“Il termine ‘Ladylike’ è di origine anglosassone ed è in voga nella politica americana per rivendicare l’atteggiamento femminile delle donne quando occupano ruoli apicali nelle istituzioni e nella carriera…”Alessandra Moretti, eurodeputata Pd, 25 novembre 2014.
Veramente mi secca dover tornare sulla questione, ma ho un’idiosincrasia per le balle galattiche.
Nella politica americana non è “in voga” niente del genere. La politica non è fashion. Prove? Prendete qualsiasi quotidiano statunitense online e digitate “ladylike” nel motore di ricerca interna: le notizie relative alla politica contenenti questo termine sono una su cinquanta, hanno la frequenza di un’apparizione all’anno o meno, e si riferiscono esclusivamente a deputate e senatrici accusate da colleghi di sesso maschile di non essere abbastanza “signore” (“ladylike”, appunto, come ho già spiegato nel pezzo dal titolo omonimo). Il New York Times deve risalire al 15 novembre 1909 per riempire la colonna dei primi dieci pezzi contenenti la parola e si tratta di un articolo di condanna delle suffragiste – definite “ladylike hooligans” – teppiste con l’apparenza di donne/signore.
Quindi, in voga dove signora Moretti? In un circolo di espatriate americane che si riunisce dall’estetista ogni settimana? O solo nella sua mente, come escamotage un po’ patetico? “Ladylike” NON è “l’atteggiamento femminile”, perché se lo fosse significherebbe che la femminilità è un cumulo di accessori/atteggiamenti e che io e milioni di altre come me siamo “sbagliate”. Spiacente, io sono femmina e femminile quanto lei, e in più sono felicemente femminista.
Ma chiariamoci. Non c’è nulla di antifemminista nell’andare dall’estetista o dalla parrucchiera, e però non c’è nulla di antifemminile nel non farlo. Non c’è nulla di antifemminista nel comprarsi un vestito favoloso, o nel saper cucinare, o nel darsi lo smalto alle unghie, e però non c’è nulla di antifemminile nel non farlo. Questo è il primo problema: Moretti identifica ciò che a lei piace e ciò che lei è come “femminilità” e tutte le altre donne a cui non piacciono le stesse cose o che hanno corpi diversi dal suo come “mortificatrici della femminilità”.
Il secondo problema è questo: andare dall’estetista, avere un taglio di capelli e un abbigliamento e degli accessori all’ultima moda e cucinare degli ottimi spaghetti non ci dicono in effetti nulla della sua progettualità politica, e se lo accoppiamo al problema n. 1 (un’arroganza che svilisce chiunque non le assomigli) ci dice invece che di politiche di genere questa donna non sa un piffero. Il mio voto conta un 0,000 eccetera, ma poiché tali politiche sono il mio interesse principale, e il principale motore per uno sviluppo verso una società vivibile per donne e uomini, Moretti quel voto non lo avrà.
Il rispetto? Io rispetto quel che Moretti è, un essere umano titolare di diritti, ma non che lei spacci il suo modello come quello “veramente” femminile, giusto, “da signore” e via delirando. Questo non rispetta me e, come ho detto sopra, milioni di altre come me. E non rispetto nemmeno che si tratti del modello normativo coincidente con la soddisfazione dello sguardo maschile: se qualcuna si sente bene a trarre la sua ragion d’essere da ciò sono sicuramente fatti suoi, ma quando TUTTE siamo costrette a conformarci ad esso solo per avere una possibilità ad un colloquio di lavoro o per non essere abusate da una sterminata marea di idioti, no, non sono tenuta a “rispettarlo”. Il rispetto è per le persone, non per le azioni ne’ per i costrutti sociali. Perfettina Ladylike è un costrutto, io invece sono un essere umano che Moretti giudica “mortificante” della “femminilità”. E sapete, l’uso che si fa della “femminilità” e della “mascolinità” socialmente costruite è troppo spesso dannoso e persino criminale. Volete un esempio?
Anni fa, ebbi modo di leggere i resoconti di uno psicologo junghiano, italiano, che vendeva “cure psicologiche” per il cancro – e per quanto ne so potrebbe venderle ancora. Naturalmente ero scettica ancor prima di leggere: le cause dei vari tipi di tumore sono molteplici e sovente multiple, ridurle al problema psicologico irrisolto mi sembrava e continua a sembrarmi una ciarlataneria. Tuttavia – beneficio del dubbio – pensai che qualcosa di sensato potessi esserci: ad esempio una condizione psicosomatica legata alla malattia che regredisce con la terapia psicologica. Ma l’esimio terapeuta cominciò a svelarsi come un cialtrone sin dal metodo: non esisteva nessun parametro di controllo. Nessuna delle sue pazienti (chissà perché tutte donne) miracolosamente guarite dal cancro era citata con nome e cognome – ma nessuna aveva bisogno di essere tutelata dall’anonimato perché minore. Perché nessuna di queste pazienti era rintracciabile? Perché si trattava di fiction: personaggi, non persone.
E il meglio deve ancora venire. Il problema principale di queste (fittizie) pazienti, diceva il guaritore, quello che aveva fatto loro sviluppare il cancro, era un percorso incompiuto verso la “femminilità” o addirittura il suo rigetto. E detta “femminilità” era descritta negli stessi termini in cui la descrive Moretti. Cercate di immaginare una donna malata di cancro, disperata, spaventata, che casca nelle mani dell’imbroglione. Che succede se nonostante un investimento in estetista e boutique il cancro non recede? Be’, è colpa sua. Non si sta muovendo verso la femminilità ladylike con sufficiente impegno, che potrà mai farci il buon terapeuta… se non consigliarle altre sedute, e altre ancora, per la modica cifra di ecc.?
Da Oscar la favola su una giovane donna malata perché veste con giacca di pelle nera, non si trucca e guida una motocicletta. Naturalmente queste non sono scelte sue, non sono legittime e non meritano rispetto: il pissi-pissi-cologo sa che si tratta solo di assurda rabbia verso il mondo e di folle desiderio di imitare gli uomini e quant’altro di stereotipi idioti vi venga in mente. Una volta infilata in deliziosi vestitini a fiori e dotata di ombretto e lipstick (e venduta la moto), voilà, il cancro sparisce, consumato dalla luce della “femminilità”, unica e vera – beninteso. Che è soffice, sottomessa, non rumorosa, gradevole, disponibile, scopabile. E cioè, questa “femminilità” è un attrezzo funzionale alla soddisfazione maschile. Disgraziatamente, la maggioranza delle donne – che strano – non risponde naturalmente ai criteri di tale femminilità ma dev’essere ad essa addestrata e instradata o forzata: e punita qualora non riesca a raggiungerne gli standard o, peggio, si rifiuti di farlo. Disgraziatamente noi donne “mortificatrici della femminilità” non siamo narrativa fantastica ma carne e sangue e spirito. Esistiamo. Non intendiamo scomparire. E non permettiamo a nessuno di insultarci dicendoci cosa dovremmo fare per diventare “vere donne”, perché lo siamo già.
Maria G. Di Rienzo