(Barriers to Reporting – “those women” and “those men”, Everyday Victims’ Blaming, autrice non menzionata, 19 giugno 2014, trad. Maria G. Di Rienzo.)
Due dei pilastri che sostengono le numerose barriere al denunciare violenza domestica e sessuale sono i miti di “quelle donne” e “quegli uomini”.
Quelle donne sono deboli, in disordine, vulnerabili. Ci guardano dai poster fatti per suscitare consapevolezza sull’abuso sessuale e domestico, con i loro occhi pesti e pieni di lacrime. Quando noi facciamo esperienza dell’abuso non vediamo noi stesse come vittime. Non siamo come “quelle donne”, siamo diverse. Siamo forti e competenti. Abbiamo impieghi, siamo buone madri e certamente NON siamo vittime. L’altra cosa di cui siamo certe è che la persona che ci ha ferito non è uno di “quegli uomini”.
Quegli uomini sono mostri. Sono sociopatici senza sentimenti. L’uomo che ci fa del male non è così. E’ un brav’uomo, non è uno di “quelli”. E’ solo stressato dal lavoro, è stato maltrattato da suo padre, ed è per questo che lo fa. Non intende farlo, non è uno di “quegli uomini”.
I nostri amici e la nostra famiglia vedono la situazione. Sanno che non è abuso, perché noi non siamo una di “quelle donne”. Siamo la loro sorella, la loro amica, la loro madre. Ci vedono ridere, ci vedono reagire, raramente ci vedono piangere e sanno che non siamo una di “quelle donne”. Perciò non ci suggeriscono mai di denunciare la violenza domestica o sessuale, e non prendono in considerazione l’idea di imparare di più su di esse, perché noi non siamo una di “quelle donne”.
I nostri amici e la nostra famiglia sanno anche che l’uomo che ci ferisce non è uno di “quegli uomini”. Sanno che è un “buon padre”, che non ci ha mai davvero picchiate. E anche se lo ha fatto, è stata solo una volta, e non ne aveva intenzione, e il lavoro lo stressa, e in fin dei conti se ci siamo messi insieme probabilmente ci piace come vanno le cose. Lui non è un mostro, non è uno di “quegli uomini”.
I professionisti che eventualmente siano coinvolti nella nostra situazione, sanno che non siamo una di “quelle donne”. Il consulente matrimoniale, il medico, l’insegnante. Non notano i segni, perché noi non abbiamo la parola “vittima” tatuata in fronte. Forse non siamo neppure della stessa classe socio-economica di “quelle donne”. Forse i nostri bambini vanno alla scuola privata, forse le nostre carriere provano che siamo ben lontane dal poter essere una di “quelle donne”.
E i professionisti sanno con certezza che lui non è uno di “quegli uomini”. E’ un brav’uomo, o forse un uomo che non si vede molto, ma non è certamente un cattivo. Il consulente matrimoniale ci dice come entrambi dobbiamo impegnarci per far funzionare le cose, e ci dice che le sue lacrime mostrano quanto lui desidera cambiare.
Occasionalmente, riusciamo ad andare oltre questi miti. Cominciamo a capire che “quelle donne” non esistono: sono un prodotto del patriarcato che ha la funzione di mantenerci oppresse. E finalmente andiamo alla polizia, cominciamo a raccontare le nostre storie, forse scappiamo e finiamo in un rifugio o accediamo ad un servizio. Poi scopriamo che molti degli “addetti” che incontriamo si relazionano con noi come se fossimo una di “quelle donne”. Prendono decisioni per noi e ci disprezzano. Quello che ci stava facendo del male è semplicemente ignorato o percepito come un mostro. Gli assistenti sociali hanno paura di confrontarsi con lui, perciò tutta l’enfasi è su di noi. Anche gli ufficiali di polizia lo vedono come un mostro e vedono noi come deboli senza spina dorsale, troppo stupide per far scelte migliori; oppure vedono lui come un “brav’uomo” e cominciano a parlare in sua difesa: “Davvero, non voleva farlo. Non ho mai visto un uomo così dispiaciuto di quel che ha fatto. E’ sicura di voler sporgere denuncia?”
Qualche volta, siamo così lontane dalla descrizione ufficiale di “quelle donne” che siamo etichettate come perpetratrici. Nessuno crede che siamo noi quelle malmenate. Siamo troppo irritabili, abbiamo troppa forza di volontà. Non indossiamo gli abiti giusti o non piangiamo abbastanza.
I miti di “quelle donne” e “quegli uomini” attraversano la società in modo pervasivo. Ognuno/a di noi ha la responsabilità di rifletterci sopra, di riconoscere l’errore nel perpetuarli e poi di istruire altre persone. Dobbiamo protestare per il modo in cui si ritrae chi ha subito abusi e chiedere ai media, alle organizzazioni e agli individui di dire la verità: e cioè che ci siamo solo noi donne e che coloro i quali scelgono di usare comportamenti violenti non sono mostri.