Che cos’è l’appropriazione culturale? Messa in termini semplici è prendere una cosa qualsiasi da un’altra cultura – in particolar modo da una cultura stimata più “bassa” sulla scala sociale – e:
usarla in modo superficiale e insensibile;
usarla in un modo che degrada, nega, irride la cultura stessa da cui proviene;
usarla in un modo che diffonde/mantiene pregiudizi o stereotipi sulla cultura stessa da cui proviene;
trattare le persone che hanno inventato quella cosa come esseri inferiori.
Pubblicità, moda, industria dell’intrattenimento sono piuttosto inclini a indulgere in tutti gli errori di cui sopra. Le due immagini che illustrano questo articolo sono state contestate come appropriazione culturale da indiani e nativi americani. Nel primo caso, gli indiani hanno anche giustamente chiesto cosa c’entrano i capezzoli con i prodotti per capelli (conoscendo già la risposta, come voi e me). Nel secondo i fashionisti hanno fatto un passo indietro e cambiato l’immagine piazzando in testa alla modella una coroncina di fiori.
La “fine del mondo” nel 2012 della supposta profezia Maya è un altro buon esempio di appropriazione culturale. In primo luogo, chi la strombettava ha mistificato i Maya come un mistico popolo da tempo svanito, mentre costoro sono vivi, vegeti e spesso piuttosto seccati da menate simili. Poi ha incastrato a forza il nostro calendario in un sistema di credenze altrui, ignorando ciò che i Maya dissero subito al proposito, e cioè: “No, non crediamo che il mondo finirà nel dicembre 2012.” I fautori della profezia hanno guadagnato parecchi bei soldini con seminari e libri e film, e quando la bolla di sapone è scoppiata chi si è preso le pernacchie non sono stati loro, ma gli incolpevoli Maya.
Gli atti di appropriazione culturale hanno come fondamento l’assunto che si possa usare qualsiasi cosa in qualsiasi modo, basta volerlo, avere i mezzi, il potere, la legittimazione sociale per farlo. Nel processo, gli esseri umani che hanno relazione diretta con ciò che viene usato sono ridotti allo stato di accessori, giocattoli o “animaletti”. Gli offensori razionalizzano tale comportamento con argomentazioni del tipo “Ma stavamo solo scherzando”, “Era per creare un’atmosfera”, “In realtà questo è un apprezzamento della tal cultura” ecc. anche quando gli si richiede esplicitamente di darci un taglio, il che manda ai richiedenti l’ulteriore messaggio: “La vostra roba mi piace, ma di voi non me ne può importare di meno.”
Il concetto di “appropriazione culturale” è relativamente nuovo per noi e per il momento i discorsi in cui appare contengono argomentazioni e ragionamenti per lo più importati dagli Stati Uniti, la cui composizione variegata di etnie e tradizioni ecc. (il famoso crogiolo), con la storia di sfruttamenti e genocidi ed espropri che ci sta dietro, conferisce alla questione un peso notevole e particolare. E’ ovvio che esaminarla all’interno del nostro contesto darà un quadro diverso: “Si possono prendere a prestito le idee, non le situazioni.” (Billy Bragg – North Sea Bubble).
Come ogni altro concetto riferito al rispetto reciproco, quello dell’appropriazione culturale può essere usato strumentalmente in senso relativista, per esempio nel tentativo di demolire l’attivismo femminista intersezionale / internazionale e sembrare, nel farlo, mooolto intelligenti e rivoluzionari e informati. Mi correggo: e cercare di sembrare ecc. ecc. – fallendo miseramente.
Per non lasciare dubbi, vestirsi come un personaggio dei cartoni animati o dei fumetti giapponesi (cosplay) non è appropriazione culturale, come non lo è cucinare il curry a Modena, imparare una lingua straniera, scrivere un racconto ambientato in Francia non essendo francesi, comprare artigianato indigeno creato e venduto da artigiani indigeni, far parte di un’associazione multietnica, mettere in piedi un gruppo femminista con donne native e donne migranti. Niente di tutto ciò insulta, infantilizza, oggettifica gli appartenenti alle culture coinvolte. Altre domande? Maria G. Di Rienzo