“Una “normale” obiezione alla scelta nonviolenta consiste nello spacciare per naturale ed inevitabile la violenza. Sono le pulsioni profonde dell’umanità, dirà l’oppositore, non potete pretendere di far andare il mondo in modo diverso da quello in cui è sempre andato: guardate le società primitive, solo una certa dose di violenza permette loro di sopravvivere, e la posizione della donna in tali società è ovviamente inferiore eccetera eccetera. In realtà, le originarie comunità umane hanno ignorato la violenza per millenni, e le ricerche storiche ed archeologiche degli ultimi quarant’anni lo hanno provato al di là di ogni dubbio: l’eguaglianza fra i sessi era tra l’altro uno dei loro fondamenti. Quindi non solo non è “sempre andata così”, la cosa più importante è che parecchie società pacifiche esistono ancora. (…)” Così scrivevo in un articolo per “Azione Nonviolenta” del 2008, passando poi a descrivere un paio delle società pacifiche menzionate ed i loro modi di affrontare e risolvere i conflitti.
E così scriveva Michael Kaufman (sociologo canadese, trainer internazionale, autore di mezza dozzina di libri su genere, mascolinità ecc., co-fondatore della “Campagna del nastro bianco”, conosciuto anche in Italia dove ha lavorato con i gruppi anti-violenza) qualche tempo fa: “I ricercatori ci dicono che metà delle società tribali su cui si è indagato durante il secolo scorso avevano livelli molto bassi di violenza o non la conoscevano proprio. Stupro sconosciuto. Niente violenza domestica. Niente scazzottate. Niente guerra. Questa è la prova migliore che abbiamo che gli esseri umani in generale, e quelli di sesso maschile in particolare, non sono geneticamente programmati per usar violenza l’uno contro l’altro.” Kaufman proseguiva spiegando come la violenza si apprenda: “Ne siamo circondati. I bambini la ingoiano con il primo cucchiaio di omogeneizzato. Vedranno 18.000 morti violente in televisione prima di uscire dalla scuola superiore. Apprenderanno che pallottole e bombe fanno gli eroi. Sentiranno i nostri rispettati leader politici dirci perché dobbiamo cominciare un’altra guerra. Saranno picchiati dai loro genitori e crederanno che amore e violenza siano inseparabili.”, e si diffondeva sugli effetti nefasti dell’equiparazione fra mascolinità e violenza e della glorificazione di quest’ultima.
Ma se l’essenza della mascolinità non è la violenza, non è il dominio, non è la forza fisica – si chiederà qualcuno – su che diamine questi altri popoli la costruiscono? Ah, ho capito: devono essere degli effeminati, dei deboli, dei subordinati alle loro madri o mogli, eh? No, caro qualcuno, ti sbagli. Nelle società pacifiche tuttora esistenti, essere un “vero uomo” significa principalmente essere in armonia con se stesso e gli altri membri maschi e femmine della comunità. Non significa non discutere, non significa nemmeno non arrabbiarsi mai facendolo, ma sicuramente significa che non c’è bisogno di usare un bastone per vincere una discussione: si preferisce capire, argomentare, negoziare e vincere assieme al proprio oppositore la ritrovata armonia.
Naturalmente c’è spesso anche modo di essere non solo dei “veri uomini”, ma degli “eccellenti veri uomini”. Per i Buid e gli Hanunoo, ad esempio, essere un vero uomo è essere un poeta: e se per ventura sei un grande poeta, sei un uomo davvero eccellente. Questi due gruppi fanno parte, assieme ad un’altra mezza dozzina, dell’etnia Mangyan che vive negli interni montuosi di Mindoro, nelle Filippine. Tutti i Mangyan, qualsiasi sia il loro dialetto, possono comunicare tramite la poesia. Buid e Hanunoo parlano lingue totalmente diverse, ma usano le stesse parole per la forma di poesia stilizzata detta “ambahan”, e a differenza degli altri gruppi che si limitano a recitarla (a cantarla, in verità) ne conservano la scrittura.
Gli ambahan sono stati definiti dagli studiosi “poesia sociale”: si usano infatti non solo per esprimere idee e descrivere sentimenti, ma servono proprio a stabilire relazioni. I dialoghi “normali” sono condotti nel linguaggio d’appartenenza del gruppo, ma quando vi è da dire qualcosa di delicato e di prezioso, o anche di spiacevole e imbarazzante, lo si fa con un ambahan. Persino i bambini ne creano per parlare tra di loro, sebbene le composizioni siano ovviamente meno elaborate e più brevi. I genitori possono usare gli ambahan per istruire i figli, un visitatore può chiedere tramite un ambahan di essere ospitato e salutare con un altro quando se ne va; inoltre, gli ambahan sembrano indispensabili all’amore e la gioventù – ambo i sessi – ne fa grande uso per il corteggiamento. Questo è un ambahan in cui il ragazzo dice alla ragazza, con una metafora, che c’è posto solo per lei nel suo cuore e nella sua casa: “Salod anong bugtungan – Dayo madig luyunan – Yami bay paglabagan – Ud wa has suglat lukban – Sunson hayo manyawan”, e cioè (più o meno, tentando di mantenere un po’ di rima): “Tu soave, che ho cara come amore – Passeggia un po’ con me per favore – Fino a quella casa distante – Tutto ciò che là abbiamo è fragrante – sia pianta o albero ondeggiante.”
E questo è l’ambahan di un ragazzo alla ragazza che lo ha respinto: “No kawo ti magduyan – Sumay kanta yi limtan – No ako ti magduyan – Sumay padi kalimtan – Hanggan sa manundugan”: “Puoi decidere altroché – ch’io non sia fatto per te – Ma se posso dir la mia – il nostro incontro non scorderò – finché fiato e vita avrò.” E’ un po’ diverso, vero, dal coprirla di insulti, dal diffamarla con i conoscenti, dal tormentarla con sms e telefonate, dall’aspettarla fuori casa per darle una lezione, o peggio: tutti comportamenti invece assai familiari ai “veri uomini” nostrani quando una donna dice loro di no.
E va bene, sbotta il qualcuno di passaggio, saranno anche più gentili o educati o che ne so, ma è possibile che non desiderino il brivido della competizione, della lotta, della conquista? Se ne stanno tutti insieme in armonia a contarsi le dita? Che noia! I Mangyan non la pensano così: quando sono insieme nelle grandi occasioni (festività, ricorrenze, ecc.), si sfidano a chi è miglior poeta. Uno comincia con un ambahan che solleva un problema, o pone una domanda, diretto ad un altro e ciò dà inizio alla gara. La gente si affolla attorno ai due poeti (senza regole, senza scommesse) e ascolta la risposta dello sfidato, che ovviamente contiene un’altra questione a cui chi ha cominciato deve replicare. Entrambi sono vigorosamente e allegramente incoraggiati dai loro sostenitori e la gara può durare sino a notte inoltrata: il vincitore è quello che recita l’ambahan a cui l’altro non sa dare risposta, ma i Mangyan non ci fanno neppure caso: che importa chi ha vinto, dicono, la cosa veramente importante è quanto ci siamo divertiti ad ascoltarli.
Il qualcuno freme: diciamo pure che questa brava gente non ha conflitti al proprio interno (no mio caro, li ha, solo che li maneggia in modo più umano del nostro), ma non gli capita mai di scontrarsi con chi non è Mangyan e non capisce ‘sta roba dell’armonia? Certo. Soffrono discriminazioni perché considerati “inferiori” agli altri filippini: ad esempio, i prodotti della loro agricoltura sono pagati meno. E l’esercito filippino li sta molestando pesantemente per avere gratis le loro terre e le loro foreste.
Quindi, che hanno fatto le pacifiche sette tribù Mangyan?, si chiede il qualcuno gongolando un poco, Stanno subendo, immagino. O cantano ambahan? La risposta esatta è la seconda. Nell’aprile scorso si sono incontrati in 500, rappresentanti di tutti i gruppi: parlavano sette lingue diverse ma come sappiamo il linguaggio degli ambahan è comune, ed ha permesso loro di stringere un’alleanza nella determinazione di difendere i propri diritti umani. Hanno cantato della violenza dei soldati, delle ferite inflitte alla loro terra, dei problemi che le miniere creano (lo stato vende le miniere in territorio Mangyan a corporazioni transnazionali), della necessità di contrastare una diga, di come opporsi in modo nonviolento alla distruzione dell’ambiente, della volontà di essere uniti.
E in un ambahan hanno siglato il loro accordo. Uomini veri, vere donne. Poeti.
Maria G. Di Rienzo