(tratto da: “The Relentless Torture of The Handmaid’s Tale”, di Lisa Miller per The Cut, 2 maggio 2018, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)
La seconda stagione de “Il Racconto dell’Ancella” è appena cominciata, pure ogni nuovo episodio porta con sé nuovo terrore. Ho pensato che forse ero solo traumatizzata dal primo episodio, in cui le nostre protagoniste preferite sono inesorabilmente torturate – colpite da scariche elettriche tramite pungoli per bestiame, prese a calci, minacciate con cani, incatenate a una stufa a gas e ustionate, lasciate vive sulla forca ma coperte di urina – fino a che ho sopportato l’episodio numero due.
Là mi sono imbattuta, all’interno di un paesaggio dalla luce dorata che evoca il profondo sud, in una vasta marea di donne schiave, a stento in vita, costrette a scavare in rifiuti tossici sino a che muoiono. Durante una scena di agghiacciante tortura psicologica il sottile, fastidioso suono di Kate Bush che canta “Il lavoro di una donna” accompagna le immagini di donne letteralmente terrorizzate a morte; altrimenti, la colonna sonora è principalmente un costante gemito in tono minore, come il suono del vento che attraversa una finestra rotta, punteggiato dal pianto e dai colpi di tosse delle donne, e da urla.
Ho premuto il tasto che toglie l’audio e quello per l’avanzamento veloce così spesso durante questa seconda stagione che sono costretta a chiedermi: Perché sto guardano questa cosa? Sembra tutto così ingiustificato, come un pestaggio senza fine. Davvero, le hanno tagliato la lingua? Davvero, hanno messo in fila tutti i giornalisti contro un muro – inclusa una mamma che portava scarpe comode da gravidanza (quanto manipolativo è ciò?) – e li hanno fucilati? Davvero, l’hanno nutrita a forza, le hanno messo ceppi alle caviglie; le hanno lasciato assaggiare la libertà e poi gliel’hanno portata via? Davvero, davvero, davvero? Ci sono film che trattano di genocidi e schiavitù storici che obbligano a una necessaria analisi della brutalità nella vita reale. Ma questo. Questo è un mondo inventato.
Rispondo a me stessa: per quel che riguarda la prima stagione, ero d’accordo con il consenso della critica. Questa è “televisione importante”. Una parabola femminista, adattata dal romanzo di una donna, che è stata premiata con otto Emmy – la maggior parte dei quali conferiti a donne – e che tratta dei potenziali eccessi del patriarcato, non così inconcepibili ora, nell’era di Pence e Trump.
All’epoca su Slate, facendo la recensione, Willa Paskin sottolineò che guardare la prima stagione l’aveva fatta sentire “quasi virtuosa”, scrisse, “come l’immergersi in un oceano d’inverno”. Anch’io ero stata agganciata dal rigoglioso orrore della stagione iniziale. Sembrava fedele al romanzo originale di Margaret Atwood, ma molto più intimo, come se si stesse guardando una scena del crimine attraverso uno spioncino.
Volendo avvolgermi ancora in quel senso di virtù, solidale con le donne sullo schermo, ho continuato a guardare. Ma la mia voce interiore rifiuta di restare in silenzio. Sarebbe femminista guardare donne ridotte in schiavitù, degradate, picchiate, amputate e stuprate? Come, esattamente, sto partecipando a una rivoluzione femminile stando seduta sul mio comodo divano a consumare questo? “Il racconto dell’Ancella” ha saltato il fosso, nella sua seconda stagione, trasformandosi da intrattenimento con princìpi a pornografia di tortura?
Non sono la sola persona a notare l’amplificata violenza della seconda stagione, una conseguenza ovvia, probabilmente, dell’aver ricevuto prima del previsto così tanti premi e così tante lodi, e dell’essere uscita dalla mappa della trama originale di Atwood. La stagione successiva doveva chiaramente essere più grande della prima, più epica, più ambiziosa a livello visuale, più intensa. Ma “sembra che lo show stia solo scegliendo a caso cose orribili da far succedere alle donne per ottenere l’effetto shock.”, ha detto Laura Hudson durante una tavola rotonda a The Verge (ndt.: rete di media informatici), “Perché guardarlo? Io non ho bisogno di vedere donne brutalizzate per capire che Gilead è un posto malvagio o che lo è la misoginia; credetemi, ho capito.”
Il romanzo di Atwood era un esercizio mentale: un intellettuale affresco di “supponiamo che” girante per lo più attorno ai dettagli personali di vite comuni. Ciò che aveva reso l’adattamento televisivo così affascinante, per me, era la collisione della fantascienza con le descrizioni di gente ordinaria in case con cucina, che forzava “noi” a trasporci in “loro”. (…)
La prima stagione finiva dov’era terminato il libro di Atwood, con June seduta da sola nel retro di un furgone, incerta sul proprio destino. Con la seconda, gli sceneggiatori sono sulla propria frontiera narrativa e il sentiero che creano è deludente quanto prevedibile. Nel finale del primo episodio, l’attrice Elisabeth Moss (ndt.: June) taglia la graffetta metallica che indica il suo status di Ancella dalla sua stessa orecchia con un paio di forbici. E’ straziante da vedere. E quando ha finito, e i suoi seni sono coperti dal suo proprio sangue, si solleva come una Furia vendicatrice per dichiarare la propria liberazione.
Ma poiché questo è il primo episodio e ci sono dio sa quanti altri episodi e stagioni a venire, noi capiamo che sarà intrappolata di nuovo – e picchiata e torturata e stuprata di nuovo, che la violenza nei suoi confronti continuerà e continuerà. (ndt.: E’ quel che è effettivamente accaduto nel terzo episodio, non ancora in onda quanto l’Autrice ha scritto il presente articolo.)
E’ una storia sessista vecchia quanto la Bibbia: il coraggio dell’eroina è intensificato dalla sua vittimizzazione, perché la cultura misogina esalta le donne che soffrono. Che June sia incinta, e sia una madre angosciata (ndt: la figlia le è stata sottratta), sono cose che aumentano il suo eroismo secondo lo show. Gli sceneggiatori della seconda stagione sanno bene come i fondatori di Gilead che non c’è tropo più sacro della maternità. In un esasperante e grottesco rovesciamento, l’allegoria femminista di Atwood si è trasformata in una vetrina degli abusi delle donne: tornando alla scena descritta sopra, ho notato che la macchina da presa indugiava sul sangue sgocciolante di June. E là ho deciso, io ho chiuso. (ndt.: ho chiuso anch’io, prima ancora di leggere questo.)