato i miei vestiti ai tuoi denti, alle tue mani, al pavimento – tesoro, per favore, non strofinarmi la pancia.

E’ strambo e non è per niente sexy.

Immediatamente, immediatamente, penso a Buddha o a Winnie Pooh, e nessuna donna vuol pensare ad entrambi giusto prima di fare sesso.

Ora, io so di arrivare con un bel po’ di extra attorno all’addome e tu probabilmente vuoi mostrarmi che mi apprezzi per intero, ma questo può essere fatto in qualsiasi altro modo.

Diamine, sii creativo.

Considerala una sfida.

Insegnami qualcosa di nuovo. Ma qualsiasi cosa tu faccia, non star là seduto a strofinarmi l’intestino come fosse una lampada con il genio, per quindici minuti.

Il sesso con qualcuno di “nuovo” è disagevole per chiunque.

Il sesso con qualcuno di nuovo, quando le cose dette del tuo corpo spesso ti spaventano, innervosisce.

Rovesciarti su un’altra persona è uno dei più grandi atti di abbandono che io devo ancora conoscere, ma i ragazzi rendono difficoltoso a una ragazza grassa l’aver grazia nel proprio corpo.

Spesso prendono la mia taglia come un invito ad essere idioti.

Smantellano il mio largo corpo in segmenti ogni volta in cui gli viene chiesto cosa piace loro di me, come se fosse eccessivo chiedere che trovino desiderabile me intera.

O quando tutto il resto non funziona, pensano che la risposta: “Le ragazze grosse fanno per me” mi farà desiderare di saltar fuori dalle mie mutande.

Poi ci sono quelli che credono questo corpo debba funzionare come quelli delle loro amanti più piccole e pensano io sia pudibonda quando dico no a suggerimenti ridicoli, come il fare sesso sul sedile del guidatore in una macchina sportiva a due porte.

E’ fottutamente impossibile a livello fisico e non ha per nulla a che fare con la mia autostima.

Ora, io so che tutti devono maneggiare le proprie difficoltà.

Immagino che un uomo che sta diventando calvo non gradisca l’indice della sua amante mentre traccia lentamente la linea assottigliata dei suoi capelli,

e qualcuno con un alluce in più probabilmente evita i feticisti dei piedi.

Io sono più larga della maggior parte delle donne e qualche volta questo mi importa di più di con chi vado a letto.

La mia preoccupazione di piacere può durare oltre la durata dell’esistenza del mio amante per me.

Nel passato, mi sono scusata per la mia taglia con il silenzio, ma tu, tesoro, tu mi incontri in una nuova era.

Il miglior rapporto sessuale che io abbia mai avuto si è dato con un uomo che ha toccato e baciato tutta la mia pelle come se entrambi la stessimo scoprendo per la prima volta.

Questo è il mio nuovo standard – e anche ti invito a farlo tuo – così, quando farai l’amore con me per intero, la mia pancia si sentirà inclusa, senza che ci sia bisogno di trasformarmi in una statua del Buddha.

Fidati di me, avrai più fortuna in questo modo.

Fiori per te, bella Yesika

Fiori per te, bella Yesika

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