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(tratto da: “The stranded babies of Kyiv and the women who give birth for money”, un lungo e dettagliato servizio di Oksana Grytsenko per The Guardian, 15 giugno 2020, trad. Maria G. Di Rienzo. Ndt: Kyiv è la capitale dell’Ucraina che siamo soliti chiamare Kiev, con la sua pronuncia russa.)

hotel venice

(Neonati partoriti da madri surrogate ucraine all’Hotel Venice a Kyiv. Particolare di una foto di Sergei Supinsky/AFP.)

Alcuni stanno piangendo nelle loro culle; altri sono cullati o nutriti con il biberon dalle bambinaie. Questi neonati non sono nella nursery di un reparto maternità: stanno in fila fianco a fianco in due grandi sale da ricevimento di un albergo dall’improbabile nome “Hotel Venezia” situato alla periferia di Kyiv e protetto da mura esterne e filo spinato.

Sono bambini di coppie straniere nati da madri surrogate ucraine nel Centro per la riproduzione umana della BioTexCom che ha base a Kyiv ed è la più grande clinica di questo tipo al mondo. Sono arenati nell’albergo perché i loro genitori biologici non sono stati in grado di viaggiare fuori o dentro l’Ucraina da quando, in marzo, i confini sono stati chiusi a causa della pandemia Covid-19. (…)

La BioTexCom ha rilasciato materiale video dall’hotel a metà maggio per sottolineare il doloroso dilemma dei genitori e per fare pressione affinché la chiusura dei confini sia mitigata. La situazione critica dei neonati ha fatto scalpore in tutto il mondo ma, a distanza di un mese, circa 50 bambini restano nell’albergo e la saga sta gettando una dura luce sull’etica e sulle dimensioni della crescente industria commerciale delle gravidanze in Ucraina.

Mykola Kuleba, il difensore civico dei bambini per l’Ucraina, dice ora che riformare il sistema da lui descritto come una violazione dei diritti dei minori non è stato sufficiente e che i servizi di maternità surrogata per le coppie straniere in Ucraina dovrebbero essere banditi.

Tuttavia, in un’economia impoverita, dove lo stipendio medio è di trecento sterline al mese e la guerra con la Russia e i suoi sostenitori continua, molte donne indigenti – in special modo nelle piccole città e nelle zone rurali – si stanno ancora mettendo in fila per restare incinte per denaro, anche se stanno pagando, come gli attivisti credono, un alto prezzo psicologico e in termini di salute.

A Vinnytsia, una città a sudovest di Kyiv, Liudmyla sta ancora aspettando il saldo della sua parcella per aver partorito una bimba a febbraio per conto di una coppia tedesca. Manda regolarmente messaggi all’agenzia (non la BioTexCom) che, sostiene, le deve 6.000 euro: “Continuano a rispondermi che non possono mandarmi l’intera somma a causa del lockdown.”

Sebbene Liudmyla, 39enne, abbia ricevuto il trasferimento di embrione a Kyiv e abbia passato la maggior parte della sua gravidanza a Vinnytsia, l’agenzia le ha chiesto di partorire in Polonia, di modo che la neonata fosse registrata là. Il personale ospedaliero non sapeva che Liudmyla era una madre surrogata, perché la maternità surrogata è bandita in Polonia, come nella maggioranza degli stati europei.

“Non volevo darla via, piangevo.”, ricorda Liudmyla. Dice che dopo essersi presa cura di lei per due giorni nel reparto maternità, lasciarla andare è stato uno strazio. Commessa e madre single, Liudmyla ha faticato per anni per trovare una casa per se stessa e i suoi tre figli che fosse migliore della singola stanza in cui vivevano in un ostello. Perciò nel 2017 andò a una clinica per la maternità surrogata e con il denaro ricevuto fu in grado di accendere un mutuo per un appartamento. Anche se finì in terapia intensiva a causa delle complicazioni relative alla gravidanza, Liudmyla decise di avere un secondo bambino surrogato per poter pagare la maggior parte del mutuo.

Non esistono statistiche ufficiali, ma si stima che diverse migliaia di bambini nascano ogni anno in Ucraina da madri surrogate. L’80% di questi bambini sono per coppie straniere, le quali scelgono l’Ucraina perché il procedimento è legale e a buon mercato.

Il prezzo di un pacchetto per la maternità surrogata in Ucraina parte da 25.000 sterline, con la madre surrogata che ne riceve minimo 10.000. Ai genitori promessi è generalmente richiesto di essere coppie eterosessuali sposate e di documentare la propria diagnosi di sterilità. Le cliniche e le agenzie mettono i loro annunci sui giornali, sui trasporti pubblici e sui social media.

Tetiana Shulzhynska, 38enne, scrive a questi ultimi tentando di persuadere le donne a stare distanti dalla maternità surrogata, poiché pensa che alcune di loro finiranno per pagarla con la propria salute o persino con le loro vite. “Nei contratti proteggono solo i bambini, non si curano di noi.”, dice seduta sul letto nella sua piccola casa di legno a Chernihiv, nel nord dell’Ucraina.

tetiana

(Tetiana Shulzhynska sfoglia i suoi referti medici nella sua casa di Chernihiv, nell’Ucraina del nord. Foto di Anastasia Vlasova.)

Shulzhynska, una madre di due figli che lavorava come autista di filobus, andò a una clinica per la maternità surrogata nel 2013, perché aveva disperato bisogno di ripagare un prestito bancario. Era così in bolletta che la clinica le mandò i soldi per pagarsi il biglietto fino a Kyiv.

Si accordò per restare incinta a beneficio di una coppia italiana e dopo due mesi si trovò ad avere quattro embrioni vivi in grembo. La famiglia biologica decise di tenerne solo uno e il resto fu rimosso chirurgicamente. Nel maggio 2014, Shulzhynska partorì una bimba che diede ai genitori. Ricevette un compenso di 9.000 euro.

Sette mesi più tardi andò all’ospedale con terribili dolori di stomaco. I medici le diagnosticarono il cancro cervicale. Le ci è voluto quasi un anno per raccogliere i soldi necessari all’intervento chirurgico. Shulzhynska sospetta che il cancro sia stato causato dalla sua maternità surrogata, anche se non ha prove. Di recente ha ordinato le stampelle perché i suoi medici hanno in programma di amputarle la gamba sinistra, ora affetta dal cancro che si propaga. Nel 2015, Shulzhynska ha denunciato la BioTexCom per i danni causati alla sua salute, il che ha dato avvio a indagini penali ancora in corso.

Yuriy Kovalchuk, un ex pubblico ministero il cui ufficio ha trattato una serie di indagini penali sulla

BioTexCom nel 2018 nel 2019, dice che almeno tre donne si presentarono alla polizia per aver subito la rimozione dell’utero subito dopo aver condotto gravidanze surrogate organizzate dalla compagnia commerciale. Racconta che altre indagini riguardavano accuse di frode e persino, nel 2016, di traffico di esseri umani dopo che una coppia italiana aveva scoperto nel 2011 che i bambini che si erano portati a casa non avevano con loro relazione genetica. Kovalchuk è stato rimosso dal suo incarico l’anno scorso e crede che ciò abbia avuto il risultato di arrestare le indagini sulla BioTexCom. In maggio ha scritto all’ufficio del difensore civico dettagliando le sue preoccupazioni sulla clinica.

All’ “Hotel Venezia” Albert Tochilovsky, il proprietario della BioTexCom, non nega che ci siano stati scambi negli embrioni durante le procedure attuate nel 2011 che hanno condotto all’indagine per traffico di esseri umani. Dà la colpa dell’errore alla mancanza di esperienza, giacché la clinica allora aveva solo un anno. “Non penso che solo noi si abbia commesso errori in questo campo. Se qualcuno cominciasse a controllare i DNA ci sarebbero un bel po’ di scandali.”

Tochilovsky sostiene che in almeno tre casi i genitori hanno rifiutato i bambini surrogati perché erano nati con problemi di salute. Il caso più noto è quello di Bridget, la figlia di una coppia americana che è nata nel 2016 e ora vive in un orfanotrofio a Zaporizhia, nell’Ucraina orientale. (…)

Le madri surrogate si stanno organizzando sui social media, dove condividono consigli e avvisi sulle agenzie. Svitlana Sokolova, ex madre surrogata e ora attivista dell’ong “Forza delle Madri”, che aiuta le madri surrogate, dice che ha cominciato a ricevere più lamentele su supposti maltrattamenti durante la quarantena per il Covid. Un gruppo di donne ha raccontato che il loro contratto le obbliga all’impianto di embrioni per un anno sino a che restano incinte. “Tramite questo contratto le donne diventano una sorta di proprietà privata.”, dice Sokolova.

Maryna Lehenka, avvocata de “La Strada – Ucraina”, dice che l’organizzazione di beneficenza riceve circa 100 chiamate l’anno da madri surrogate che lamentano lo stress di cui fanno esperienza dopo aver consegnato i bambini, o i problemi causati dagli ormoni che assumono per aumentare le probabilità di restare incinte. Lehenka menziona il caso di una donna che entrò in clandestinità in un villaggio, perché non voleva dar via il neonato surrogato.

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(due poesie di Alejandra Pizarnik (1936-1972) dalla raccolta “Árbol de Diana”, trad. Maria G. Di Rienzo. Alejandra faceva parte di una famiglia ebrea ucraina in fuga dal nazismo e nacque in Argentina. A partire dall’adolescenza cominciò ad averi problemi con la propria immagine – si sentiva orribilmente “brutta” – e divenne assuefatta alle amfetamine nel tentativo di rendere il proprio corpo rispondente ai canoni di “bellezza” femminile. E’ morta suicida. Nonostante ciò, i suoi lavori riflettono costantemente lo spirito sfrontato e indomabile che aveva mostrato sin da bambina. Durante la dittatura in Argentina la lettura delle sue poesie era proibita. Un documentario sulla vita di Alejandra, del 2013, è visibile in lingua spagnola e sottotitoli in inglese qui: https://vimeo.com/62036418 )

ed mell - dust rose

(23, senza titolo)

Uno sguardo dal tombino

può diventare una visione del mondo

La ribellione consiste nell’osservare una rosa

sino a che i tuoi occhi si riducono in polvere

(Orologio)

Signora piccolissima

inquilina nel cuore di un uccello

esce all’alba per pronunciare una sola sillaba

NO

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calciatrici

Da quando ha accettato di partecipare come partner ai progetti dell’UNFPA (Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione), il Football Club Shakhtar ha messo in moto in Ucraina un circolo virtuoso che promuove l’eguaglianza di genere, la paternità responsabile, il superamento degli stereotipi di genere. Tramite la campagna “Felicità a quattro mani” i giocatori hanno raggiunto l’anno scorso un milione e mezzo di persone con messaggi riguardanti l’importanza di condividere responsabilità e lavoro di cura fra uomini e donne.

Nel frattempo, avevano dato vita a un’altra iniziativa, chiamata “Vieni, giochiamo!”, tesa ad aprire il mondo del calcio anche alle bambine interessate a questo sport. In Ucraina (ma non solo, lo sappiamo) a una ragazzina che dica “Voglio giocare a pallone” si risponde molto spesso che il calcio è roba da maschi e che è meglio per lei fare danza o ginnastica ritmica, ma adesso ci sono allenamenti gratis in 23 città ucraine e 150 bambine fra i 7 e 12 anni che fanno parte di squadre ufficiali.

Per indurre le famiglie ad accettare il progetto, gli organizzatori del Football Club Shakhtar sono andati nelle scuole con manifesti che mostravano bambine sul campo di calcio: “Probabilmente siamo i primi ad aver detto ai genitori: non abbiate timore di iscrivere le vostre ragazze alla scuola di calcio. Se a tua figlia piace questo gioco, perché non dovrebbe giocare?”, dice Oleksandr Ovcharenko, uno dei direttori dei progetti sociali del Club. Lo stratagemma per superare il possibile rigetto dei piccoli giocatori maschi è questo: nei tornei interni, il goal di una bambina vale due punti anziché uno, perciò i ragazzini sono assai interessati ad averle nelle loro squadre.

milena

Una delle star dell’iniziativa è Milena Ivanchenko. Quando il progetto “Vieni, giochiamo!” ebbe inizio, nel 2013, Milena aveva tre anni ed aveva semplicemente seguito il fratellino che voleva partecipare agli allenamenti. Ha osservato a bordo campo e ha deciso che la cosa le piaceva: oggi è in grado di tenere la sfera al piede in palleggio per 67 volte di seguito. E’ riconosciuta come la più promettente giocatrice fra le ragazzine e gli adulti attorno a lei le pronosticano un grande futuro.

Maria G. Di Rienzo

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Sì, io riderò a dispetto delle mie lacrime,

canterò canzoni ad alta voce nel mezzo delle mie sventure:

avrò speranza avendo contro tutte le probabilità.

Io vivrò! Andatevene, tristi pensieri!

(tratto da: “Contra Spem Spero” di Lesya Ukrainka, pseudonimo della poeta e drammaturga Larysa Petrivna Kosach-Kvitka, 1871 – 1913.)

lesya

In Ucraina è possibile vedere l’immagine di Lesya su cartamoneta e francobolli, resa in statue e dipinti e vi sono film e libri che narrano la sua vita. Lo pseudonimo – Lesya l’Ucraina – glielo diede sua madre, femminista e scrittrice, ed era in se stesso un atto radicale giacché identificarsi in tal maniera nella Russia imperiale e usare l’ucraino per poesie e pezzi teatrali bastava per essere condannati per tradimento e spediti in Siberia.

Lesya impara a scrivere a quattro anni. Crea a otto la prima poesia, “Speranza” per sua zia Olena che è stata appena arrestata per attività antizariste. Impara durante l’infanzia il russo, il tedesco, il polacco, il greco, il latino e l’inglese. Studia per diventare pianista professionista ma a dodici anni contrae la tubercolosi delle ossa che le impedisce di esercitarsi per lunghi periodi: ma scrivere può – ed è quello che fa. A diciassette anni, assieme al fratello, traduce in ucraino Shakespeare, Dickens e altri classici e ne dà letture private: altro atto “sovversivo” e proibito. L’anno successivo rischia la vita per contrabbandare a Kiev il suo primo libro di poesie, stampato nell’Impero austro-ungarico.

I genitori di Lesya cercarono in ogni modo di curare la sua malattia, portandola diverse volte in paesi esteri dove la giovane osservò con acutezza le differenti culture e specialmente come le donne erano trattate in esse. Tutto si riversò nei suoi lavori: femminismo, alienazione sociale, liberazione nazionale, solitudine. Nel 1903 tradusse in ucraino il “Manifesto del Partito Comunista”, il che condusse al suo arresto e a un periodo di prigionia. Nel tentativo di preservare la propria lingua proibita, Lesya raccolse per tutta la vita leggende e fiabe e canzoni popolari ucraine.

Sperò contro la speranza, come dice la sua poesia citata all’inizio. Nulla avrebbe potuto costringere alla resa un tale spirito. Maria G. Di Rienzo

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Kate Gerbers è da anni una delle maggiori esperte sul traffico di esseri umani ed è apparsa sui media di mezzo mondo. Grazie alla vasta esperienza sul campo addestra polizia, frontalieri, operatori sanitari, organizzazioni della società civile. E’ la creatrice di una di esse, “Unseen” (“Non visto”, “Invisibile”), e in collaborazione con le forze dell’ordine, le autorità locali della sua città – Bristol in Gran Bretagna – e istituzioni governative ha fondato l’Anti-Slavery Partnership, una coalizione che nelle sue stesse parole ha lo scopo di: “effettuare cambiamenti sistemici e sostenibili, di modo che come nazione noi si sia consapevoli del crimine e della sua vastità e si possa perseguirlo efficacemente, rendendo l’ambiente inglese più ostile per i trafficanti di esseri umani.”

Kate

Se la questione vi è ostica o la trovate nebulosa, Kate può esservi d’aiuto: “Il traffico di esseri umani è la compravendita di persone, di solito al fine della schiavitù sessuale, dello sfruttamento commerciale o del lavoro forzato a favore dei trafficanti o di altri. Lo spettro può includere la fornitura di una “sposa” per un matrimonio forzato e la rimozione chirurgica di organi e tessuti dal corpo.

Donne e bambine sono bersagli privilegiati del traffico a causa delle norme sociali che marginalizzano il loro valore e il loro status. Le femmine ovunque affrontano discriminazione di genere in casa e fuori. Alcune credenze religiose contribuiscono al problema dichiarando “sfortunata” la nascita di una bambina e cementano la convinzione che le femmine non valgono quanto i maschi. Le norme sociali che costruiscono la posizione inferiore delle donne limitano le loro possibilità d’azione e le loro conoscenze, rendendole vieppiù vulnerabili allo sfruttamento e al traffico di esseri umani.

Gli studi sul traffico parlano di circa 30 milioni di persone intrappolate nella “schiavitù moderna”. Di questi, più di 2 milioni sono bambini (in stragrande maggioranza bambine) trafficati a scopo di sfruttamento sessuale. Del milione e 390.000 di schiavi sessuali commerciali, le donne e le ragazze sono il 98%. Il traffico internazionale di persone, nel 2010, aveva un fatturato di 31,6 milioni di dollari.

Io ho lavorato per un periodo in un orfanotrofio in Ucraina. Le ragazze potevano lasciarlo una volta compiuti i 16 anni. La domanda sorse spontanea: che fine facevano, dopo? E la risposta fu uno shock. Davanti a loro c’erano quasi esclusivamente il crimine, la prostituzione o l’essere trafficate. Tornata in Gran Bretagna ho cominciato ad indagare la questione nel mio paese e ho scoperto che neppure la polizia aveva statistiche attendibili e modi di identificare le vittime. Per questo ho fondato “Unseen”, per costruire soluzioni strategiche e sistematiche al problema e per sostenere le vittime del traffico. Solo per quel che riguarda le bambine e i bambini, ne soccorriamo più di 500 l’anno: sono trafficati in Gran Bretagna, come le donne, a scopo di sfruttamento sessuale o lavoro forzato. Donne e bambine/i vengono proprio dall’Ucraina, e da Romania, Albania, Nigeria, Vietnam e dal nostro stesso paese.

La povertà, la limitazione di opportunità, la mancanza di istruzione, condizioni politiche e sociali instabili, sbilanciamenti economici e guerra sono alcune delle istanze chiave che contribuiscono al traffico di essere umani. Localmente abbiamo trovato le vittime del traffico sfruttate nelle aziende agricole, nei bar, nei saloni per massaggi, negli autolavaggi, nei ristoranti classici e in quelli per asporto, nelle case private e a prostituirsi per strada.”

“Unseen” lavora principalmente con i casi di maggior gravità (Sopravvissuti Tier 1), persone che sono profondamente traumatizzate e ad alto rischio. Le cure che forniamo per le donne vittime di traffico comprendono l’alloggio per almeno 45 giorni, l’assistenza medica e psicologica, il servizio di consulenza mentre la donna pianifica i suoi prossimi passi e l’aiuto a sistemarsi come desidera.”

Uno dei nuovi campi in cui sta l’associazione sta lavorando è l’adescamento online di donne e minori ambosessi ai fini del traffico e/o dello sfruttamento sessuale. “I trafficanti e i magnaccia usano sempre di più internet per reclutare minorenni. Un criminale organizzato può ricavare migliaia di dollari in un giorno solo da una ragazza trafficata. Accesso più veloce, clientela più ampia, più incontri possono essere programmati. Uno dei casi noti è quello di Randal G. Jennings, condannato per aver trafficato cinque ragazze minorenni, che usava il social media Craigslist per pubblicizzarle ai clienti e poi le portava in auto agli incontri. Le proteste che sono seguite hanno convinto Craigslist a chiudere la sua sezione di “servizi per gli adulti”. Adesso sotto la lente delle indagini ci sono soprattutto Backpage e MySpace, ma anche Facebook e Twitter sono usati per pubblicizzare, vendere e sfruttare femmine di qualsiasi età.” Maria G. Di Rienzo

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Mettiamo che, nel giro di due giorni (24 e 25 agosto 2014) e nello stesso paese, quattro persone che condividono un tratto identitario fondamentale siano uccise o ferite gravemente da altre quattro persone che condividono un diverso tratto identitario fondamentale: diciamo, indifferentemente alle azioni compiute o subite, che siano identificabili come musulmani/cattolici, “bianchi”/”neri” o persino alti e bassi. Mettiamo anche che questi quattro episodi non siano che l’apice concentrato di una situazione che si ripete ogni pochi giorni. I titoli dei giornali sarebbero pressappoco questi: Mattanza di musulmani, Strage di cristiani, Emergenza omicidi di bianchi, Orribile catena di assassini di neri, Violenza contro persone alte incontrollata, Macello delle persone basse. Politici di tutte le appartenenze si sentirebbero in dovere di intervenire, quelli al governo assicurerebbero immediata attenzione e progetterebbero interventi.

In Italia, nel giro di due giorni (24 e 25 agosto 2014), due donne sono state uccise e due ferite – una è in pericolo di vita, da quattro uomini. L’episodio più clamoroso è quello di Roma, dove il 35enne Federico Leonelli uccide a coltellate la 38enne ucraina Oksana Martseniuk e la decapita con una mannaia, ma nello stesso giorno a Nuoro Sandro Mula, quarentenne, uccide la moglie Sara Coinu, 36 anni, con tre colpi di pistola e poi rivolge l’arma contro di sé. Il giorno successivo a Lamezia Terme un uomo quarantenne accoltella ripetutamente la moglie (che fortunatamente non è in pericolo di vita) e fugge; a Santa Maria Capua Vetere un 56enne riduce in poltiglia la consorte a colpi di mazza da baseball: costei è grave. In questi due ultimi casi i trafiletti non hanno menzionato nomi e cognomi delle persone coinvolte.

La prima cosa interessante è che non è accaduto niente di quel che sarebbe invece accaduto in ambito giornalistico e politico se la situazione fosse come l’ho descritta in apertura. Nessuno ha notato che in Italia le donne muoiono o subiscono tentativi di omicidio in un numero che è troppo allarmante per essere ancora affrontato spezzettando i casi in follia – raptus – gelosia – crisi familiare – si stavano separando – lei lo aveva respinto, e cioè in problematiche “singole” che con il clima culturale e sociale della nazione non avrebbero nulla a che fare. Nessun quotidiano ha prodotto titoli, occhielli o articoli che riflettano la realtà; nessun politico si è sentito in dovere di rilasciare dichiarazioni.

La seconda cosa interessante riguarda il caso romano, troppo denso di dettagli orripilanti per non guadagnare la prima pagina, compreso l’omicidio dell’aggressore da parte della polizia. Questa è una sequenza di titoli/occhielli del Corriere della Sera fra il 24 ed il 25 agosto, i corsivi sono miei:

n. 1 – Decapita la partner con una mannaia. L’assassino ucciso dalla polizia. Orrore e sangue in un appartamento all’Eur. Al loro arrivo gli agenti sono stati aggrediti dall’omicida con la stessa arma: hanno dovuto sparare e lo hanno colpito.

n. 2 – Decapita una donna con una mannaia. L’assassino ucciso dalla polizia. Orrore in una villa (a) Roma. L’omicida, in divisa paramilitare e il volto coperto da una maschera antigas, ha aggredito gli agenti, che hanno dovuto sparare e lo hanno colpito.

n. 3 – L’assassino aveva 35 anni, una relazione sentimentale chiusa da due anni.

n. 4 – Il ritratto del killer, tra depressione e l’uso di tranquillanti

n. 5 – L’ospite triste diventa killer.

E questa è una sequenza de La Repubblica (stessi giorni, i corsivi sono sempre miei):

n. 1 – Decapita la compagna poi si scaglia contro gli agenti che sparano: morto in ospedale . Orrore in una villetta di via Birmania. Un uomo prima uccide con una mannaia la compagna poi attacca i poliziotti. Ricoverato al Sant’Eugenio, è deceduto Roma, decapita donna poi si scaglia contro gli agenti che sparano: morto in ospedale.

n. 2 – Il delitto in una villetta di via Birmania all’Eur. Un uomo, Federico P. di 35 anni, con indosso una maschera e gli anfibi prima uccide con una mannaia la domestica ucraina poi attacca i poliziotti. Ricoverato al Sant’Eugenio, è deceduto.

n. 3 – Nella casa dell’assassino “Era violento” “No, era speciale” “Sconvolto dalla morte della fidanzata”.

Ormai saprete il resto, credo. La vittima lavorava nella villa che era stata “prestata” all’omicida dai proprietari in vacanza. La vittima aveva allertato i suoi datori di lavoro: il loro amico maneggiava un gran quantità di coltelli in un modo che le faceva paura. Gli investigatori ipotizzano che Oksana Martseniuk sia stata assalita sessualmente (le sue grida, il fatto che il cadavere fosse senza maglietta) e che l’assassino abbia “reagito” al suo rifiuto; la decapitazione sarebbe dovuta all’idea di fare a pezzi il cadavere per potersene sbarazzare più facilmente. Da notare che in prima battuta i giornali sono convinti che tra i due debba esserci una relazione: se la morta è “la compagna” il delitto si spiega, è normale, avranno litigato, lei forse voleva lasciarlo, lei lo aveva tradito ecc. Quando il dato è smentito, le giustificazioni per l’assassino prendono tutte le direzioni possibili: era triste e depresso perché una relazione sentimentale durata due anni si era chiusa (affermazione poi sparita da ogni articolo successivo), oppure perché la sua fidanzata, con cui aveva avuto una relazione molto lunga, è morta; faceva uso di psicofarmaci: “informazione” sparata senza verifica alcuna, sulla base delle dichiarazioni di un vicino di casa: Penso facesse uso di tranquillanti e smentita da articoli successivi con l’occhiello “Non prendeva tranquillanti”; inoltre, era una brava persona, anzi una persona stupenda: la sorella lo definisce “un ragazzo d’oro che si prodigava con i nipotini” e per il custode del palazzo in cui abitava era “un ragazzo splendido, una persona speciale”.

Altre testimonianze, sempre di vicini di casa, menzionano “lunghi litigi” con la madre (in condizioni fisiche precarie, assistita da una badante) “che sembravano non finire mai”: “Sentivamo sempre urlare” e dicono che Federico Leonelli avrebbe anche alzato le mani su madre e sorella durante i litigi suddetti. La “maschera antigas” dei primi flash si riduce ad un paio di occhiali da giardiniere e la dinamica dell’uccisione di Leonelli da parte della polizia presenta controversie: forse non ha minacciato gli agenti con il coltellaccio ma ha tentato di entrare nella propria auto per fuggire.

L’ultima cosa interessante è che Oksana Martseniuk esiste nei media solo come cadavere decapitato. Non vi è traccia della curiosità e dei patetici tentativi di “analisi” che invece investono personalità, esperienze e relazioni del suo assassino. Non sappiamo, e a nessuno interessa sapere, chi fosse questa donna da viva. Possiamo ragionevolmente supporre che i suoi colleghi, gli altri domestici che lavoravano nella villa, conoscessero qualcosa di lei ma nessuno ha chiesto loro niente. Possiamo ragionevolmente supporre che avesse storie allegre e storie tristi nel suo passato, che avesse hobby e cose che le piacevano più di altre.

Possiamo ragionevolmente supporre che avesse relazioni, parenti, amici; possiamo ragionevolmente supporre che qualcuno, nel momento in cui io scrivo queste parole, sia disperato, incredulo, sotto shock, ferito irreparabilmente dalla morte di Oksana. Ma non possiamo andare più in là delle ipotesi ragionevoli. Perché Oksana Martseniuk era una donna, e quindi infinitamente meno degna di interesse e compassione e meno umana dell’uomo che l’ha uccisa. Maria G. Di Rienzo

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