(Brano tratto da: “Shutdown of sex-trafficking websites long overdue” di Alisa Bernard per Seattle Times, 13.1.2016, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Alisa Bernard – in immagine – è nel consiglio direttivo dell’Organizzazione per le Sopravvissute alla prostituzione. L’articolo tratta della recente chiusura, in base a provvedimento della magistratura, di un sito web fra i più longevi nel promuovere la prostituzione nel nordovest degli Stati Uniti.)
“Più di dieci anni fa anche il mio corpo è stato venduto tramite il sito che è stato chiuso. Questo sito permetteva ai compratori di sesso di recensire le donne che avevano acquistato, incoraggiando altri uomini a imitarli. Le recensioni includevano dettagli che andavano dal quanto le donne corrispondevano effettivamente alle loro fotografie al prezzo per ogni atto sessuale od orario, prezzo velato leggermente dal gergo “donazioni”.
Non avrei potuto essere più felice quando ho sentito la notizia. E’ stato come se il mio magnaccia e tutti gli uomini che mi hanno comprata fossero stati spazzati via in un sol colpo. E’ così che ci si sente a essere una “sex worker online”: anni dopo, cominci a capire che la schiavitù non ha bisogno di includere catene.
Le sopravvissute sono coloro che sono fuggite dalla prostituzione e hanno messo tempo e distanza fra essa e loro. Sono quelle che guardando al passato si chiedono come muoversi in avanti nel futuro. Alcune sex workers credono di essere “potenziate” tramite la prostituzione, come se stare distesa sulla schiena sia il più alto livello che una donna può sperare di raggiungere.
Costoro hanno tentato di far credere all’opinione pubblica che il sito chiuso era un attrezzo per vagliare acquirenti potenzialmente pericolosi. Io posso dire basandomi sulla mia personale esperienza che queste donne non stanno perdendo nulla. I siti online non aiutano le donne a “scremare” i compratori. Piuttosto, trasformano le donne in merci oggettificate da recensire come se fossero lavatrici. E non fanno nulla per la loro sicurezza. Se un compratore ha una brutta giornata, non c’è nulla che gli impedisca di sfogare il malumore sulla donna che ha comprato, poiché la vede esattamente come un oggetto. Nessun sito web mi ha fatto scudo dalla violenza. Che tu sia sulla strada o su internet, la violenza è sempre presente.”
(Brano tratto da: “The death of Daria Pionko shows there is no “safe” way to manage prostitution”, di Sarah Ditum – in immagine – per The New Statesman, 13.1.2016, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. L’articolo tratta dell’omicidio di una prostituta, Daria Pionko, avvenuto il 23.12.2015 a Leeds, GB.)
Si supponeva che Daria Pionko fosse al sicuro. O almeno più al sicuro che in altri luoghi. Questo era parte del ragionamento che stava dietro all’ “Area di prostituzione gestita” stabilita in località Holbeck, a Leeds, nel giugno 2014. L’altra parte era un esercizio di “decoro urbano” in risposta alle lamentele dei residenti locali per la prostituzione lungo le strade.
Tuttavia, nulla ha mantenuto Daria Pionko al sicuro mentre vendeva sesso. Nelle prime ore del mattino del 23 dicembre 2015 la donna, di nazionalità polacca, è stata trovata priva di sensi nell’Area gestita ed è deceduta all’arrivo in ospedale. La polizia ha descritto le ferite che aveva alla testa e al viso come “brutali”. Il 3 gennaio 2016, il 24enne Lewis Pierre è stato incriminato per il suo omicidio. Ma non si tratta del primo uomo che viene arrestato per un crimine violento contro donne che lavorano nell’Area succitata: nel settembre 2014, Abdul Fulat ha scelto una di loro e le ha fatto subire un’aggressione sessuale violenta e prolungata; due mesi più tardi, Anthony Riley ne ha stuprata e derubata un’altra. Le donne, contattate per una valutazione, non hanno riferito di sentirsi “più sicure” di prima e le loro denunce, anche di violenze che non necessariamente arrivano ai tribunali o ai titoli di apertura dei quotidiani, sono aumentate: da ogni punto di vista, il fatto che le donne denuncino è una buona cosa, in special modo se ciò poi significa che meno perpetratori la passano liscia, ma resta l’orrore sotteso di ogni punto nel conteggio, giacché ogni punto corrisponde a una donna abusata, a una donna brutalizzata, a una donna immersa nella paura.
La violenza non sta mai molto distante dalla prostituzione. Perché il problema della prostituzione viene sempre dall’unica cosa senza la quale non esisterebbe per nulla: i clienti. Un uomo che paga per il sesso sa che la donna pagata non si aspetta alcuna soddisfazione dall’incontro oltre la gratifica finanziaria di cui può avere disperatamente bisogno (dopotutto, non ci sarebbe necessità di pagare, se lei stesse per fare sesso per il proprio genuino piacere), pure non trova nulla di ripugnante nell’acquistare il consenso di lei. Forse è persino una cosa che lo eccita. Quanto dovete disumanizzare una donna per pensare che sia accettabile usarla in questo modo? Quanto è più facile essere violenti contro qualcuno che già vedi come inferiore?
I pericoli della prostituzione sono i fondamenti della sua stessa economia: non può esserci prostituzione senza i clienti, e non può esserci sicurezza per le donne con i clienti. Si può circoscrivere la prostituzione a una zona industriale. Si possono installare bidoni extra per i preservativi e altri detriti. Ma quando si raccolgono corpi di donne assassinate e lo si chiama “rischio professionale” ignorare l’oscenità della prostituzione dovrebbe essere impossibile.
(Brano tratto da: “The scourge of human trafficking: It’s not just other countries’ problem”, intervista a Carol Smolenski – in immagine – direttrice di Ecpat-Usa, agenzia che lavora per l’eliminazione del traffico di bambine/i e della prostituzione e pornografia infantili, di Daniela Petrova per Salon, gennaio 2016. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)
“Milioni di donne, uomini e bambine/i, al mondo, sono soggetti a lavoro forzato, schiavitù domestica o traffico a scopo sessuale. Il traffico di esseri umani comporta l’uso della forza, della frode o della coercizione per ottenere alcuni tipi di lavoro o atti di sesso commerciale. Non richiede che la vittima passi confini nazionali o internazionali e non dev’essere confuso con il trasporto illegale. Il traffico è sfruttamento ed essere trafficata non è una scelta che una persona fa.
Secondo le statistiche del Dipartimento di Giustizia, Il 40% del traffico di esseri umani negli Usa ha a che fare con lo sfruttamento sessuale di bambine/i. In molti stati americani i bambini possono essere arrestati per prostituzione anche se sono al di sotto dell’età minima legale per esprimere consenso. Carol Smolenski conosce queste statistiche fin troppo bene: da 25 anni lotta implacabilmente per porre fine allo sfruttamento delle bambine e dei bambini nel sesso commerciale. Il maggior equivoco sul traffico di esseri umani, dice, è che solo gli stranieri possano essere trafficati.
Ce ne sono altre di idee sbagliate?
Carol Smolenski: L’altro grande equivoco è pensare che quando sono coinvolti adolescenti – maschi o femmine – si tratti di una loro scelta, che a loro piacciano la faccenda e i soldi. E’ difficile per la gente andare oltre questa credenza.
Quando bambine/i pre-pubescenti sono stuprati, ritratti nella pornografia o venduti in ogni altro modo, l’indignazione è universale. Ma non appena il bambino o la bambina raggiunge la pubertà, come si vedono lo sviluppo dei seni nella femmina e i primi peli sul viso per il maschio, la discussione è chiusa: questi piccoli sono visti come compiaciuti complici degli abusi che subiscono.
Intendi dire che sono trattati come criminali e non come vittime?
Carol Smolenski: Proprio ieri leggevo un articolo su una ragazzina dodicenne che fu arrestata, anni fa, per prostituzione a New York. Aveva alle spalle una lunga storia di abusi sessuali e fisici perpetrati nei suoi confronti dai familiari, così come di abbandono. Un magnaccia l’ha puntata, le ha dato un vestito nuovo e un cellulare, le ha detto che l’amava e che avrebbe avuto cura di lei, e infine le ha detto: Tu adesso lavori per me.
Questa era una bambina a cui nessuno aveva mai detto “Ti voglio bene” e a cui nessuno aveva mai dato nulla. Così ha fatto quel che le si diceva di fare, si è imbattuta in un poliziotto che posava da cliente ed è stata arrestata.
Chi sono i bambini più a rischio di essere trafficati?
Le bambine/i bambini di cui si abusa sono i più vulnerabili allo sfruttamento nel sesso commerciale. E’ facilissimo reclutare bambini di cui si è abusato sessualmente. Anche, i bambini dati in affido che passano di famiglia in famiglia e non hanno nessuno che tenga davvero a loro. Quelli che scappano di casa e quelli che vivono per strada sono anche molto facili da reclutare.
Queste sono le grandi categorie, ma a dire la verità ogni creatura che si senta sola e senza relazioni è vulnerabile. Una delle cose che ho imparato da così tante/i sopravvissute/i con cui ho parlato, è che quando ti hanno tirato dentro è difficilissimo uscirne. Specialmente se non hai una famiglia, se non c’è nessuno da chiamare. Nel corso degli anni, tante/i sopravvissute/i mi hanno detto: “Per fortuna, ho potuto chiamare mia madre.” Ma cosa fai se non hai una mamma a cui chiedere aiuto?
Quali sono le sfide che abbiamo davanti?
Una è l’ampia fascia di persone che ancora non vede i bambini post-pubescenti come vittime e non prova alcuna simpatia per le loro difficoltà. L’altra grande sfida è lo sfruttamento online dell’infanzia.
La pornografia infantile ha avuto un’esplosione con l’avvento della camera digitale e di internet. Ci sono milioni di immagini, di bambine/i sempre più piccoli, e le violenze e gli abusi che tali immagini ritraggono sono incredibili. La cosa si incrocia con il traffico di minori a scopi sessuali, perché queste creature sono comprate e vendute per produrre immagini. Inoltre, è un’industria internazionale, perciò a volte il server è in un paese, l’acquirente in un altro e le bambine in un altro ancora. Combattere questo richiede la coordinazione di leggi e sistemi legali e un mucchio di risorse.
Cosa ti fa sentire più frustrata?
Il tipo di complicità che a volte vedo, quello che fa dire alle persone che non c’è nulla da fare al proposito. E’ molto frustrante, perché invece ci sono moltissime cose che si possono fare. E la cosa peggiore è quando la gente mi dice: “Oh, è un argomento così brutto che non voglio neppure pensarci.” Voglio che la gente sappia che possiamo fermare il traffico di bambini: lo possiamo fare e lo stiamo facendo.
Cosa ami di più nel tuo lavoro?
L’essere pagata per andare in ufficio e incazzarmi. E incanalare l’incazzatura verso un’attività produttiva. E’ bello avere una collocazione in cui vedi un’ingiustizia e vai al lavoro per correggerla. Io faccio questo ogni giorno.
La gente spesso mi chiede: “Come puoi svolgere un lavoro del genere? E’ così deprimente!” Io rispondo che sono pagata per fare del bene. E’ il miglior lavoro del mondo.”