Oggi Marcela Loaiza, colombiana, ha 35 anni ed è nota come attivista che dirige un’ong contro il traffico di esseri umani. Quando ne aveva 21 era una ragazza madre con una bimba di 3 anni e mezzo, e per mantenere se stessa e la figlia lavorava come cassiera di giorno e come ballerina in un club di sera.
“Al club un uomo mi si presentò come talent scout che cercava danzatrici disposte a lavorare all’estero. Io non accettai l’offerta ma presi il suo biglietto da visita. Qualche settimana dopo, la mia bimba ebbe un attacco di asma e io restai con lei in ospedale per due giorni mentre si riprendeva: ma non era previsto io potessi prendere permessi dai miei due impieghi, così li perdetti entrambi. Ero disperata. Non avevo i soldi per saldare il conto dell’ospedale. Mi misi in contatto con quell’uomo e lui si offrì di pagare per le cure di mia figlia. Mi disse anche che se volevo potevo essere una danzatrice professionista in Giappone e che il lavoro era assai remunerativo. Io pensai che avrei potuto finalmente provvedere alla mia bambina, e magari comprare una casa per mia madre, che era il mio sogno. Lasciai la piccola a lei e partii.”
Arrivata a Tokyo, Marcela fu accolta dai magnaccia della yakuza (mafia giapponese): costoro le sequestrarono il passaporto e la informarono che il suo debito nei loro confronti ammontava a 50.000 dollari. Una volta che lo avesse pagato, era libera di andarsene. Se ne fosse andata prima, o comunque senza il loro consenso, sua madre e sua figlia in Colombia non se la sarebbero passata bene.
“Mi diedero una parrucca bionda e lenti a contatto celesti. Mi prostituivo per strada, cambiando posto ogni dieci giorni circa. A volte mi prostituivo nei centri per massaggi. Un magnaccia era sempre nei paraggi a controllare quanto guadagnavo. Dividevo un appartamento con altre donne che lavoravano come prostitute per la mafia. Venivano dalle Filippine, dalla Russia, dal Venezuela, dalla Corea, dalla Cina, dal Perù e dal Messico. La casa aveva tre camere da letto e 6/7 di noi per camera. Dormivamo in sacchi a pelo o su materassi per terra. I nostri pasti erano fatti di tonno in scatola, uova bollite, riso e bibite energetiche. Non avevamo il diritto di parlare, di scegliere, di avere un’opinione. E poi ti facevano una specie di lavaggio del cervello: continuavano a ripeterti che quello era il prezzo da pagare per muoversi in avanti, era il sacrificio che dovevi fare per migliorare la tua esistenza.”
La vita da prostituta di Marcela è talmente sana che, dopo un anno e mezzo, è ridotta quasi senza capelli e con i denti che le cadono; ancora non lo sa, ma è diventata anche anemica: “Per 18 mesi ho lavorato giorno e notte, avevo dai 14 ai 20 clienti al giorno, sette giorni fu sette. A questo punto ero certa di aver ripagato quei 50.000 dollari e così cominciai a pensare di fuggire. Ho parlato con uno dei miei clienti, uno di quelli assidui: gli dissi che ero stata raggirata, rapita e intrappolata. Lui non voleva credermi. Mi rispose che ero lì perché volevo esserci, perché mi piaceva. Mi ci è voluta un’eternità per convincerlo del contrario, ma infine mi ha aiutata a scappare. Mi lasciò un cambio d’abiti e una parrucca nel bagno di un McDonald’s e non appena fui travestita mi aiutò a prendere il treno per raggiungere l’ambasciata colombiana a Tokyo. Quando ci arrivai piangevo senza riuscire a controllarmi. Ero terrorizzata all’idea che i magnaccia mi avessero seguita. Continuavo a ripetere fra i singhiozzi: Sono una prostituta, sono una prostituta… e il Console mi abbracciò e mi disse: Sei una vittima del traffico di esseri umani. Era la prima volta che sentivo quella definizione.”
La simpatia per Marcela, però, finì lì. Una volta tornata nel suo paese non le furono fornite l’assistenza medica e psicologica di cui aveva bisogno per guarire, e che le erano state promesse. “Ero traumatizzata. Non riuscivo a parlare con nessuno, mi vergognavo troppo. Mi sentivo disgustosa e colpevole per aver accettato di andare in Giappone. Volevo suicidarmi. A mia madre c’è voluto un bel po’ di tempo per capire cos’era accaduto davvero. Ho passato tre anni in terapia e la svolta è accaduta quando ho messo per iscritto i miei sentimenti. Ho pubblicato due libri sulla mia esperienza, per aiutare altre donne che sono state trafficate. Molte donne e ragazze in Colombia sono vulnerabili per via dell’alto tasso di disoccupazione e per la mancanza di istruzione. Lo stato non sta aiutando le sopravvissute come dovrebbe. Adesso io sono sposata e ho altri due bambini. La mia intera famiglia sostiene il mio lavoro di attivista contro il traffico di esseri umani: il mio scopo è mostrare che questo accade davvero, accade a persone vere, a persone che conoscete. Non mollerò mai. E’ importante che la verità sia conosciuta, perché parte del problema è proprio il silenzio.” Maria G. Di Rienzo