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Posts Tagged ‘ungheria’

Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche entrarono ad Auschwitz. Trovarono alcune migliaia di sopravvissuti in condizioni allucinanti, centinaia di migliaia di abiti ammucchiati e diverse tonnellate di capelli umani.

In poco più di quattro anni e mezzo dalla sua entrata in funzione, Auschwitz uccise un milione e centomila persone: circa un milione erano ebrei, 75.000 erano civili polacchi, 15.000 prigionieri di guerra russi, 25.000 rom e sinti e poi un numero imprecisato di omosessuali e prigionieri politici e “devianti” di ogni tipo. Morirono nelle camere a gas, di fame, di lavoro coatto e di esperimenti medici.

In occasione dell’anniversario, l’organizzazione ebraica Centropa ha intervistato quest’anno 1.200 anziani nell’Europa centrale e dell’est: le tre brevi storie che seguono provengono da questo lavoro, riportato da BBC News.

anuta

Estera Sava: “Questa è mia sorella, Anuta Martinet” – Romania.

“Il sogno di mia sorella era sempre stato diventare una dottoressa. Dopo essersi diplomata alle superiori con il massimo dei voti si trasferì a Iasi, per passare l’esame di ammissione alla Scuola di Medicina. Ma a Iasi erano già presenti i movimenti antisemitici. Le dissero “Tu jidanii (giudea) vattene a casa. Non abbiamo bisogno di medici ebrei!”

Allora decise di studiare all’estero e andò a Padova, in Italia. Nel giugno 1939 diede gli esami e di nuovo li passò con il massimo dei voti! Però disse a nostro padre: “Non intendo tornare. Non c’è una buona qualità di vita là (in Romania). Andrò in Francia.” Avevamo un parente in Francia, perciò lei andò a Montpellier, dove studiò, sposò un uomo cattolico ed era prossima a laurearsi.

Fu tutto inutile. I tedeschi la presero e ci è stato detto che cercò di aiutare altri in vari campi di concentramento, persino ad Auschwitz. Poi la uccisero.”

Bala e Giga

Julian Gringras: “Questa è una fotografia della mia sorella minore Bala e di mia nipote Giga. E’ stata scattata nel 1938 a Kielce” – Polonia.

“Bala aveva quasi 18 anni all’epoca. Le volevo molto bene, era una ragazza assai vivace e intelligente, attiva, molto carina secondo me. Aveva begli occhi e le fossette.

Le ragazze lavoravano nello studio fotografico; avevano passato del tempo a imparare come correggere le fotografie. Entrambe furono mandate al campo di Birkenau (parte del complesso di Auschwitz). Furono liquidate dai tedeschi molto velocemente.”

Rozsi

Erno Schwarz: “Questa è la mia figlioletta, Rozsi Schwarz, a Pesterzsebet nel 1939” – Ungheria.

“Ho incontrato mia moglie quando lavoravo alla fabbrica Rebenwurzl. Il matrimonio si tenne nella sinagoga Kazinczy. Fu affollato, entrambi i piani erano pieni di spettatori e molti restarono all’ingresso perché non riuscirono ad entrare.

Mia moglie fu portata via con i nostri due bambini. Era l’ultimo trasporto, nessuno è tornato da esso.

Non sono in grado di ricordare esattamente quando ho saputo che la mia famiglia era stata mandata ad Auschwitz. All’epoca ero ai lavori forzati.”

Maria G. Di Rienzo

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La volpe

(“The Fox”, di Abbey Bi Yao Lin, trad. Maria G. Di Rienzo. Abbey ha oggi 11 anni, è nata e vive in Irlanda e a 10, l’anno scorso, è stata una delle vincitrici del concorso di poesia “Sino a che l’amore vincerà la paura” organizzato dall’ong umanitaria Trocaire e dall’associazione nazionale irlandese per la poesia Poetry Ireland/Éigse Éireann. L’immagine è di Lüleiya, una giovane illustratrice freelance ungherese.)

fox spirit - luleiya

LA VOLPE

La paura assomiglia

a quattro zampe furtive

un piccolo naso che fiuta

occhi neri che sono offuscati

dalla fame.

E’ in agguato sulla strada

dando caccia al cibo, dando caccia alla speranza.

L’amore cresce

nel cuore della Terra.

Quando la volpe coglie

il profumo dell’amore, cambia

le cresce pelo nuovo,

soffice come una nuvola

si sparge sulla volpe.

L’amore dà alla volpe

cibo e sazietà.

Quando l’amore la tocca,

la volpe si riempie di gentilezza.

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(“Polish MEP insists ‘women must earn less’ in sexist tirade” – Euro News, 2 marzo 2017, autore/autrice non citato/a. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

Il politico conservatore polacco Janusz Korwin-Mikke ha inorridito il Parlamento europeo durante un dibattito sul divario salariale di genere in Europa, quando ha insistito nel dire che “le donne devono guadagnare di meno perché sono più deboli, sono più piccole, sono meno intelligenti. Devono guadagnare meno. Ecco tutto.”

Korwin-Mikke ha fornito una “prova” molto strana a sostegno delle sue affermazioni chiedendo: “Sapete quante donne ci sono nei primi cento scacchisti?” E si è risposto da solo con “Ve lo dico io: nessuna.” La grande maestra scacchista ungherese Judit Polgár, ora in pensione, potrebbe aver qualcosa da dire su tale frase. (Ndt. – Si tratta della donna che nel 1993 sconfisse l’ex campione mondiale Boris Spassky.)

I commenti del 74enne Korwin-Mikke hanno fatto restare i presenti senza fiato dall’incredulità, prima che la deputata spagnola Iratxe Garcia-Perez (Ndt. – in immagine dopo questo paragrafo) prendesse parola per fustigarlo: “Secondo la sua opinione, io non avrei il diritto di essere qui come membro del Parlamento. – ha detto – E so che le fa male e la disturba che oggi le donne possano sedere alla Camera per rappresentare i cittadini avendone lo stesso diritto che ha lei. Io sono qui per difendere tutte le donne europee da gente come lei.”

iratxe-garcia-perez

Sebbene l’Unione Europea sia leader globale per l’eguaglianza di genere, la Commissione Europea dice che, al tasso attuale di progresso, ci vorranno altri 70 anni prima che le donne guadagnino quanto gli uomini. Le donne nell’UE sono anche sottorappresentate in politica ed è poco probabile che raggiungano posizioni in cui detengono potere economico.

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palma-fazakas

(brano tratto da: “Stop bawling” – Obstetric violence in Hungary”, un’intervista a Pálma Fazakas – in immagine – coordinatrice dell’associazione ungherese EMMA, di Judith Langowski per European Young Feminists, 2016. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. EMMA fornisce informazioni su gravidanza e parto, partecipa a ricerche accademiche, offre seminari e gestisce una linea telefonica per le donne e i loro familiari che incontrano violenze e violazioni durante la loro permanenza in ospedale. Inoltre coopera con organizzazioni e gruppi a livello nazionale e internazionale mirando a ottenere per le donne, ovunque, un sistema ostetrico accogliente e rispettoso. Il 20 marzo scorso l’associazione ha organizzato a Budapest una manifestazione di piazza sui diritti riproduttivi, appoggiata anche da eminenti professionisti in campo medico e ginecologico: la manifestazione ha generato un vero e proprio movimento chiamato “La Rivoluzione delle Rose” e mira a suscitare consapevolezza sul fatto che, come Palma dice, “la violenza ostetrica è una forma di violenza contro le donne e primariamente una forma strutturale di violenza. Deve essere trattata per tale, di modo da divenire parte della discussione generale sulla violenza contro le donne.”)

Poche persone hanno sentito parlare di diritti “ostetrici” o “relativi al parto”. Cosa significa e perché essi sono in pericolo secondo te? Una donna in Ungheria può oggi decidere liberamente se, quando, come vuole partorire?

Pálma Fazakas (PF): I diritti riproduttivi non comprendono solo il se e quando una donna vuole avere un figlio ma anche in che condizioni dà alla luce quel figlio: dove vuole farlo e chi ella vuole accanto. I diritti universali delle partorienti hanno profonde radici nei diritti umani e includono il diritto umano alla salute, quello all’autodeterminazione e quello ad avere una vita privata. Ogni donna che partorisce ha il diritto alla salute fisica, emotiva e sociale durante il processo della nascita.

Ha il diritto di scegliere liberamente le condizioni in cui avviene la nascita e gli interventi praticati sul suo corpo (dopo aver avuto informazioni esaurienti su di esse), ha il diritto alla protezione dei suoi dati personali e, infine, a essere trattata sempre con dignità e rispetto, senza discriminazioni.

Sfortunatamente, la donna partoriente spesso deve affrontare molti ostacoli per arrivare a prendere decisioni libere e informate. Poiché non esistono informazioni o statistiche su come gli ospedali trattano le partorienti in Ungheria, le donne si devono basare sul passa-parola fra di loro per sapere come va in un determinato ospedale.

Le discriminazioni avvengono per la maggior parte durante il processo della nascita: tramite suggerimenti negativi (“non funzionerà”, “hai le anche troppo strette”), umiliazioni e commenti irrispettosi (“smetti di ululare”, “mica strillavi quando lo hai concepito”, “non è che faccia così male, via”, “comportati decentemente”), o tramite il non rispetto della privacy della donna (il lasciare la porta aperta durante il parto, l’entrare e l’uscire senza permesso).

In questa situazione, è molto importante per me sottolineare che il sistema legale non può buttare la responsabilità sulla donna, ma che essa appartiene al suo ambiente: noi, il suo ambiente, dobbiamo garantire alla donna la possibilità di esercitare i suoi diritti. Non dovrebbe essere costretta a lottare per farlo.

In che modo cooperate con gli ospedali? Là, il problema è che spesso medici e infermieri non hanno abbastanza tempo per offrire un trattamento dignitoso alle donne incinte. Come può essere cambiata questa situazione?

PF: Le priorità e le prospettive delle donne, dei professionisti e dell’amministrazione politica che organizza la sanità non coincidono. Quel che noi vogliamo è che professionisti e amministratori ascoltino e prendano nota di ciò che le donne ritengono importante. E’ sovente una questione di tempo e prospettiva l’includere i desideri delle donne che partoriscono. E queste due cose sono le più difficili da ottenere quando hai già consumato tutte le risorse. Ma abbiamo bisogno sia di tempo sia di inclusione di prospettive diverse per assicurare dignità durante il processo della nascita.

La salute va oltre l’avere una madre e un neonato vivi. Con ogni nascita una nuova vita, una madre, una nuova famiglia nascono, o la famiglia già esistente cresce, in senso fisico, emotivo e sociale. La nostra associazione crede che l’avere buona cura cominci dalla donna, la madre. Ogni cosa che aiuta la madre serve anche al neonato e alla famiglia e, infine, alla società. La madre e il bambino sono in questo senso un’entità non separabile e i loro rispettivi interessi non dovrebbero essere messi gli uni contro gli altri, ne’ durante il parto ne’ dopo. E la cosa migliore per la madre è includerla nel modo giusto, così che dia forma al processo essendone parte attiva.

Questa prospettiva è completamente differente dal modo in cui i professionisti della sanità sono stati e sono attualmente addestrati in Ungheria. Allo stesso tempo, notiamo che molti professionisti sentono come ci sia bisogno di un cambiamento. E vedono, anche, che questo cambiamento è di beneficio alla loro professione, che può portare loro maggiori soddisfazioni.

Facciamo esperienza di alcune istituzioni dove il dialogo e lo scambiarsi esperienze è possibile. Parlare apertamente, direttamente, costruttivamente: solo questo può farci muovere in avanti.

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(immagine della manifestazione del 20 marzo 2016 a Budapest)

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In terra straniera

(“Il principio della fine”, di Ágnes Rapai, trad. Maria G. Di Rienzo. Nata nel 1952, Ágnes è una poeta, scrittrice e traduttrice ungherese.)

agnes

IL PRINCIPIO DELLA FINE

Arrivi in una città straniera,

ahimé.

Vai in giro su strade straniere,

ahimé.

Giungi in un quartiere straniero,

ahimé.

Ti allunghi su un letto straniero,

ahimé.

Ti lavi i denti in un bagno straniero,

ahimé.

Ti senti a disagio con il rubinetto straniero,

ahimé.

Sei sconvolta dal sapone straniero,

ahimé.

Disfi i bagagli in una stanza straniera,

ahimé.

Accendi una televisione straniera,

ahimé.

Ti distendi sul letto straniero,

ahimé.

E vorresti dormire, ma non riesci a dormire,

ahimé.

young migrant

(Una giovane migrante Rohingya guarda dalla finestra di un rifugio temporaneo in Indonesia.)

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“Può accadere a chiunque. Tutto quel che devi fare è rispondere ad uno stupido annuncio pubblicitario. O seguire un tizio che dice di amarti. Ti portano in un’altra città e fanno in modo che tu non possa tornare indietro…

Emotivamente per me è difficile parlare delle mie esperienze di schiavitù sessuale in pubblico ma per la gente, sino a che non ne sente parlare direttamente da una vittima, non è reale. Mi ci sono voluti 9 anni, dopo la mia fuga, per trovare una ragione per alzarmi al mattino e ancora non sono del tutto libera dalla paura che i miei tre rapitori mi riprendano.” Timea Eva Nagy, autrice di “Memoirs of a Sex Slave Survivor”.

timea nagy

Nel 1998, Timea ha poco più di vent’anni – è nata a Budapest, Ungheria, nel 1977 – ha già lavorato per una stazione televisiva locale e ha fondato una piccola società di produttori indipendenti che creano i propri show; i suoi sono basati sulla musica pop / rock, consistono di video, interviste, documentari e hanno ricevuto apprezzamento da artisti e pubblico. Tuttavia, quello è un momento di “stanca” e Timea pensa di poter guadagnare qualcosa lavorando all’estero per qualche mese. Risponde così ad un annuncio pubblicitario e in seguito incontra una donna che le spiega i dettagli: potrà avere un impiego in Canada come domestica o babysitter o badante, nessun problema.

Il 18 aprile, Timea arriva al Terminale 3 dell’Aeroporto Internazionale Pearson. I suoi “datori di lavoro” sono lì ad aspettarla. Le sequestrano i documenti, la malmenano e minacciano, e la informano che il suo lavoro è fare spogliarelli e prostituirsi. Poi uno di essi la stupra, così si abitua.

Quella sarà la sua vita a Toronto e dintorni nei tre mesi successivi. Timea è sempre strettamente controllata e quando non “lavora” è tenuta in cantina, in orribili condizioni di degrado. “Non riuscivo a mangiare, non riuscivo a dormire…” Approffitando di un disguido che allenta la sorveglianza, Timea infine fugge. Nel 1999, i suoi rapitori in Canada e gli organizzatori del rapimento in Ungheria finiscono dietro le sbarre. Timea è però terrorizzata all’idea di ritornare nel proprio paese, perché teme che i membri dell’organizzazione criminale ancora a piede libero possano vendicarsi. Ottiene un prolungamento del soggiorno, ma avrà lo status da residente solo nel 2005 dopo altre pesanti vicissitudini, fra cui un processo durato 6 anni che termina con l’incredibile assoluzione dei suoi rapitori e il suicidio del suo compagno solo una settimana più tardi.

Dal 1999, Timea collabora con la polizia canadese per il contrasto al traffico di esseri umani e dieci anni dopo fonda una vera e propria organizzazione partner delle forze dell’ordine, “Walk with me” (“Cammina con me”), la cui missione è “restaurare la dignità, la libertà ed il benessere delle vittime del traffico di esseri umani.” Solo negli ultimi due anni, l’associazione ha collaborato a 150 casi di indagine e assistito 280 persone; inoltre, attesta che molte donne continuano ad essere trafficate in Canada con lo stesso sistema che fu usato per Timea Nagy: “Molti nei paesi occidentali o nel nordamerica pensano che certe cose accadano solo in Thailanda o in Cambogia, ma vorrei dire a costoro: nei vostri paesi ci sono vittime internazionali e vittime domestiche. Ci sono ragazze vostre connazionali che sono trafficate in questo stesso momento.” Maria G. Di Rienzo

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Dall’isolamento in ghetti all’impossibilità di inserirsi in campo lavorativo e scolastico, sino alla raddoppiata mortalità infantile ed all’aspettativa di vita minore di 10 anni rispetto al resto della popolazione, dovute alla diseguaglianza nella cura della salute, i circa 12 milioni di persone Rom si configurano come la più grande e la più discriminata minoranza in Europa. Le donne sperimentano alti livelli di violenza e per le comunità più tradizionali il solo lavoro possibile per una donna è il sostegno della famiglia: ma nonostante le statistiche, le donne Rom si sono rivelate potenti ed instancabili agenti del cambiamento, basti pensare alle attiviste Rom che hanno promosso il processo davanti al Tribunale europeo per i diritti umani che è terminato con la condanna delle autorità cecoslovacche per le sterilizzazioni forzate. A volte tutto comincia come nella storia di Katalin Bársony.

Katalin

Quando la nonna di Katalin disse che avrebbe mandato la propria figlia al liceo, a Budapest, suo marito rispose che la ragazza sarebbe diventata “una puttana fuoriuscita”. La nonna non lo ascoltò, sfidò le tradizioni e come risultato la madre di Katalin divenne una nota attivista per i diritti umani dei Rom. Quando venne per Katalin il turno di andare a scuola, il suo diritto all’istruzione era garantito e nessuno sollevò obiezioni. Sebbene solo un giovane Rom su dieci completi la propria istruzione superiore in Ungheria, lei andò all’Università, rovesciando i costumi patriarcali e i pregiudizi anti-Rom che impediscono a molte ragazze persino di attraversare le porte di una scuola.

All’età di 23 anni, Katalin diresse la prima serie di documentari che fosse mai stata girata sulle comunità Rom nel mondo ( http://www.mundiromani.com/ ), una serie trasmessa da diverse stazioni televisive ungheresi e che ha raccolto premi su premi. Dopo che un episodio svelò l’avvelenamento da piombo in un campo per rifugiati Rom, a causa del quale vi erano stati già 28 morti, il campo fu chiuso e 3.000 persone furono ricollocate in spazi sicuri e non segregati. “Le cose cambiano, e noi siamo parte del cambiamento.”, dice Katalin, oggi direttrice esecutiva della Fondazione Romedia ( http://www.romediafoundation.org/ ), dove usa lo strumento dei film per mutare la percezione che la gente ha delle comunità Rom. Non è un lavoro facile, perché l’odio e il sospetto per gli “zingari” hanno fatto parte del tessuto culturale europeo per centinaia di anni. Poiché il lavoro è così vasto e richiede l’interessamento di generazioni diverse, Katalin e le sue colleghe addestrano le ragazze Rom ad usare i media, di modo che possano diventare portavoci di una visione diversa per le loro comunità. Maria G. Di Rienzo

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