(brano tratto da: “Bill Cosby and the rape accusers: stop looking away and start believing women”, di Roxane Gay per “The Guardian”, 21 novembre 2014, trad. Maria G. Di Rienzo)
“Lo stupro è un crimine atroce. Mi è davvero difficile concentrare la mia mente su questo, sul fatto che una persona si senta così intitolata al corpo di un’altra da forzarsi all’interno di quest’ultima. Gli stupratori prendono qualcosa di così intimo – l’accesso al tuo interno – a cui non hanno diritto. Violano l’integrità del tuo corpo, la tua integrità emotiva, la tua fiducia nella tua interiorità e in ogni cosa all’esterno di essa, la tua convinzione che il tuo corpo ti appartenga e persino che il tuo trauma richieda o meriti giustizia. “Crimine” è a stento una parola adeguata per descriverlo.
E c’è ben poca giustizia riguardo alla violenza sessuale, che la trattino i tribunali ordinari o quelli dell’opinione pubblica. Abbiamo un fiume di testimonianze da parte di ogni tipo di vittime: ed un coro appassionato di increduli sin troppo desiderosi di fare a pezzi le loro storie. (…)
“Rolling Stone” ha pubblicato questa settimana la storia straziante di Jackie, una giovane donna studentessa all’Università della Virginia che offre il resoconto di come sia stata stuprata brutalmente in gruppo durante una festa. L’ultimo assalitore, in un’aggressione che è durata ore, era un suo compagno di classe che lei riconobbe – e lui esitò un attimo. Perciò gli altri assalitori gli dissero: “Prendi la fottuta gamba di quella cosa.”
Mi ossessiona. Mi fa star male. “Cosa”.
Sono tormentata – piagata, in verità – dai ricordi di quando io sono stata la “cosa”, un niente, un sacco d’ossa di ragazza su un pavimento sporco, torturata da ragazzi terribili. Io ero la “cosa” mentre loro ridevano e bevevano e mi prendevano e mi rompevano. Io ero la “cosa” quando raccontarono cos’avevano fatto a chiunque stesse ad ascoltarli e la gente cominciò a guardare non me, ma attraverso di me.
Troppe di noi sono state la “cosa”. Troppe di più, di noi, diventeranno la “cosa”. In troppi continueranno a guardare da qualsiasi parte anziché all’orrida verità.
Ma è così che lo stupro e l’esaltazione dello stupro funzionano. Lei non era umana, quella non era la sua gamba, la sua esperienza non era “la verità”. Nella storia di Jackie, dopo che gli aggressori la lasciarono visibilmente pestata e sanguinante, c’è di peggio: i suoi cosiddetti amici si misero apertamente d’accordo nel non portarla in ospedale, per non mettere in pericolo la loro permanenza al campus universitario. La situazione era sconveniente. La verità di Jackie era disagevole. Jackie, la loro amica sanguinante, piena di lividi, quasi spezzata.
Questa è l’orrida verità di cui parlo. Gli stupratori ci mettono meno a disagio delle vittime di stupro. I predatori chiedono molto meno delle vittime, non sono così sconvenienti. Non sanguinano e non mostrano ferite aperte. Se non dubitiamo di loro, possiamo non dubitare di noi stessi. Perciò qualunque cosa diventa più importante delle parole delle donne. Perciò la patina di prestigio e nobiltà di un’università è più importante del numero di giovani donne che sono state stuprate al suo interno.
“Cosa”.
Si possa noi essere ossessionati da questa parola e dalla donna che è stata costretta a portarla addosso sino a che lei ed ogni altra vittima di stupro siano viste, ascoltate, credute.“
22 novembre 2014, Roma. Una quindicenne conosce un uomo su una chat (dove lei finge di essere maggiorenne). Lui insiste a lungo per avere un incontro di persona e infine lei accetta. L’uomo, 44enne e con una relazione stabile, la porta a casa sua “per parlare un poco” e la violenta per ore. La riconsegna alla zia della ragazza, che è riuscita a rintracciarlo, solo dopo essere stato minacciato di denuncia. Dapprima la quindicenne non vuole neppure dire cos’è accaduto, ma infine racconta, è accompagnata in ospedale (ha escoriazioni e lividi su tutto il corpo), la violenza viene denunciata. La polizia rintraccia il signore “nei pressi del posto in cui lavora la sua attuale compagna”, dicono i giornali, e quando perquisiscono la sua abitazione trovano “due valigie, già preparate, contenenti i suoi effetti personali. L’uomo infatti, intuito che i famigliari della quindicenne lo avrebbero denunciato, stava organizzando la sua fuga.”
Fin qui la cronaca. Ora, su cosa credete siano concentrati i commenti ad essa? In primo luogo: sull’età del consenso ad un rapporto sessuale per la legge italiana. Poi, sul fatto che quella di stupro è “solo un’accusa”. Poi, sul fatto che lui non poteva sapere della minore età della ragazza, visto che questa si spacciava per maggiorenne online. Poi, sulle responsabilità della ragazza: “(…) è mai possibile che non abbia letto e/o sentito, visto in un film…? i casi simili? Ma credono davvero che le stanno invitando ad una tazza di caffè?” – “E dicono che le ragazze di oggi sono sveglie!”. Poi, sulle responsabilità di sua madre e dei suoi insegnanti.
Lo stupratore con valigie pronte non deve rispondere dei propri atti. Nessuno prova per lui l’insormontabile fastidio espresso nei confronti della sua vittima quindicenne. Ecco che significa, essere una “cosa”. Maria G. Di Rienzo