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walk a mile

“Walk a Mile in Her Shoes” (“Cammina un miglio nelle scarpe di lei”) è un’iniziativa nata da un’idea di Frank Baird che va avanti ormai da anni: gli uomini indossano scarpe femminili e camminano letteralmente per la distanza suddetta. La marcia è un modo per suscitare consapevolezza e una protesta contro violenza sessuale e domestica, durante la quale si raccolgono fondi per i centri antiviolenza e i rifugi per le donne in pericolo e così via.

Durante il 2014 queste marce si sono tenute in numerose città statunitensi, ma anche a Sofia in Bulgaria; a Dbayeh in Libano; a Lusaka in Zambia; a Launceston in Cornovaglia, a Port of Spain – St. George in Trinidad; a Camrose, Whitecourt, Brooks, Ottawa e Toronto in Canada, a Thokoza in Sudafrica; a Brisbane in Australia; a Ginowan – Okinawa, Giappone…

Spesso gli uomini partecipanti lasciano a memoria dell’iniziativa brevi poesie e riflessioni: ne ho usate alcune per legare insieme le immagini dei loro simili che usando il “mettiti nei suoi panni” protestano contro la violenza di genere in tutto il mondo. Gli scritti sono anonimi – ringrazio chi li ha creati e resi disponibili -, la traduzione è mia. Maria G. Di Rienzo

no a tutte le forme di violenza

Uomini afghani in burka, 2015

Lei non sa com’è sopravvissuta sino ad ora

da dove ha tirato fuori la volontà e la forza.

E tu non sai nulla guardandola,

nulla delle sue fatiche e delle sue difficoltà,

sino a che non fai un passo nel suo mondo,

e cammini nelle sue scarpe.

uomini turchi

Uomini turchi in gonna, 2015

Cammina un miglio nelle sue scarpe

e finirai per provare la sua malinconia.

Guarda il mondo attraverso i suoi occhi.

Come ti senti ad ascoltare tutte le bugie?

uomini kurdi

Uomini curdi in abiti femminili, 2014

Tutto quel che volevamo,

mettendo le sue scarpe,

era mostrarle che a noi importa,

che può alzarsi in piedi e non aver paura

e che non deve fingere di sorridere,

se il sorriso non è quel che ha dentro.

in her shoes 2013

Uomini statunitensi, 2013

Salta dentro le sue scarpe

Nuota nel suo oceano

Fai un passo

Cammina con lei

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Grazie al lavoro di denuncia e sostegno delle attiviste femministe, i tribunali turchi sono stati sommersi di recente da un’ondata di processi relativi alla violenza domestica. Il problema, dicono le attiviste, è che il sistema giudiziario sembra “un club per soli uomini”, i giudici non condannano i violenti per quelle che sono rubricate come “dispute familiari” e le voci delle donne “sono ridotte al silenzio da quello stesso sistema che dovrebbe proteggerle.” Perciò, hanno deciso di fare un passo in più e il 26 giugno scorso Benal Yazgan e le sue colleghe e sostenitrici hanno sottoposto al Ministero degli Interni la petizione affinché Kadin Partisi – Il Partito delle Donne sia riconosciuto legalmente; il suo scopo è “lottare contro la discriminazione di genere e la diseguaglianza nella società, così come contro le discriminazioni basate su religione, lingua, etnia e orientamento sessuale, i colpi di stato militari e civili e gli incitamenti all’odio.”

Cosa vogliono offrire alle donne che hanno sofferto abusi? “Presenza femminile nelle forze dell’ordine e nei tribunali. Nuove leggi che promuovono l’eguaglianza. Nuove politiche che perseguono la giustizia. Offriamo loro l’inizio di un nuovo movimento di liberazione delle donne in Turchia.” Kadin Partisi parteciperà alle elezioni parlamentari del 2015.

Benal con il simbolo

Benal con il simbolo

E sempre nel 2015, in primavera, la Spagna potrebbe vedere la più grande manifestazione femminista della sua storia. Le “prove generali” sono state fatte circa una settimana fa a Barcellona, dove migliaia di donne hanno fermato il traffico, bloccato la metropolitana tenendo aperte le porte dei vagoni e occupato gli uffici di istituzioni politiche ed economiche, fra cui il “Cercle d’Economia”, potente “pensatoio” economico e finanziario degli imprenditori da cui escono illuminazioni del tipo “meglio assumere donne sopra i 45 anni e sotto i 25, così non c’è il problema della gravidanza”.

barcellona

600 gruppi femministi hanno formato, con un anno di discussione e lavoro, “Vaga de Totes” (Tutto sciopera, o anche Sciopero ovunque) e portato nelle strade i problemi per cui chiedono soluzioni, che vanno dalla violenza di genere alle “riforme del lavoro che aumentano le diseguaglianze già subite dalle donne” e ai “tagli al welfare che incrementano le ore dedicate dalle donne alla cura delle persone”. E’ incredibile che un’azione di protesta così partecipata e così ben riuscita, ideata per gran parte da giovani donne, non abbia avuto alcuna copertura dai media internazionali. Mentre marciava lungo la Gran Via di Barcellona, l’attivista femminista Laura Lozano ha spiegato a quelli spagnoli che spesso le donne non possono partecipare agli scioperi dei lavoratori perché stanno “combinando più impieghi diversi sottopagati” e che “i tagli alla sanità e all’istruzione ci colpiscono più di altri, perché sono le donne che si prendono cura delle persone dipendenti, piccole o grandi.” Nel 2015, quindi, le “cuidados” – che significa proprio “quelle che hanno cura” – hanno in programma di mostrare cosa succede quando le donne incrociano davvero le braccia: per cui non solo non andranno al lavoro (qualora lo abbiano, la disoccupazione in Spagna è altissima, soprattutto per le giovani), non faranno la spesa, non cucineranno, non puliranno, non accudiranno.

“Le donne muovono il mondo. – sottolineano a Vaga de Totes – E insieme possono fermarlo.” Maria G. Di Rienzo

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(Testimonianza tratta da: “Women for Refugee Women – DETAINED: women asylum seekers locked up in the UK”, gennaio 2014, trad. Maria G. Di Rienzo. “Alice”, nome di fantasia che protegge l’identità della donna, ha raccontato la sua storia a Sophie Radice.)

Essere lesbica è solo quel che sono, ma quel che sono è considerato illegale in Camerun. Sono stata arrestata dalla polizia e ho sofferto di orripilante violenza sessuale in carcere. Quest’ultima era vista come la giusta punizione per me, essendo lesbica. Per la mia famiglia la mia sessualità è una vergogna, ma mia madre – più incline ad accettarmi di mio padre – non voleva che continuassi a subire violenza. E’ stato assai duro per lei, ma è riuscita a pagare per farmi uscire dal paese.

Sono arrivata a Birmingham con un uomo che mi ha fatto passare la dogana. Era il febbraio 2011 e i tre colloqui che ebbi quando chiesi asilo a Croydon non andarono bene. Non credevano che fossi lesbica, ne’ che fossi stata perseguitata nel mio paese. Pensavano stessi mentendo ed era difficile dar loro prove.

Ho incontrato la mia attuale compagna a Stoke-on-Trent, in un gruppo di sostegno per la comunità del Camerun. Ci siamo innamorate e quando poco dopo ho conosciuto i suoi tre figli, mi sono innamorata anche di loro. Sono diventati una parte così importante della mia vita che non so dove sarei ora senza di loro. La mia ragazza era con me quando il mio caso arrivò in tribunale nel marzo 2013, ma ancora non hanno creduto che io fossi lesbica. Il giudice disse che non pensava io avessi una relazione fissa, e nemmeno che avessi una relazione con i bambini. E’ stato molto doloroso per me. Nel giugno 2013, mi sono presentata come al solito all’ufficio di Stoke-on-Trent: chi chiede asilo deve andare regolarmente a firmare ed è sempre una faccenda stressante. Avevo in programma di partecipare ad una festa estiva al centro camerunese di Nottingham, quel pomeriggio, ma non ci sono mai andata. Non appena mi presentai per la firma, mi mostrarono la lettera in cui mi si rifiutava l’appello per la sentenza di marzo. La lettera era vecchia di un mese, ma ne’ io ne’ il mio avvocato l’avevamo mai vista.

Lo staff disse che a causa del respingimento dovevano arrestarmi e mi mostrarono il biglietto con cui sarei dovuta partire entro 6 giorni. Dissi loro che dovevo chiamare la mia compagna e che avevo bisogno delle mie medicine, perché ho problemi di salute mentale. Mi lasciarono fare una chiamata molto breve, e mi sequestrarono il telefono. Quella notte non ebbi le medicine, e più tardi ho saputo che erano andati a casa mia e l’avevano messa a soqquadro, ma non avevano voluto prendere i medicinali dall’amica che abitava con me. Perché? Cosa pensavano di trovare?

Tre uomini grandi e grossi e una donna mi portarono via. Mi dissero che se resistevo all’arresto mi avrebbero ammanettata e mi portarono in una prigione di Stoke-on-Trent. Non so perché avessero bisogno di tre uomini enormi per portar via una donna, ma per una donna che è già stata stuprata, come me, è spaventoso. Mi dissero di entrare in una cella e io non volevo, continuavo a dire: “Cosa pensate che abbia fatto? Non ho ucciso nessuno. Non sono una criminale che ha bisogno di essere rinchiusa in questo modo.” Quando la porta si chiuse, mi riportò in mente tutto quello che mi era successo nel mio paese, quando ero in prigione. Pensavo che sarei stata violentata presto. Pensavo che potevano fare di me tutto quel che volevano. La paura prese il sopravvento su di me, e cominciai a sbattere la testa sul muro e ad implorarli di lasciarmi andare. Sentivo di non essere abbastanza forte per sopportare tutto un’altra volta. Ero fuori di me.

Sentii le guardie carcerarie dire che non avrei dovuto essere là, perché ero troppo spaventata e secondo loro non era giusto tenermi in una cella. Allora mi portarono in un’altra stanza a passare la notte. Il giorno dopo andammo in furgone sino a Coventry per prendere altre due ragazze detenute per le stesse mie ragioni. Fu un viaggio lungo, io ero terrorizzata e continuavo a piangere. Quando arrivammo a Yarl’s Wood pensai che per il mondo ero scomparsa.

Dimostrazione contro il centro

(Ndt: Il nome completo del luogo, che si trova a Bedford, è “Yarl’s Wood Immigration Removal Centre”, ed è simile ai nostrani Centri di identificazione ed espulsione. E’ stato aperto nel 2001 e dal 2006 è diretto da privati, e cioè dalla Srl. Serco. Ha una capacità di 900 posti ed è il principale centro britannico di questo tipo in cui sono mandate le donne. Numerosi “incidenti” sono accaduti nella struttura nel corso degli anni (violenze e abusi) seguiti da scioperi della fame e rivolte delle detenute, da proteste esterne e da procedimenti giudiziari.)

Non riuscivo a capire perché ero là e dato che c’erano un bel po’ di uomini intorno pensai che chiunque poteva far di me quel che voleva, perché nessuno lo avrebbe saputo e a nessuno sarebbe importato. Mi giudicarono come una potenziale suicida e le guardie (uomini inclusi) se ne stavano sedute a guardarmi giorno e notte. A volte mi raggomitolavo sul pavimento, diventavo una “palla” e mi buttavo addosso le lenzuola, perché non volevo i loro occhi su di me. La mia compagna di stanza era una donna gentilissima. Ha tentato di farmi star meglio, ma per me era durissimo stare là dentro e non riuscivo ne’ a mangiare ne’ a dormire. Ho cominciato a farmi del male per rilasciare il dolore che sentivo dentro. Mi sono ustionata seriamente il braccio con l’acqua bollente e ho visto altre donne fare cose simili – infilzarsi con forchette, o bere intere bottiglie di shampoo, nel tentativo di uccidersi.

Non c’è legge quando sei in detenzione. Capisci che i guardiani applicano la legge secondo i loro umori e i loro pregiudizi. Impongono i loro sentimenti sulle donne che stanno là dentro e non c’è niente che possa fermarli. Yarl’s Wood è un posto senza legge. Un buon esempio di questo si è visto quando i bambini della mia compagna sono venuti a farmi visita. Yarl’s Wood è molto lontano da Nottingham, dove lei vive, ed è stato molto costoso viaggiare con tre bambini. Ero così felice della loro visita, non ero stata così felice da lungo tempo. Mi sono preparata per un po’, risparmiando i 71 penny della diaria (Ndt: i circa 85 centesimi di euro che le persone nella condizione di Alice ricevono giornalmente) e ho comprato per loro caramelle e succhi di frutta dai distributori automatici. Compravo sempre dolcetti per loro, quando li accompagnavo a nuotare, e non vedevo l’ora di mangiarli di nuovo insieme. Quando entrai nella stanza delle visite li avevo con me in un sacchetto di plastica, ma la guardia disse che non potevo darli ai bambini. Io sapevo che era permesso, altre donne lo facevano, e lo implorai e gli dissi cosa significava per me. Ma lui continuò a rifiutare senza darmi nessuna spiegazione. Sembrava godesse veramente nel vedermi soffrire. Non era qualcuno che stava semplicemente facendo il suo lavoro, ma un uomo a cui piaceva essere meschino. Chiesi ad una guardia donna che conoscevo abbastanza bene di aiutarmi e le spiegai quanto importante fosse la cosa per me. Lei andò a discutere a mio beneficio e alla fine mi fu permesso dare i dolci ai bambini.

Un altro esempio è la donna anziana che tornò dall’aeroporto con lividi e tagli sul viso e ci disse che le guardie l’avevano picchiata. Che tipo di paese è quello in cui si pensa vada bene picchiare un’anziana sulla faccia? Una camerunese che ho incontrato a Yarl’s Wood è stata espulsa ed io sono rimasta in contatto con lei. Mi ha raccontato tutto il processo – il modo in cui fu caricata sull’aereo e ammanettata da cinque energumeni e come non le fu permesso di portare con sé nessuna delle sue cose, abiti compresi. La scaricarono in Camerun negli stessi vestiti con cui l’avevano arrestata, e senza un soldo. Tutta la sua roba è in Gran Bretagna, ma lei non ha il danaro per farsela spedire.

Onestamente, preferisco morire piuttosto che tornare a Yarl’s Wood. So che questa gente sta lavorando, però a volte sembrano proprio malvagi, gente che ha smesso di vederci come esseri umani. Ho raccontato la mia storia perché voglio che questo trattamento delle donne finisca. Non voglio che altre donne passino quello che ho passato io. Sto ancora tentando di guarire da quel mi è accaduto, non solo in Camerun, ma a Yarl’s Wood.

Meltem Avcil

La ragazza che vedete nell’immagine è Meltem Avcil, studente di ingegneria meccanica all’Università di Kingston. A 13 anni, nel 2007, passò 91 giorni con la madre a Yarl’s Wood, dove la foto la ritrae. La sua famiglia era fuggita dalla Turchia a causa delle persecuzioni che subiva in quanto curda. Meltem diventò famosa, all’epoca, per la sua protesta tesa a liberare i bambini dai centri di detenzione. Grazie innanzitutto a lei, oggi non ci sono bambini detenuti a Yarl’s Wood. La sua storia è diventata una rinomata piece teatrale grazie all’autrice Natasha Walter: si chiama Motherland, Terra Madre.

http://refugeewomen.co.uk/

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(“Safak Pavey: Turkey’s ‘immoral woman’ and the fight to wear trousers”, di Constanze Letsch per The Guardian, 9.2.2014, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Safak Pavey

Safak Pavey non è una parlamentare convenzionale. Quando visita città in tutta la Turchia, arriva nella scassata automobile di famiglia. Invece che dalle guardie del corpo e dall’autista, si fa accompagnare spesso dalla madre, una delle più famose e coraggiose croniste del paese, Ayse Önal.

Prima di entrare al Parlamento, ha lavorato per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), occupandosi di diritti umani in giro per il mondo. Dopo aver vissuto all’estero per 15 anni, Pavey ha accettato l’offerta di una candidatura alle elezioni del 2011, perché era preoccupata dalla direzione in cui il suo paese stava andando. Libertà di espressione, diritti delle donne e diritti delle minoranze erano tutti in declino. Secondo le statistiche ufficiale, la violenza contro le donne è cresciuta di 14 volte rispetto al 2002.

C’era un grosso divario fra ciò che stava accadendo sulle strade in Turchia e l’immagine del paese ritratta per il mondo esterno.” Pavey, che ha perso il braccio e la gamba sinistra a 19 anni in un incidente ferroviario, è diventata la prima donna disabile ad essere eletta al Parlamento turco. Ora rappresenta la provincia di Istanbul per il principale partito d’opposizione, il Partito repubblicano del popolo. Dopo tre anni da ciò, è più preoccupata che mai. “Non riesco a credere a quel che si sta discutendo nei dibattiti pubblici.”, dice, “Le donne incinte dovrebbero camminare per le strade o no? Bambine e bambini dovrebbero stare nella stessa classe o no? Questi sono i dibattiti in corso attualmente.”

La sua entrata in Parlamento, dove il codice d’abbigliamento per le donne consisteva di giacca e gonna, ha innescato una discussione che è andata avanti per mesi su, come lei stessa dice, “solo il mio nome e la protesi che sostituisce la mia gamba. Io ero assente da un dibattito che non avevo iniziato ne’ voluto.” La storia è finita con il garantire la possibilità di indossare pantaloni da parte delle parlamentari. Citando i recenti piani per restringere l’aborto, il bando sui parti cesarei e le lotte sui fazzoletti da testa, Pavey sottolinea quanto della politica turca abbia a che fare con i corpi delle donne e i comportamenti delle donne, senza in effetti coinvolgere le donne stesse.

safak

Quando un parlamentare del partito al governo (Giustizia e sviluppo) l’ha attaccata dai banchi dell’aula perché “sorride troppo”, Pavey gli ha suggerito di leggere “Il nome della rosa” di Umberto Eco. “La sua lamentela era molto medievale.”, dice, “Ma è proprio un buon indicatore di come il governo guarda alle donne oggi.” Il Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan ha detto una volta, e il detto è diventato famoso, che non crede all’eguaglianza fra uomini e donne. La Turchia di recente è stata scossa da un enorme scandalo relativo alla corruzione che coinvolge alti esponenti di governo; la libertà di espressione, l’attendibilità del governo e persino la separazione fra poteri, sono sempre più minacciate. Pavey crede che il paese dovrebbe ossessionarsi meno sulle questioni concernenti la sessualità: “La priorità è messa sulla castità delle donne. Tu puoi essere un corrotto o un assassino, e ancora andare avanti a testa alta senza problemi, mentre se c’è il minimo sospetto sulla tua castità e il tuo comportamento morale come donna, ti linciano. E se come parlamentare donna metti in discussione tutto questo, linciano pure te.”

Nel 2012, Pavey fece un’interrogazione parlamentare sulla separazione per genere nei dormitori universitari. I giornali pro-governo immediatamente diedero inizio ad una viziosa campagna di calunnie nei suoi confronti, chiamandola una “donna immorale” che voleva “far dormire maschi e femmine nelle stesse stanze”. Cominciò a ricevere insulti e messaggi d’odio; i gruppi religiosi radicali la minacciarono. Melik Birgin, leader di una sezione giovanile del partito di governo, le mandò questo messaggio dal suo account Twitter ufficiale: “Allah ti ha già portato via una gamba, e ancora non ti sei risvegliata dal sonno della blasfemia? Com’è che sei così ostinata?” Pavey scrisse una lettera aperta al Primo Ministro, chiedendo la rimozione di Birgin dal suo incarico. Erdogan accettò.

Safak Pavey è un’istancabile attivista per i diritti delle persone con disabilità in Turchia – secondo le ultime stime il loro numero si aggira sui 12 milioni, su una popolazione totale di 74 milioni – che ancora affrontano enormi ostacoli in ogni aspetto della vita quotidiana. Le famiglie ancora nascondono i propri membri disabili come fonte di vergogna. Non ci sono praticamente agevolazioni per le persone con disabilità e le promesse del governo di fornirle avanzano a passo di lumaca.

(la rimozione di Birgin) ha segnalato che tali parole di odio non sono accettabili. Ma questi esempi dovrebbero aumentare. E’ un inizio, ma ovviamente è molto distante dall’essere abbastanza, considerati i livelli di discriminazione diretti a milioni di persone, ogni giorno, in questo paese.” Pavey aggiunge che molti altri gruppi minoritari, come le minoranze LGBT o quelle religiose e etniche, soffrono simili attacchi a tutti i livelli della società turca. Una nuova legge contro i crimini dell’odio, che nella forma attuale include la protezione della religione, dell’etnia e del genere di una persona, ma ancora esclude l’orientamento sessuale, è stata annunciata da Erdogan come parte del pacchetto di riforme democratiche lo scorso anno, ma non è ancora stata implementata.

Pavey dice che continuerà a lottare per quello che ritiene cruciale: “Molte donne politiche sono intimidite dal comportamento aggressivo degli uomini. Io no. Non perché sia una persona coraggiosa o cose simili, ma perché conosco gli standard internazionali e vedo che vale la pena di lottare per essi.”

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(Intervista a Canan Arin di Bingul Durbas per Open Democracy, 10 dicembre 2013, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Canan Arin, femminista e avvocata turca, aveva criticato il Presidente del suo paese per il fallimento nel proteggere le bambine e le ragazze dai matrimoni forzati. Il 23 giugno 2012 fu svegliata dalla polizia alle 5 del mattino, illegalmente arrestata e accusata di aver disprezzato i valori religiosi e di aver insultato il Presidente. La pena prevede cinque anni di prigione. Sebbene il matrimonio prima dei 17 anni sia illegale, in Turchia, non ci si preoccupa di far osservare la legge: secondo l’Ordine degli avvocati di Istanbul, un matrimonio turco su quattro include una sposa bambina. Nel 2013, sono cominciate le udienze del processo a Canan Arin.)

Canan-Arin

Bingul Durbas (BD): Come avvocata e formatrice sei stata invitata dall’Ordine degli avvocati di Antalya a parlare di violenza contro le donne. Dopo il tuo discorso eri in prigione. Cos’è accaduto?

Canan Arin (CA): Io sono la fondatrice del Centro per l’applicazione dei diritti delle donne in seno all’Ordine degli avvocati di Istanbul, e ho lavorato là come formatrice. Ad Antalya stavano aprendo un Centro identico e gli avvocati avevano bisogno di formazione. Nel contesto del training ho parlato di matrimoni precoci e forzati ed ho usato due esempi per illustrare le mie argomentazioni. Uno era il matrimonio del Profeta con una bimba di sette anni. Il secondo riguardava il capo della Repubblica turca che era fidanzato a sua moglie quando lei aveva 14 anni, e sposato con lei quando ne aveva 15. Questi sono fatti.

Mentre parlavo, un gruppo di giovani uomini si è alzato in piedi ed ha cominciato ad urlare contro di me. Dissero che ero insultante e fuori tema. Io risposi di no e dissi che erano liberi di lasciare la sala, e loro se ne andarono. Il giorno successivo, un altro gruppo di giovanotti (non so se fossero avvocati o meno) tenne una conferenza stampa annunciando che mi denunciavano in tribunale per insulti al Profeta e al Presidente. Questo gruppo di circa dieci persone non era presente alla mia conferenza.

Il giorno del mio arresto, ero in giro con amici e ci fermammo a Gaziantep per visitare i musei. L’indomani avremmo dovuto ripartire ma i poliziotti arrivarono alla mia stanza in albergo mentre dormivo, alle 5.30 del mattino. Ho dovuto aspettare sino alle 11 per dare la mia testimonianza. Ero stata accusata di aver pubblicamente degradato i valori religiosi di una parte della popolazione (Codice penale turco, art. 216/3) e di aver insultato il Presidente della Repubblica (Codice penale turco, art. 299/1).

BD: Ci sono stati aspetti illegali nel tuo caso?

CA: Sì. Secondo il Codice penale turco, se vuoi denunciare qualcuno per offese al Capo dello Stato devi avere il permesso del Ministro della Giustizia. Il pubblico ministero non ottenne il permesso che gli serviva, nonostante le accuse. Inoltre, gli esempi che io ho fatto sono pubblici, rintracciabili anche su Internet. Il pubblico ministero non avrebbe dovuto accettare la denuncia. Invece, la portò avanti. Successivamente, la polizia mi telefonò chiedendomi di andare in centrale. Io dissi loro che per interrogarmi avevano bisogno del permesso del Ministero della Giustizia.

Inoltre, il pubblico ministero ha scritto sul mandato di arresto che il mio indirizzo era sconosciuto. In Turchia, ogni dettaglio dell’indirizzo degli avvocati è registrato e disponibile sul sito dell’Ordine. E’ impossibile non conoscere l’indirizzo di un avvocato. E’ una chiara violazione della legge pretendere che il mandato d’arresto sia stato spiccato perché il mio indirizzo era sconosciuto.

BD: Secondo la legge e i trattati internazionali che la Turchia ha sottoscritto, lo stato dev’essere imparziale nel maneggiare la libertà di parola. Come spieghi l’attitudine del pubblico ministero?

CA: Nell’atto della mia incriminazione, il p.m. ha usato l’abbreviazione “S.A.V.” (Sia pace su di lui) quando ha scritto il nome del Profeta Maometto: in un documento legale. Un pubblico ministero non può includere qualificazioni simili in un documento legale. Questo mostra quant’è imparziale nel gestire il mio caso.

BD: Il Codice civile fissa l’età per il matrimonio, per maschi e femmine, a 17 anni, e secondo il Codice penale i matrimoni religiosi non sono permessi. Tuttavia, l’Istituto di Statistica (TurkStat) testimonia che ci sono più di 181.000 spose bambine in Turchia. Come spieghi la prevalenza di matrimoni precoci e forzati in Turchia?

CA: Qualcuno dice di prendere ad esempio il Profeta e sostiene che una bambina può andare sposa a sei anni e che il matrimonio può essere consumato non appena ha le mestruazioni. Alcuni dicono che c’è una base religiosa per questo. Le bambine sono forzate a sposarsi precocemente perché le donne non sono considerate esseri umani, ma proprietà delle loro famiglie.

Un altro fattore potrebbe derivare dal numero di bambini nelle famiglie povere, in special modo nell’est e nel sudest della Turchia. Queste famiglie non riescono ad aver cura di tutti. Non appena le bambine crescono un po’ le si dà in matrimonio, così diventano responsabilità dei loro mariti e per i loro genitori c’è una bocca in meno da sfamare. Ci sono molti diversi fattori.

BD: La nuova riforma dell’istruzione, conosciuta come “4+4+4” sembra assai problematica. Secondo la nuova legge, non è obbligatorio proseguire l’istruzione dopo i primi quattro anni di scuola. Il “Progetto sposa bambina” di un’organizzazione di donne turche, “La scopa volante”, ha di recente scoperto che praticamente tutti gli studenti assenti da scuola per matrimonio e fidanzamento sono femmine. Secondo TurkStat, la prevalenza della violenza fisica e sessuale contro le donne decresce con l’accrescimento della loro istruzione. E’ probabile che la nuova riforma aumenti la vulnerabilità delle bambine ai matrimoni precoci e alla violenza.

CA: Esattamente. E nessuno denuncia questi crimini nonostante i matrimoni precoci costituiscano abuso sessuale dei bambini, e fare sesso con coloro che non hanno raggiunto l’età adulta è un crimine secondo gli artt. 103 e 104 del Codice penale turco. Ma la legge non è osservata.

BD: Sembra anche esserci un collegamento fra questi tipi di matrimonio e i cosiddetti “delitti d’onore”. Ci sono molti casi in cui le vittime erano state costrette a sposarsi sotto l’età legale, e sono finite uccise per essere fuggite di casa, danneggiando l’ “onore” della famiglia; oppure sono state rimandate dai genitori dai loro mariti non ufficiali dopo aver sofferto estrema violenza domestica. I giudici riconoscono l’illegalità di questi matrimoni non ufficiali, ma li giustificano implicitamente riducendo le sentenze a carico dei perpetratori di violenza con il pretesto della provocazione. Io penso che l’attitudine patriarcale della società e dei giudici, e la non applicazione delle leggi siano grossi problemi in Turchia.

CA: Assolutamente. Il governo non ha la volontà politica di fermare la violenza contro le donne. Come sai, nel caso di N.C. – che aveva 12 anni quando fu stuprata da 32 uomini, inclusi funzionari statali, un insegnante e l’anziano di un villaggio – gli imputati di sesso maschile hanno ricevuto condanne ridotte, mentre le due donne implicate nel caso hanno ricevuto sentenze molto più severe.

BD: Nel recente caso di O.C., tutti i 34 sospettati accusati di aver aggredito e stuprato una ragazza di 14 anni sono stati rilasciati dal tribunale. L’anno scorso, il Ministro della Giustizia ha attestato l’aumento del 1400% di donne assassinate fra il 2002 e il 2008. Il femicidio in Turchia è endemico. Le minacce alla libertà di parola mandano questo messaggio alle attiviste in Turchia: state zitte sulla violenza contro le donne.

CA: Qualsiasi cosa il Primo Ministro dica, i giudici lo accettano come fosse legge. In primo luogo ha detto che non crede nell’eguaglianza di genere. Ora sta tentando di proibire l’aborto. Secondo la legge turca non è proibito, ma adesso la maggioranza dei medici rifiuta di praticarlo. Il Ministro della Sanità ha detto che se una donna resta incinta a causa di uno stupro dovrebbe partorire, e lo Stato si occuperà del bambino. E’ incredibile.

BD: In un altro caso recente a Nevin Yildirim, che ha ucciso il suo stupratore, non si è permesso di interrompere la gravidanza e ha dovuto mettere al mondo il figlio dell’uomo che l’ha violentata. C’è un collegamento anche fra la questione dell’aborto e i “delitti d’onore”. Le mie ricerche mostrano che nei casi in cui le vittime restino incinte fuori dal matrimonio, gli imputati (i familiari delle ragazze) le portano da un ospedale all’altro nel disperato tentativo di farle abortire ed evitare lo stigma sociale. Tentano di evitare di ucciderle, ma se falliscono nel risolvere la situazione allora le ammazzano per ripulire il loro “onore”.

CA: Verissimo. Il Primo Ministro si sta impicciando sempre di più delle vite delle donne: da quanti figli una deve avere a se può avere un aborto o se deve fare un cesareo. Questo è il motivo per cui le cose sono così difficili per le donne giovani, in Turchia. Una donna non ha valore sino a che non è sposata ed è la famiglia a dover essere protetta – non le donne, a qualsiasi costo.

BD: Le attuali pratiche statali e il trattamento illegale che tu hai ricevuto mostrano quanto è patriarcale la società turca. Le donne sono deliberatamente ridotte al silenzio. Cosa bisogna fare per sfidare le attitudini patriarcali e antifemministe nel lottare contro la violenza sulle donne in Turchia?

CA: Le pratiche attuali sono violazioni dei diritti umani delle donne. Naturalmente, il Primo Ministro detesta le femministe ed esprime questo sentimento ad ogni opportunità. A noi non importa quel che dice, non può fermarci. Le organizzazioni di donne stanno lavorando assai intensamente. Ma il Primo Ministro cambia l’ordine del giorno di continuo, e le donne si stancano molto a causa di ciò: le donne si trovano a dover lottare contro l’agenda sessista che lui crea su base giornaliera.

BD: Pensi che sarai in grado di continuare il tuo lavoro senza timore di finire in prigione?

CA: Certo che continuerò il mio lavoro. Nessuno può mettermi a tacere.

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(“Namus, Honour, and the Slaughter of Women and Nature”, di Meltem Arikan, novembre 2013, trad. Maria G. Di Rienzo. Di Meltem Arikan, scrittrice turca, potete anche leggere:

https://lunanuvola.wordpress.com/2013/06/06/dalla-turchia-con-volonta-di-donna/ )

meltem arikan

La parola “Namus” si origina da “Namos” in greco antico. La sillaba della parola “Namos” è “Nam”, e questa parola ha trovato la sua strada per la lingua inglese come “Name” (Nome) e per quella araba come “Nam” – con il significato de “il titolo” appartenente ad una persona.

Tuttavia, la parola “Namus” è stata tradotta letteralmente in lingua inglese ed è usata oggi come “Onore”: e quando c’è un crimine commesso in nome del Namus, è in effetti definito in inglese come delitto d’onore.

La perdita del Namus è identificata con la perdita di ogni valore connesso al nome di un uomo. Durante i tempi antichi una donna, comunemente considerata come proprietà di un uomo, che avesse una storia con un altro uomo e perdesse il suo valore come donna, sarebbe stata vista come l’equivalente della perdita di valore dell’oro che l’uomo teneva nella sua saccoccia. Una donna che perdesse il suo Namus diventava disonorata, e meritava di essere condannata, punita o uccisa. Migliaia di anni fa, la donna determinava il Namus dell’uomo eppure la questione di chi determinava il Namus della donna non è mai stata affrontata.

Sfortunatamente, sin da allora, nulla è davvero cambiato. Ancora, la donna non ha voce sul proprio Namus. In molti paesi del mondo, si usano i vestiti corti o “rivelatori” come ragioni per giustificare gli stupratori. Perché la disonorabilità viene identificata solo tramite la sessualità della donna, ma non tramite l’atto di danneggiare la natura? Se tutto gira attorno al fatto di non perdere valore, gli uomini hanno una pallida idea dei valori che si infrangono quando tagliano alberi, distruggono fiumi, inquinano la natura?

Perché gli uomini non diventano disonorati quando commettono atti di corruzione, devastano la natura a vantaggio di un futuro profitto, tagliano alberi senza misericordia e demoliscono il fondamento storico di una città? Tutti quelli che nascondono ogni tipo di intrigo, ingiustizia e codardia dietro le donne: non è ora di mettere in questione il Namus di tali uomini, che lo definiscono tramite la sessualità e il corpo della donna?

Uccidete donne, stuprate bambine, perché vi sembra che il loro aspetto sia sbagliato o che i loro vestiti mostrino troppo, e continuate ad ammazzare. E dite: “Le donne sono il nostro Namus” per ridar fiato alle vostre inesistenti coscienze.

Marchiate i confini delle donne e spazzate via coloro che li attraversano come se fossero immondizia. Massacrate le donne allo stesso modo in cui massacrate la natura. Noi sappiamo che il sistema maschile dominante massacra solo per ambizione di potere, ma voi continuate a prendervi in giro da soli. Andate avanti, massacrate, distruggete, demolite, stuprate: il Namus che ottenete tramite le donne sarà sempre abbastanza per nascondere ogni vostro disonore.

E questo, da migliaia di anni, non cambia.

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protesta Izmir - Turchia

“Strombettare l’annuncio della gravidanza è contro la nostra civiltà. Le donne incinte non dovrebbero vagabondare per le strade con quelle pance. In primo luogo, non è estetico. Quando sono al settimo o all’ottavo mese di gravidanza, le future madri possono andare a fare un giro in macchina con i loro mariti, se vogliono prendere un po’ d’aria fresca. E uscire solo dopo il tramonto. Ma adesso, le vedi persino in televisione. E’ vergognoso. Non è realismo, questo, è immoralità.”

Così il signor Ömer Tugrul Inançer, avvocato e sedicente intellettuale islamico, ha spiegato il mese scorso durante un’intervista televisiva (per la rete statale turca TRT). Naturalmente non posso comparare le mie conoscenze con quelle dell’illustre “pensatore” – sì, è strano, alcuni lo definiscono in questo modo, forse è difficile da battere su quante ne pensa – e non ho più a casa il Corano, ma sono sicura che dentro non c’è la Sura del Voyeur a recitare “… e le donne furono create per il piacere dello sguardo di Ömer, e se esse non deliziano i suoi santi occhi con le forme fisiche che lui e lui solo ha il diritto di definire estetiche è meglio per esse uscire solo di notte e in tuta mimetica, acciocché lo sguardo di Ömer non venga offeso.” Quando si dice sentirsi il centro del mondo.

Com’è ovvio, il Direttorato turco per gli affari religiosi si è risentito: il centro del mondo, se permettete, sono loro. Pur contestando l’avvocato, perché: “l’Islam non richiede l’isolamento delle donne incinte ed essere madre è un dono”, non hanno perso l’occasione per dire a quelle stesse donne incinte di “vestire modestamente, in abiti che non rivelino le loro pance o le loro schiene”.

Il risultato che tanta buona volontà da parte di uomini pii ha ottenuto è stato far scendere in piazza, il 25 luglio, a Istanbul e Izmir ed altre città, una marea di future mamme con bene in vista i loro pancioni resistenti (l’hashtag che hanno usato per organizzarsi su Twitter era proprio “gravidanza resistente”). E c’è di più: i loro mariti e compagni si sono infilati cuscini e palloncini sotto le magliette, tanto per mostrare quanto trovano incivile, immodesto, antiestetico, vergognoso e immorale crescere un altro essere umano nel proprio corpo. Gli striscioni e i cartelli delle donne recitavano: IL CORPO E’ MIO. LA DECISIONE E’ MIA.

dimostrazione Turchia

Nelle interviste, donne ed uomini hanno detto di considerare il partito al potere ed Erdogan in particolare responsabili per questo clima, in cui si tenta di imporre alle donne turche quanti figli devono avere, in che modo devono partorire, se possono o no ottenere un’interruzione di gravidanza, dove possono o non possono andare, come devono o non devono vestirsi. Eda Çatalcam, una comune cittadina all’ottavo mese di gravidanza presente alla protesta nella capitale, attesta di perdonare Ömer Tugrul Inançer per le “pagliacciate” dette in televisione, ma aspetta le sue scuse: “Deve scusarsi con tutte noi, e specialmente con il bimbo nel mio ventre.” Vede, avvocato, noi donne siamo spesso misericordiose e compassionevoli. Dobbiamo vivere con voi, vi amiamo, vi mettiamo al mondo, e va bene così. Personalmente, spero però che quando incontrerà il suo dio, visto l’abuso che ne ha fatto, lui lo sarà un po’ meno. Maria G. Di Rienzo

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(“Hey Patriarchy! Hear our voice.”, di Meltem Arikan, giugno 2013, trad. Maria G. Di Rienzo. Meltem Arikan è una scrittrice, drammaturga e giornalista turca. http://www.meltemarikan.com/ )

arikan

Sto scrivendo come testimone di fin dove può spingersi la violenza del sistema di dominio patriarcale in tutto il mondo. Oggi ci troviamo nel periodo di transizione dal mondo analogico a quello digitale. E durante tale transizione, io ho testimoniato come le persone possono unirsi ed essere solidali contro il regime oppressivo del patriarcato.

Io ero solita essere una delle persone senza speranza in Turchia. La gente del mio paese era oppressa dalla paura ed eravamo alienati l’uno dall’altro dall’uso di religione, sette, sessualità, etnia, di modo che chiunque era diventato “l’altro” agli occhi di una seconda persona. Per alimentare il loro dominio coloro che sono al potere hanno costruito letteralmente un regime di paura, con la pressione da loro applicata alla stampa, in special modo per opprimere le donne, e con le loro politiche di distruzione identitaria delle donne applicate attraverso i loro corpi. Tutti accettavano questa situazione, tutti erano oppressi; la voce che si distingue nel silenzio poteva essere facilmente condannata.

Tutto è cominciato con un paio di alberi ed è per questo che nessuno ha saputo interpretare correttamente ciò che stava accadendo davvero. Quando cominciò la Protesta contro la costruzione di un centro commerciale e per fermare la distruzione degli alberi del Parco Gezi in Piazza Taksim, persino io non potevo smettere di pensare: “In seguito, in quanti di noi saremo qui di nuovo?”

Durante il primo giorno, dopo l’uso di gas al pepe contro chi era andato a proteggere gli alberi, di colpo il numero di persone che arrivava raddoppiò. Quando l’attacco tramite gas finì, più tardi quella notte abbiamo cantato, danzato, ci siamo espressi liberamente, abbiamo messo in piedi le nostre tende, abbiamo fatto la guardia al parco, ma attorno alle cinque del mattino il nuovo attacco avvenne in modo incredibile. La polizia arrivò, bombardò gente pacifica che dormiva con gas al pepe e gas lacrimogeno, bruciarono le tende. Fummo tutti sconvolti da questo. Ed è così che le strade si sono riempite di gente. I nostri occhi erano pieni di lacrime mentre vedevamo giungere le folle.

La polizia ha aumentato la dose di violenza e ciò ha sollecitato sempre più persone a lasciare le loro case e andare in strada, maggiore la violenza che ricevevamo dalla polizia, maggiore il numero di persone che si radunava in solidarietà. Più la violenza aumentava, più intelligenza sciolta e senso dell’umorismo hanno riempito i muri di scritte contro la polizia. E, di colpo, l’intero paese era composto di persone che si tenevano strette l’una all’altra, lasciandosi alle spalle le loro differenze regionali, razziali, religiose, di lingua e di opinioni politiche.

Durante le brutalità, la censura applicata ai media ha dato una prima lezione a coloro che non capiscono come funziona il mondo digitale. Oggi vi sono numerosi modi diversi di ottenere informazioni. Oggi, la percezione è che l’accesso all’informazione sia più potente delle armi. Oggi, è un dato di fatto che la condivisione di informazioni può cambiare la percezione delle persone. E citando il nostro Presidente, Twitter è diventato un “combina-guai”.

Dopo la violenza poliziesca, coloro che non avevano potuto respirare a causa del gas, coloro che erano stati feriti dai getti d’acqua pressurizzati lanciati dai panzer, si sono riuniti ogni giorno e hanno pulito le strade del Parco Gezi a mano, muniti di sacchetti della spazzatura. Ognuno ha incoraggiato un’altra persona a restare calma e a mantenere il buon senso contro la violenza della polizia. L’intelligenza e l’umorismo hanno decorato le mura delle strade contro la violenza della polizia. E sebbene la violenza della polizia sia costata tre giovani vite, il comportamento persistente del governo non giunge a un termine.

Invece di ascoltare noi, i cittadini, questo Presidente – proprio come un padre autoritario – ha tentato di ridurci al silenzio, ha usato violenza contro di noi. Invece di capire come ci sentiamo, ci ha ordinato quel che dobbiamo provare. E’ la voce del patriarcato che continua la sua violenza da migliaia di anni, e questa volta usa la voce del nostro Presidente: obbeditemi. Distruttiva, oppressiva, continua e inconciliabile come sempre. E per migliaia di anni, tutti gli incidenti si ripetono, ancora e ancora, e la violenza più brutale è usata contro le donne nelle piazze.

Natura significa vita. La vita va protetta. Noi ci siamo riuniti al Parco Gezi per proteggere la vita, per suscitare consapevolezza sugli effetti dell’urbanizzazione. Oggi, il nostro numero ha superato le centinaia di migliaia. In tutto il paese, la gente si tiene per mano nelle strade, chiede libertà di parola, spazi liberi in cui vivere in solidarietà, è diventata una sola voce e un solo cuore, e noi continuiamo a resistere.

Durante questo periodo di transizione, quel che l’esperienza turca dimostra oggi è che noi, donne e uomini insieme, mano nella mano, nonostante la sproporzionata violenza contro di noi, possiamo lottare in solidarietà, mettendo da parte differenze razziali, religiose, di lingue ed etniche per la libertà di parola e di espressione, per spazi in cui vivere liberi.

Oggi, l’esperienza turca prova che donne e uomini possono reclamare le loro esistenze individuali senza aver bisogno di appartenere a qualsiasi religione o qualsiasi gruppo etnico, e piantare comunque le speranze di un nuovo ordine mondiale costruito da individui indipendenti. Ciò di cui abbiamo fatto esperienza in Turchia ha dato speranza a tutti quelli che l’avevano persa, e per la prima volta persino a me come scrittrice, la stessa persona che ha intitolato un suo romanzo “La speranza è una maledizione”.

E una volta di più, a vostro beneficio, vorrei confessare tutte le mie colpe.

Sono colpevole! Voglio avere libertà di pensiero e libertà di espressione uscendo da tutte le oppressioni ideologiche e religiose.

Confesso che, distruggendo gli schemi di pensiero imposti su di me, lotto per pensare liberamente.

Sono colpevole! So che fuggire dalla realtà è fuggire dal dolore.

Confesso che tutti i tipi di fuga sono generati dalla paura e nutriti dai codardi. Non accetto di farmi terrorizzare.

Sono colpevole! Non accetto nessuna delle restrizioni imposte su di me.

Confesso che sono io stessa a tracciare i confini della mia libertà.

Sono colpevole! Mettendo in discussione le cose che mi avete insegnato di continuo abbandono i vostri tipi di socializzazione, famiglia, credenze.

Confesso che madre, moglie, amante, tutti i ruoli che avete imposto su di me li rifiuto.

Sono colpevole! Ho scelto di ribellarmi per poter esistere.

Io confesso che qualsiasi cosa facciate continuerò ad oppormi alla violenza, a resistere e a rispondervi con il mio intelletto e la mia penna!

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(Intervista a Mimi Chakarova, di Bryan Shih per Women in the World Foundation, 2 ottobre 2012, trad. Maria G. Di Rienzo)

 

Nel 1990, quando aveva 13 anni, Mimi Chakarova emigrò con la madre dalla Bulgaria agli Stati Uniti in cerca di una nuova vita. Quando si recò in visita al suo paese, due anni più tardi, scoprì che molte delle sue coetanee erano pure emigrate con lo scopo di trovare un lavoro e sostenere economicamente le loro famiglie impoverite. Di parecchie non si sapeva più nulla. Mimi pensò allora che era molto strano non mantenessero il contatto con i propri parenti, quando erano di sicuro spaesate in quelle terre straniere, ma genitori e nonni le dicevano che davvero non sapevano dove fossero le loro figlie e nipoti.

Passarono altri anni e nella seconda metà dei ’90 l’attenzione di Mimi fu attratta dai servizi giornalistici sulla crescente industria del sesso che si diffondeva dall’Europa dell’est. I suoi pensieri tornarono in Bulgaria, alle ragazze che aveva conosciuto mentre cresceva. Era possibile che ad alcune di loro fosse accaduto proprio quello che i servizi riportavano? Ormai una fotogiornalista con esperienza di zone di conflitto, Mimi pensò che la questione meritava ulteriori indagini. Il contenuto salace di quei pezzi, spesso scritti in tono voyeuristico da giornalisti maschi che fingevano di essere clienti, la disturbava: “Mi dissi che invece di star là a leggere e lamentarmi e scuotere la testa, dovevo provare ad andare più in profondità.” E così fece, lavorando per quasi dieci anni al suo progetto di giornalismo investigativo e producendo tra l’altro un documentario che ha già vinto dei premi, “Il prezzo del sesso”.

Il titolo del tuo progetto, “Il prezzo del sesso”, è semplice ma efficace. Perché lo hai scelto, cosa significa per te?

Nel 2006 stavo lavorando ad una storia per Frontline World sul traffico di esseri umani a Dubai. Incontrai i produttori per chiarire alcuni dettagli e loro mi dissero: “Allora, come si chiamerà il tuo servizio?” Io non avevo ancora scelto un titolo e loro continuarono: “Be’, comunque lo chiami assicurati di metterci dentro la parola sesso.” Mentre ero alla guida dell’auto per tornare a casa mi ripetevo: “E’ disgustoso. Non posso crederci.” Ma questo mi ha costretta a riflettere su una cosa che ha molteplici significati. Per esempio, qual è il prezzo del sesso? Il prezzo del sesso è ciò che un bel po’ di queste donne hanno pagato. E’ la degradazione del loro spirito. Questo è il prezzo che hanno pagato per essere vendute.

Il tuo progetto multimediale fornisce molte risorse per comprendere la questione del traffico di esseri umani, ma che impatto ha avuto il filmato sulle sue protagoniste?

Le ragazze che appaiono nel film non hanno accesso ad internet. Devi capire le condizioni in cui vivono. Non è che possono accendere un portatile e andare a vedere. Ma una di loro, Jenea, aveva bisogno urgente di serie cure mediche: molti di quelli che hanno visto la sua storia nel documentario hanno mandato donazioni e Jenea ha potuto affrontare l’intervento chirurgico. Per cui anche se non conoscono il prodotto finito sono consapevoli che c’è un ritorno dall’aver raccontato le proprie storie.

Non abbiamo chiuso il film su una nota ottimistica o speranzosa, anche se avremmo potuto, perché sarebbe stata in gran parte falsa: non avrebbe mostrato le altre donne in situazioni simili le cui storie non sono udite. Gran parte di loro non sopravvivono. Non possono raccontare le loro vicende. Nello strutturare un messaggio indirizzato alla comunità globale io penso si debba avere un tono realistico. E questa è stata la critica principale fatta al film, e cioè che si tratta di un documentario davvero “pesante”. E lo è per via della materia che tratta: le vite delle persone sono distrutte e non è semplice rimetterle insieme dopo che sono state spezzate tante volte.

Una delle critiche in generale ai servizi sul traffico a scopo sessuale è che distolgono l’attenzione da altri traffici di esseri umani, per esempio il traffico di lavoratori, solo perché trattano di sesso. Tu cosa ne dici?

Io penso sia vero, penso che il traffico di lavoratori esista su una scala enormemente più grande. Ma penso anche che questo tipo di traffico è molto più difficile da documentare perché è letteralmente dappertutto: fabbriche, campi, case. Accade con le domestiche, che spesso sperimentano pure abusi sessuali. So bene che il traffico di lavoratori ha definitivamente bisogno di maggior copertura giornalistica, ma ognuno sceglie le proprie battaglie.

La gente mi ha anche chiesto: “Perché non sei andata in altri luoghi, perché ti sei concentrata sull’Europa dell’est, la Turchia e Dubai?” Perché avevo connessioni e contatti in questi luoghi. Dopo la caduta del comunismo le cose sono cambiate drammaticamente. Girare il documentario mi ha dato l’opportunità di indagare qualcosa che mi interessa, che credo dovrebbe far riflettere tutti, e cioè i sistemi sociali. Cosa accade quando un sistema sociale collassa? Che ne è delle questioni di genere? Come ci trattiamo l’un l’altro? Come sono trattate le donne? Nell’Europa dell’est e nei Balcani le società sono assai patriarcali, e allora in che modi le ragazze sono trattate diversamente dai ragazzi? Perché questi genitori non stanno facendo domande sulle loro figlie scomparse, perché non fanno le domande che farebbero se a scomparire fossero stati i loro figli maschi? Tutto questo, genere, opportunità economiche, sistemi sociali, che degradano e si dissolvono, è molto più interessante da indagare, per me.

Dopo dieci anni di lavoro sul traffico a scopo sessuale quanto pensi di occupartene ancora? Come ti ha toccato personalmente?

Sicuramente non farò questo per il resto della mia vita. E’ qualcosa che ti cambia. Che ti si attacca addosso. Le mie colleghe che hanno passato solo due settimane a leggere e far ricerche ogni giorno sul traffico di esseri umani e sullo stupro mi hanno detto che avevano gli incubi e che la cosa le stava angustiando troppo. Adesso tu moltiplica questo per dieci anni, e non si tratta solo di leggere ma di parlare con le persone e di andare in certi posti. Finisci per sviluppare il terrore che qualcosa di terribile ti accadrà, perché incontri costantemente persone a cui cose terribili sono già accadute. Ti investe ad un livello assai profondo. Per cui, se dovessi continuare a lavorare solo in quest’area non so quanto bene potrei fare alle persone o al mio stesso lavoro.

Mi piacerebbe espandere le ricerche, aggiungere gli altri due elementi sovrani del profitto, le armi e le droghe, e chiudere il triangolo. I giocatori chiave di tutte e tre le partite sono gli stessi: i paesi che beneficiano maggiormente del traffico di armi e droghe sono gli stessi che trafficano donne, le reti criminali sono le stesse.

Come trovi bilanciamento nella tua vita, cosa ti sostiene?

Mi piacerebbe davvero saper meditare. Ho colleghi e colleghe che maneggiano soggetti difficili e so che lo yoga e la meditazione li aiutano molto. Io maneggio la mia rabbia, la mia frustrazione e la mia ansia facendo pugilato.

Ho cominciato ad allenarmi perché volevo avere la forza di andare in posti non sicuri durante il mio lavoro da reporter. Sapevo che se accadeva qualcosa niente poteva tirarmene fuori, perché non ho protezioni e nessuna squadra alle spalle, per cui avevo bisogno di sentirmi forte, in grado di entrare in situazioni difficili ed uscirne bene. Faccio boxe da sei anni, anche eccessivamente. Il mio rilassarmi è un processo in cui rendo esausti corpo e mente, proprio l’opposto della meditazione e dello yoga, ma sembra che per me funzioni.

http://www.mclight.com/slideshow.html

Ndt: All’indirizzo riportato sopra potete vedere lo slideshow del documentario, che si apre con queste parole: “Quando ero piccola, mia madre mi disse che quando piove e contemporaneamente esce il sole una prostituta partorisce. Il sole è il bambino, le gocce di pioggia sono le lacrime della madre. – Rima”

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(tratto da “The brothel next door”, un più ampio servizio di Anna Louie Sussman per Foreign Policy, 17.5.2012. Anna Louie Sussman, giornalista indipendente, è anche editrice di www.womenintheworld.org – Trad. Maria G. Di Rienzo)

Sotto l’ombra degli alberi, in un caffé di Istanbul, Suzan, una voluttuosa signora sulla cinquantina con i capelli ossigenati ed un sorriso caldo e generoso, descrive com’è passata dall’essere una sposa adolescente ad essere una sex worker a tempo pieno. Mentre parla, il suo cellulare suona circa ogni quindici minuti. Clienti, mi spiega.

Suzan fu data in moglie dal padre quando aveva 16 anni e il solo diploma di scuola elementare. Ha lasciato un marito alcolizzato e scommettitore dopo aver avuto con lui sette figli, uno dei quali morto bambino. Per sostenere gli altri sei, Suzan ha tentato di tutto: vendere vestiti usati al mercato, lavorare in fabbrica, fare la cameriera in una sala da tè. Ma le sue misere entrate non pagavano le tasse scolastiche a sei figli. Un incontro casuale con una prostituta alla stazione dei treni la convinse che era meglio cambiare carriera. Nonostante le sue tariffe vadano dai 12 ai 24 euro, scoprì che riusciva a vivere decentemente, soprattutto dopo aver creato una base di clienti fissi e affidabili. A differenza di altri lavori, però, questo la mette in conflitto con la legge. In vent’anni da sex worker Suzan è stata multata più volte di quanto ricordi e ha dovuto presentarsi a più di cinquanta udienze in tribunale. Quattro anni fa, ha passato sei mesi in prigione mentre la polizia indagava sul suo possibile coinvolgimento in traffico di droga e prostituzione minorile: non trovarono prove per nessuna delle due accuse e la rilasciarono. Fino ad allora, Suzan era riuscita a nascondere ai suoi figli qual era il suo lavoro, ma la sentenza a sei mesi di galera la costrinse a dir loro dove andava e perché. Con una voce densa di emozione, ricorda come i figli la confortavano durante le loro visite settimanali alla prigione. “Mi dicevano: Va tutto bene, mamma. Tu ci hai cresciuto, hai messo il pane sulla nostra tavola. Possiamo andare a parlare con il giudice? Gli diremo che grande madre sei.” Suzan ha pianificato il suo ritiro per quando la sua figlia minore prenderà il diploma al college.

Il commercio sessuale, qui, è per la maggior parte invisibile pur avendo una storia particolare che risale all’Impero Ottomano. L’attuale governo islamista desidera dare della Turchia un’immagine allo stesso tempo moderna e pia, il che lascia poco spazio per Suzan e le sue colleghe. Secondo il Ministero della Sanità, la Turchia ha attualmente 3.000 sex worker registrate che lavorano in 56 bordelli gestiti dallo stato, chiamati genel evler (“case generali”). Le prostitute senza licenza sono circa 100.000, metà delle quali straniere: la Turchia è una delle destinazioni per il traffico di donne dell’est europeo, che qui sono chiamate “Natashe”. Da circa un decennio, il numero di licenze concesse per aprire una “casa generale” è gradualmente diminuito sino a cessare del tutto tre anni orsono. I bordelli già esistenti vengono chiusi o trasferiti nelle periferie urbane.

La regolamentazione della prostituzione è sempre stata un affare poco chiaro in Turchia. Negli anni ’80 Mathilde Manukyan, una tenutaria armena di dodici bordelli divenne la maggior contribuente di tasse del paese. Manukyan, che finì per possedere un considerevole patrimonio immobiliare ed è scomparsa nel 2002, era premiata regolarmente dal governo per i suoi contributi alle casse statali: ed anche se molte delle sue “impiegate” erano minorenni, la polizia chiudeva un occhio. Filiz Kargal, trentacinquenne, mi racconta che suo marito la vendette a Manukyan quando aveva 13 anni. Era sposata con lui da tre mesi. Seduta su una panchina nel quartiere operaio di Sirinevler, descrive la spietata efficienza dell’impresa di Manukyan. Le donne lavoravano dalla mattina alla notte, con un’unica pausa per il pranzo. Il pranzo era fornito da una tavola calda di proprietà della tenutaria e le donne dovevano pagarlo: cibo scadente a prezzi da inflazione, spiega Kargal. Ogni due o tre mesi erano obbligate a firmare documenti falsi in cui si attestava che dovevano soldi al bordello. Kargal racconta anche di aver denunciato il figlio di Manukyan, poiché quest’ultimo non ha versato i contributi per i 12 anni in cui lei ha lavorato al bordello. Sommando interessi e danno, potrebbe arrivare a doverle qualcosa come 400.000 euro. L’avvocato di Kargal, Abdurrahman Tanriverdi, dice che ci sono moltissime ex prostitute in queste condizioni e che la procedura di intascarsi i loro contributi sociali era standard per i bordelli di Manukyan. Le scarse protezioni legali che le sex worker avevano sono messe in discussione dal governo turco attuale. Il portavoce del Ministero della Sanità, che ha declinato il fornire il proprio nome, dice “Vogliamo riformare e correggere queste donne, e riabilitarle.” (Naturalmente nessuna riforma, correzione e riabilitazione è prevista per i clienti, ndt.) Il portavoce sostiene che ora il Ministero fornisce alle prostitute delle “carte sanitarie” invece delle licenze precedenti, ma non è chiaro se il fatto di possedere una carta consenta loro di operare e come. Inoltre, nessuna delle sex worker e delle attiviste per i diritti umani con cui ho parlato ne era a conoscenza.

Le politiche di governo hanno spinto le donne turche ancor più ai margini della sfera economica. Circa due terzi delle donne in età lavorativa non hanno reddito. La loro partecipazione alla forza lavoro si aggira attorno al 24%, ma più del 40% delle donne del paese hanno subito violenza fisica e/o sessuale, il che rende più probabile per una donna subire un abuso che trovare lavoro. Quelle che finiscono in strada dopo la chiusura dei bordelli diventano una fonte di reddito sicuro per le agenzie governative. Ne parlo con Hakkan Yildrim, avvocato di Pembe Hayat, ong che lavora per i diritti delle persone LGBT e delle prostitute. Nel 2008, dopo che i tentativi di bandire gli alcolici erano miseramente falliti, il sindaco di Ankara, Ibrahim Melih Gokcek, si dedicò a combattere “il vizio” chiudendo metà dei bordelli della capitale senza tuttavia offrire alternativa alcuna alle 330 donne che ci lavoravano. Per strada, le sex worker (soprattutto quelle che di esse sono persone transgender) sono soggette a tutta una serie di multe per reati che vanno dal “comportamento contrario all’ordine pubblico” all’ “intralcio al traffico”. “Di media, una sex worker paga in multe 2.000/5.000 lire turche ogni anno (dagli 800 ai 2250 euro). Solo di persone transgender coinvolte nella faccenda, ad Ankara, ce ne sono 400. Lo stato raccoglie sino a due milioni di lire turche l’anno solo da loro.” “In altre parole”, aggiunge Kemal Ordek, segretario di Pembe Hayat, “Lo stato fa da magnaccia alle prostitute.”

A sentire Ali Ihsan Olmez, vicesindaco di Ankara, si tratta solo del fatto che i bordelli si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Olmez è un fedele militante di AKP, il partito di governo. In una lunga intervista concessami nel suo ufficio e punteggiata da innumerevoli sigarette (quando gli ho detto che in Turchia è proibito fumare negli uffici pubblici si è messo a ridere), Olmez ha descritto il grande piano di rinnovo generale per il distretto di Altindag, dove i restanti bordelli della capitale si trovano. “La nostra principale preoccupazione sono i fattori geografici del progetto, ma in effetti i bordelli si trovano in quest’aera, che è la parte storica più antica di Ankara. Se le prostitute dovrebbero o no fare le prostitute non è affar nostro. Sia come sia, i bordelli là non possono restare. Questo restauro dell’area è un progetto gigantesco, importantissimo.” I miei tentativi di fargli presente i problemi delle sex worker sono stati dismessi con una metafora: “Stiamo parlando di un progetto davvero enorme. E’ come se io stessi parlando di un cammello e tu di una mosca sotto la sua coda.” Ma non è l’unica metafora di cui Olmez è capace: “Lasciare i bordelli dove si trovano sarebbe come ristrutturare la propria casa senza però pulire la cucina che è piena di scarafaggi.”, e ripete con enfasi, “Per quanto tu decori e sterilizzi, se non ammazzi gli scarafaggi in cucina come puoi dire che la cucina appartenga alla nuova casa?”

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