“La soluzione definitiva nella lotta contro la violenza è raggiungere l’eguaglianza.”, Marijana Savic – in immagine – fondatrice e direttrice dell’ong Atina e del Bagel Bejgl Shop.
L’associazione combatte il traffico di esseri umani e la violenza di genere e dà sostegno alle donne rifugiate, lo “shop” è un’impresa sociale creata come spazio sicuro per le donne sopravvissute alla violenza, in cui le stesse apprendono nuove abilità e acquisiscono opportunità lavorative. Marijana vive in Serbia ed è un’attivista per i diritti umani da vent’anni.
Sulle donne nei flussi migratori ha molte cose interessanti da dire:
“Poiché siamo un’organizzazione femminista abbiamo osservato le donne che stanno facendo questo viaggio e abbiamo visto che nessuno presta loro attenzione e, sia perché questa è la vita nelle società patriarcali, sia perché molte cose non sono loro accessibili, le donne si stanno nascondendo ancora di più: si ritirano dietro persone che possono essere familiari ben intenzionati o no, in maggioranza dietro a uomini che assumono il ruolo dato da un sistema patriarcale – prendono la guida e prendono decisioni. Abbiamo anche visto che non c’è assolutamente alcun meccanismo predisposto per raggiungere queste donne e le loro necessità. Allora, abbiamo deciso di mettere a disposizione parte delle risorse di Atina e di cominciare a costruire capacità in questa direzione, perché neppure noi eravamo preparate ad affrontare la situazione. Ora siamo in tutti i luoghi ove vi sono donne e bambine rifugiate.
Aiutiamo altre organizzazioni a includere questa visione nel loro sostegno ai rifugiati di modo che siano in grado di riconoscere i segnali d’allarme che indicano una persona in difficoltà, le differenti necessità di una donna o il fatto che le donne stiano cercando risposte in modo differente, e che siano sensibilizzate su tutte le cose orribili che accadono lungo la via, non solo i casi di violenza di genere o traffico di esseri umani, perché è difficile rilevarle se non vi è un meccanismo predisposto che permette alle donne di aprirsi e condividere senza paura le proprie esperienze.
Nessuna dirà “Sì, sono una vittima, ho sofferto questa violenza e quest’altra, sono stata stuprata in quel posto, ed eccomi qui ora, vengo a dirti ciò.”: perché questo accada è necessaria un’atmosfera di sostegno. L’atmosfera non dovrebbe essere minacciosa e nel responso ai flussi migratori tutto è non supportivo e minaccioso, a partire dalla maniera in cui sono stabiliti i criteri per dire chi è un rifugiato e chi non lo è, criteri che cambiano continuamente. Questo vale per tutta la popolazione attualmente in viaggio, sia donne sia uomini, ma c’è una differenza nel modo in cui le informazioni al proposito raggiungono le donne e gli uomini.
In maggioranza le donne che arrivano sono meno istruite, non hanno avuto l’opportunità di andare a scuola, hanno vissuto in ambienti in cui non era loro permesso comunicare con estranei in special modo se costoro erano uomini, non conoscono lingue straniere, possono solo affidarsi a chi riveste il ruolo guida e costui può essere un trafficante, una persona benintenzionata o qualcuno che abusa di loro.
Ascoltando queste donne e parlando con loro, capisci che delle semplici cose potrebbero risolvere alcuni problemi, ma sono spaventate, temono per se stesse, per le loro figlie, hanno paura di essere assalite sessualmente o sfruttate, e noi le stiamo mettendo negli stessi posti con gli uomini, a passare giorni e notti sino a che sia presa una decisione politica ad alto livello. Le donne sono affamate di informazioni, delle informazioni più basilari: dove si trovano, quali servizi sono loro disponibili in questo posto, dove andranno e cosa le aspetta, quali sono i loro diritti, quanto qualcosa costa – e nessuna di queste informazioni le raggiunge, perché esse sono condivise con un uomo in grado di parlare la lingua locale. Nessuno chiede loro come stanno.
L’integrazione e la protezione delle persone che rimarranno qui richiederebbe la costruzione di un sistema serio che copra istruzione, salute, procedure amministrative, protezione sociale e lavoro. Almeno queste cinque aree che ho menzionato dovrebbero introdurre dei cambiamenti per accordare le loro regole alle necessità di integrazione delle persone che vogliono rimanere. Attualmente il sistema relativo all’asilo è disegnato attorno al concetto di un uomo politicamente attivo e politicamente perseguitato nel suo paese, ma ci sono persecuzioni e guerre che stanno travolgendo tantissime persone, donne e uomini. La protezione è stata pensata senza includervi la prospettiva di genere e quali sono le esperienze e le sofferenze di donne e uomini al proposito, ne’ la loro specificità nel contesto delle società da cui provengono.
E’ necessario un intero nuovo meccanismo per cui l’integrazione non si riduca alle classi per imparare la lingua, gestite da volontari un’ora alla settimana, ma che faccia di questo il primo passo per entrare in un sistema: i bambini che sono qui dovrebbero essere ammessi a scuola immediatamente e le persone che richiedono protezione qui devono essere informate sul locale ordinamento sociale, legale e politico. Da un lato devono essere informati, dall’altro è necessario che assumano su se stessi gli obblighi relativi e agiscano in accordo ad essi, perché dobbiamo essere consapevoli che molte persone vengono da regioni e paesi in cui a una ragazzina di 12 anni è proibito uscire di casa se non accompagnata da un maschio adulto.
Ci dev’essere un potenziamento economico, dev’essere creato un sistema di protezione sociale, per fornire alloggi adeguati, ma anche una seria valutazione dei bisogni, delle abilità e delle risorse di queste persone affinché possano essere indirizzate verso programmi che diano loro la possibilità di reciprocità nelle relazioni con noi e di essere competitivi sul mercato del lavoro. Questo è vero per donne e uomini e dovrebbe essere un principio guida e un impegno: lo sforzo di operare cambiamenti per essere in grado di includere queste persone in futuro, perché dobbiamo smettere di pensare che siano qui solo di passaggio.”
Maria G. Di Rienzo