(tratto da: “Bad Victims”, un più ampio testo di Roxane Gay per The Butter, 10 dicembre 2014, trad. Maria G. Di Rienzo)
Avevamo bevuto.
Eravamo drogate.
Eravamo sobrie.
Abbiamo fatto petting con lui.
Ci è piaciuto fare petting con lui, ma non volevamo fare altro.
Siamo andate nel suo appartamento.
Lo abbiamo invitato nel nostro appartamento.
Non abbiamo detto no.
Abbiamo detto no, ma a voce non abbastanza alta.
Eravamo troppo scioccate per lottare.
Non abbiamo lottato con sufficiente impegno.
Gli abbiamo chiesto di mettere un preservativo.
Non gli abbiamo chiesto di mettere un preservativo.
Abbiamo tentato di negoziare con lui, di offrirgli questo al posto di quello.
Lo conoscevamo.
Non lo conoscevamo.
Indossavamo una camicia scollata e tacchi alti.
Indossavamo jeans attillati.
Indossavamo un costume da bagno.
Indossavamo un abito largo e scarpe da ginnastica.
Eravamo truccate.
Ci eravamo date il rossetto.
Non eravamo truccate.
Non lo abbiamo detto a nessuno.
Lo abbiamo detto alla nostra migliore amica.
Lo abbiamo detto al tizio che ci ha trovate subito dopo, mentre barcollavamo per strada.
Abbiamo aspettato vent’anni prima di dirlo a qualcuno.
Siamo andate all’ospedale.
Siamo andate all’ospedale tre giorni dopo.
Abbiamo fatto denuncia.
Non abbiamo fatto denuncia.
Non riusciamo a ricordare il suo nome.
Non riusciamo a ricordare il suo aspetto.
Non riusciamo a ricordare quanti ce n’erano.
Abbiamo mutato il nostro racconto dopo aver cominciato a ricordare più particolari.
Abbiamo mutato il nostro racconto in qualcosa con cui potessimo convivere.
Le persone che sono state assalite sessualmente sanno che ci sono le buone vittime e le cattive vittime. Le buone vittime, ovviamente, non esistono ma sono un’ideale dettagliato. Sono aggredite in un vicolo scuro da un noto malvivente che ha un coltello o una pistola. Sono vestite “modestamente”. Denunciano immediatamente la violenza alla polizia e si sottopongono, di buon grado, agli esami per certificare lo stupro. Rispondono in modo lucido e completo ad ogni domanda relativa all’aggressione, tutte le volte che viene loro richiesto di farlo.
Sono ben preparate per il processo. Non infastidiscono il giudice per le indagini preliminari mentre costui prepara il processo. Quando testimoniano, sono sempre vestite “modestamente”. Sono la ragazza (o il ragazzo) della porta accanto. Meritano giustizia perché sono così virtuose nel loro essere vittime.
La brutta verità è che è difficile persino per l’inesistente buona vittima aver giustizia per un assalto sessuale all’interno del sistema legale o più in generale nella nostra cultura. (…)
Io sono una cattiva vittima. Non ho detto a nessuno quel che mi era accaduto per lunghissimo tempo. Al ragazzo che mi aveva offerto ai suoi amici, ho continuato a permettere di fare sesso con me dopo lo stupro, perché dopo lo stupro il mio corpo non aveva più nessuna importanza. Quel che io volevo non aveva più nessuna importanza.
I ragazzi a scuola dicevano che ero una troia e io sono diventata una troia. Mi sono messa in situazioni pericolose o insane per i vent’anni seguenti e anche di più, perché era quello che mi meritavo, perché cercavo di tornare a quel momento di rottura nemmeno sicura di cosa volessi trovare.
Ho distrutto il mio corpo in molteplici modi e ora sono impegnata a ricostruire quello stesso corpo. Ho fatto quel che dovevo fare. Tento di non portarmi dietro troppa vergogna da un giorno a quello successivo.
La maggioranza delle persone sopravvissute ad un assalto sessuale sono cattive vittime, in un modo o nell’altro. Non abbiamo un copione da seguire. Ci sono discrepanze, nelle nostre storie e nelle nostre scelte. All’inizio cerchiamo semplicemente di sopravvivere e, quando siamo fortunate, tentiamo di vivere nella maniera migliore possibile.