Durante la prima settimana di questo mese d’agosto, si è tenuto a Bali (Indonesia) il “Summit su Donne e Clima”, che ha riunito numerose leader delle campagne ambientaliste mondiali. Sono donne generalmente non bionde, non bianche, non giovani, non magre che invece di mostrare il loro culo in un tanga cercano di salvare il nostro e quello dei nostri figli e nipoti: perciò, di tale incontro internazionale il giornalismo italiano non ha potuto accorgersi, peccato.
Il cambiamento climatico sta peggiorando le condizioni di vita e di lavoro per le donne ovunque, ma in special modo per coloro che vivono in comunità rurali e/o indigene: le partecipanti al Summit hanno sottolineato che sempre un maggior numero di donne sono attive contro gli interessi delle corporazioni economiche e dei governi, e che è assai probabile un aumento della violenza nei loro confronti. Ogni anno, infatti, centinaia di queste donne sono minacciate e assalite e a decine sono assassinate. L’aggressione sessuale nei loro confronti è comune. 12 leader ecologiste sono state uccise in America Latina in poco più di due anni.
I perpetratori delle violenze includono le corporazioni economiche a cui le donne si oppongono (che hanno spesso le loro proprie “milizie” per la sicurezza delle operazioni); agenzie statali che vedono le attiviste come un’insopportabile seccatura; criminali comuni assoldati e persino membri delle loro stesse comunità patriarcali, che non sopportano come queste donne abbiano coraggiosamente preso la loro vita nelle loro stesse mani e si rifiutino di essere dominate.
Dall’incontro è emerso anche che le attiviste ambientaliste tendono ad avere meno sostegno e meno visibilità per le loro campagne, la maggioranza delle quali sono autofinanziate fra incredibili difficoltà, come ha spiegato Mardiana Deren: “Faccio tutto raccogliendo fondi da me e sono più che mai decisa nonostante le minacce. Alle 6 del mattino sono nella foresta a raccogliere caucciù. Poi vado a lavorare come infermiera. La sera parlo al consiglio del villaggio delle nostre strategie sino a che si fa notte.” Mardiana Deren, indonesiana, ha guidato una protesta contro la distruzione ambientale derivata da attività minerarie e coltivazioni di palme da olio: è stata investita di proposito da motociclette che le sono ripassate addosso mentre era a terra e successivamente è scampata in modo fortunoso a un agguato in cui hanno provato ad accoltellarla.
Un’altra leader presente al Summit è Sumaira Abdulah, indiana, che si è tentato di gettare giù da un ponte perché aveva contribuito a presentare una denuncia a norma di legge – vittoriosa in tribunale – contro le devastanti attività di scavo in un fiume locale. Poi c’è Berta Cáceres, dall’Honduras, che ha avuto due colleghe attiviste assassinate e che ha perso il conto di quante volte è finita in prigione.
“Come donne siamo esposte alla violenza degli affaristi, dei governi e di istituzioni repressive, ma anche alla violenza patriarcale. E’ sempre tre volte peggio per una donna indigena. I media, intanto, ci criminalizzano. Cercano di indebolire la nostra credibilità, ci spacciano per gruppi armati, dicono che veniamo da famiglie sballate, che siamo puttane e corrotte. E’ sistematico.”, ha detto fra l’altro Cáceres, molto felice di costruire solidarietà fra donne tramite l’incontro internazionale. Nonostante i pericoli che corre, non intende mollare: “Naturalmente sperimento un conflitto: voglio vivere e godermi la vita, ma non posso smettere di lottare perché sento la responsabilità che ho in un processo collettivo. Andarmene significherebbe sradicarmi completamente.” Tutte le presenti le hanno fatto eco, su questo. Tutte continueranno le loro campagne. Come Aleta Baun, detta “Mama Aleta”, che è stata più volte picchiata e colpita con i machete, che sfuggita ad un tentativo di omicidio particolarmente grave ha dovuto nascondersi nella foresta per un anno con il proprio bambino piccolo, che ha passato un ulteriore anno occupando una miniera di marmo in montagna con altre 150 donne: stavano sedute sulla roccia a cucire i propri abiti tradizionali.
Poiché nella sua comunità le donne sono responsabili del ricavare dalle montagne cibo, tinture e medicinali era di fondamentale importanza fossero loro a guidare l’opposizione alla distruzione delle montagne stesse. Mentre le donne protestavano occupando la miniera, gli uomini assunsero volontariamente tutti i ruoli di cura domestica: pulizie, cucina, accudimento dei piccoli. Nel 2010, Mama Aleta e la sua gente hanno vinto. Ora lei sta lavorando per mappare le foreste e prevenire futuri progetti di sfruttamento intensivo. Sta anche promuovendo progetti di agricoltura sostenibile per i villaggi montani. Quel che ha passato non si mostra mai nel suo viso o nelle sue parole, in pubblico. Serenità, determinazione e consapevolezza sono ciò che Mama Aleta esprime: “Come ogni altro movimento guidato dalle donne, al mondo, anche il mio è controcorrente. Stiamo andando controcorrente. E come guide, dobbiamo essere preparate ad affrontare qualsiasi sfida ci sia presentata. Io non permetto alcun dominio su di me.” Maria G. Di Rienzo
(Fonti: Front Line Defenders, Thomson Reuters Foundation, UN Women, Urgent Action Fund for Women’s Human Rights, Goldman Prize.)