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Posts Tagged ‘tecnologia’

(tratto da: “Women leaders driven offline and out of work by social media abuse”, di Annie Banerji e Sarah Shearman per Thomson Reuters Foundation, 14 novembre 2019, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Londra: l’abuso pervasivo delle donne sui social media sta spingendo le leader di sesso femminile fuori da internet e, in alcuni casi, fuori dal lavoro come è stato detto durante una conferenza giovedì.

A due anni dall’inizio del movimento globale #MeToo, con le donne che trovavano forza nel condividere le storie di molestie sessuali, ora il virulento abuso da loro subito online ne sta facendo uscire alcune dalla vita pubblica. Che si tratti di politiche o di attiviste, molte ne hanno avuto abbastanza e biasimano i loro detrattori digitali per la decisione di sottrarsi.

“Perché dovrei andare su una piattaforma dove sono chiamata cagna e puttana?”, ha detto Karuna Nundy, una delle avvocate più note dell’India, durante una pausa della conferenza annuale di Thomson Reuters Foundation a Londra. “Il “trolling” può essere estremamente disturbante. Può infiltrarsi nel tuo telefono, diventare assai personale e sbattuto in faccia.”, ha aggiunto Nundy, che si è aggrappata al proprio lavoro nonostante anni di diffamazioni online.

L’ex candidata alla presidenza degli Usa Hillary Clinton ha detto questa settimana che i social media – da Facebook a Youtube – premiano le pubblicazioni offensive e le teorie della cospirazione, molte delle quali dirette a donne dall’alto profilo. Il suo commento segue la notizia per cui un certo numero di donne politiche hanno dichiarato che non si presenteranno alle elezioni del 12 dicembre in Gran Bretagna, citando gli abusi subiti sulle piattaforme dei social media che includevano minacce di stupro e di morte. La Ministra della Cultura Nicky Morgan ha fatto riferimento agli alti livelli di abuso che le donne politiche “affrontano di routine” nella sua lettera di dimissioni. (…)

Le ditte che hanno la proprietà dei social media sono sotto pressione affinché rimuovano i bulli e Twitter ha promesso regole più dure sulle molestie sessuali online e anche penalità più severe per i trasgressori. Molte donne non possono esprimersi liberamente su Twitter senza timore di violenza, aveva detto Amnesty International l’anno scorso. Twitter non aveva commentato.

L’abuso può spaziare dal “doxing” – il rivelare dati personali come l’indirizzo di casa o il nome di un figlio – al postare immagini di nudo. “Sono le donne, in modo sproporzionato, a fare esperienza dei contenuti più ripugnanti.”, ci ha detto al telefono Julia Gillard, che è stata Primo Ministro dell’Australia. Sostiene che la rapida crescita dei social media ha significato diventare bersagli di aggressioni per un maggior numero di donne con un profilo pubblico.

La tecnologia in se stessa non è da biasimare, ha detto la scrittrice e attivista per i diritti delle persone disabili Sinead Burke (Ndt. – in immagine), invitando gli utenti a pensarci bene prima di pubblicare su piattaforme enormemente popolari come Facebook o Twitter.

sinead

“Sì, possiamo dar la colpa alle piattaforme per i loro algoritmi… ma come ci assicuriamo che le persone capiscano di aver responsabilità per le proprie azioni?”, ha detto Burke, la quale vive con l’acondroplasia, una patologia della crescita ossea che causa il nanismo.

Burke ha ricordato come un ragazzino la saltò alla cavallina mentre il suo amico filmava la scena per avere un video da pubblicare sui social media, “in un tentativo di diventare virali”: “Il problema non è la tecnologia – sono le persone.”

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mari e il robot

Se avete quindici minuti di tempo e vi fidate delle mie recensioni, potreste trascorrerli guardando questo breve film d’animazione del 2017, “Green Light” – “Luce Verde”.

https://www.youtube.com/watch?v=UT-mA673hLs

La squadra che l’ha creato è sudcoreana, però non vi servirà sapere altre lingue per vederlo (i dialoghi fra i due protagonisti principali, in immagine, sono comprensibili ma non vocalizzati; se siete curiosi delle sole due parole in coreano che si sentono nel filmato, la prima è “questo” e la seconda è “Yu-na”, un nome proprio).

Il regista Kim Seong-min racconta la sua storia così: “Luce Verde parla di una ragazzina e di un robot soldato che si trovano nella peggior situazione possibile causata dall’uso improprio di tecnologia scientifica altamente sviluppata. Ho tentato di mostrare il legame fra Mari, che tenta di costruire un futuro migliore senza abbandonare la speranza in una situazione tragica dove tutto è stato distrutto, e un automa che comincia una nuova vita grazie a lei, e come entrambi creino un nuovo mondo.”

In un quarto d’ora di tenerezza e magnificenza tecnica “Green Light” vi dirà che comunicare con chi è diverso da noi è sempre possibile e spegne la violenza. Vi dirà persino che anche quando scomparite i vostri sogni non devono necessariamente andare in frantumi.

Uno dei commenti più comuni al video è: “Sono un uomo adulto e sto piangendo”. Anche la scrivente vecchietta si è trovata una lacrima sulla guancia.

Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “Being a female scientist: marine biologist and computer scientist Laura Uusitalo”, una più lunga intervista di Vvaitkeviciene alla Dott. Uusitalo per Ocean Blogs, 23 ottobre 2017, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Laura Uusitalo, in immagine, lavora all’Istituto per l’Ambiente Finlandese come direttrice e capo-ricercatrice.)

laura

Cosa ti ha ispirata a perseguire una carriera nelle scienze e nelle tecnologie marine?

Quando ero adolescente ho desiderato, per un po’, diventare una sociologa. Più tardi, mi sono interessata sempre di più alle scienze naturali e ho scelto di studiare limnologia (ndt. settore dell’idrologia relativo alle acque continentali) all’università a causa del suo ampio scopo che include tutto: dall’idrologia e dalla fisica acquatica, passando per la chimica e l’ecologia, sino ad arrivare agli aspetti sociali dell’uso delle acque naturali. Ho trovato tale diversità altamente ispirante e non mi sono mai pentita di aver scelto questa carriera.

Quali sono le cose che ti piacciono di più dell’essere una scienziata/ingegnera marina?

Moltissime cose mi piacciono del mio lavoro: poter fare scienza; la varietà del campo che va dall’ecologia d’avanguardia alle questioni sociali; poter lavorare con colleghe/i brillanti sia nel mio Istituto sia a livello internazionale; avere un alto grado di libertà nel definire il mio proprio lavoro e sapere che sto facendo la mia parte per la protezione dei mari.

Pensi ci sia necessità di sostenere in modo speciale le ragazze affinché studino scienze/tecnologie marine?

Io penso ci sia la generale necessità di liberarci dai ruoli di genere nella società e lasciar scegliere a chiunque la carriera e lo stile di vita che meglio si confà a costei o costui. Uno dei passi per arrivarci è incoraggiare le persone a far scelte relative alla carriera che non sarebbero tipiche per il loro genere; ciò può includere il sostenere le donne nella scelta delle scienze marine. In Finlandia, tuttavia, la mia impressione è fra gli studenti di scienze marine tutti i generi siano rappresentati in modo bilanciato. Le scienze tecnologiche sono ancora però un dominio maschile e incoraggiare le ragazze a entrare in tali campi è un compito che gli insegnanti di scuole e università dovrebbero prendere seriamente.

Pensi ci sia bisogno di un sostegno speciale per trattenere le donne nella scienza?

Ci sono ricerche che mostrano come le donne “abbandonino” la scienza più degli uomini in particolar modo nello stadio post-dottorato, perciò sarebbe importante capire quali sono le cause e come possono essere evitate. Probabilmente le ragioni sono molteplici, incluse le possibilità di ottenere fondi per continuare il lavoro, l’attitudine dei colleghi e della comunità scientifica in generale, e il fatto che lo stadio post-dottorato è spesso anche l’età in cui hai bambini, e combinare carriera e famiglia può essere difficile.

Come possiamo superare le istanze che spingono le donne fuori dalle carriere scientifiche?

Alcune misure che sarebbero d’aiuto consistono nel migliorare la sensibilità al genere nei processi di selezione e valutazione (per evitare i pregiudizi culturali profondamente radicati e largamente subconsci contro le donne), nel migliorare le possibilità di combinare lavoro e famiglia (inclusi buoni servizi per l’infanzia, congedi familiari, il tornare al lavoro in modo agevole dopo i congedi) e dar sostegno a una cultura che permetta ad ambo i genitori in una famiglia di lavorare (servizi per l’infanzia accessibili e di alta qualità, politica delle tasse che preveda benefici ecc.).

Che consigli daresti a una donna che sta considerando l’idea di intraprendere una carriera nella scienza?

Vai! La scienza è fantastica! Ricordati che non devi compiacere nessuno: è sufficiente fare un buon lavoro. E controlla la bilancia vita/lavoro, non lavorare tutte le notti e nei fine settimana, non solo perché non è buono per il tuo benessere: non è neppure buono per la tua creatività. Avrai bisogno di permettere alla tua mente di rinfrescarsi e ricaricarsi per poter avere buone idee e lavorare in maniera efficiente.

Qual è il modo più efficace, per te, di mantenere il bilanciamento fra la vita professionale e quella personale?

Non ho mai fatto molti straordinari. A volte mi è risultato difficile, ma è valsa anche la pena di provare a me stessa che quel che potevo fare in 40 ore settimanali era abbastanza.

Mi piace ballare – ho fatto tip tap, danza irlandese, balletto, danze orientali, tribal fusioni, danze folk e swing, tra l’altro; per me è un gran modo per scollegarmi dal lavoro e concentrarmi su qualcosa che è sia fisico sia mentale, intellettuale e intuitivo allo stesso tempo.

Anche i miei figli mi rendono necessario lasciare l’ufficio di buon ora; a volte, quando il flusso delle idee mi trascina, mi piacerebbe restare semplicemente in ufficio e lavorare sino a notte.

Quali sono i tuoi sogni professionali e personali?

Mi piace proprio fare ricerca e amerei avere l’opportunità di continuare. Mi piacerebbe che tale ricerca facesse la differenza su come capiamo e maneggiamo i mari. Mi piacerebbe anche essere in grado di ispirare le giovani scienziate e i giovani scienziati a trovare il meglio in se stesse/i e a raggiungere i loro sogni.

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(brano tratto da: “Why algorithms aren’t working for women”, una molto più lunga intervista a Liz Rush di Susan Cox per Feminist Current, 7 aprile 2017. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Liz Rush, in immagine, è una femminista e un’ingegnera informatica.)

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Susan Cox (SC): Allora, cos’è esattamente un algoritmo?

Liz Rush (LR): Per dirla semplicemente, è una serie di regole o passi che devono essere fatti per calcolare o risolvere problemi al computer. E’ come una ricetta. Ci sono passi differenti che tu fai in un determinato ordine e quando hai finito, il piatto pronto è il risultato.

SC: Che effetto hanno gli algoritmi sulla società moderna?

LR: Gli algoritmi sono ovunque, ma sono per lo più invisibili a noi. Sono nel tuo feed di FB, in quel che vedi su Twitter, in ogni sorta di cose su Internet – persino nei motori di ricerca. Questo contesto con cui tu interagisci su base giornaliera è completamente informato da potenti algoritmi che apprendono meccanicamente. Quel che vedi è filtrato da algoritmi che sono stati personalizzati e modificati in base a quel che una compagnia commerciale o un programma pensano tu voglia vedere. Questo è un concetto che noi chiamiamo “la bolla filtro” e si riferisce agli algoritmi che interessano i confini di ciò che vediamo su Internet. Quando tu usi Google e cerchi un termine, non ti sono dati solo i migliori risultati che più si avvicinano a quel termine. Vengono presi in conto la cronologia delle tue ricerche, la tua relazione con le statistiche demografiche e le tue abitudini per gli acquisti online, e si prendono nel conto anche le persone che si trovano nella stessa città in cui tu fai la ricerca. Perciò, se tu e io cerchiamo la stessa cosa, avremo molto probabilmente risultati simili perché siamo interessate agli stessi argomenti, siamo entrambe donne bianche, siamo entrambe “millennial”, eccetera.

SC: Quindi i risultati non sono basati unicamente sul trovare il contenuto più rilevante e accurato in base ai termini di ricerca?

LR: Loro hanno un algoritmo che determina quali siti web saranno mostrati nei risultati della ricerca, basati sui contenuti di quei siti e da una varietà di altri fattori che determinano se loro pensano o no che corrispondano al tuo input. Ma i dati stanno diventando sempre più intrecciati con quelli personali tuoi e di altra gente. Per esempio, quando vedi la schermata di Google con i risultati è il momento in cui vedi un algoritmo che apprende meccanicamente: sta tentando di capire cosa stai cercando basandosi sulla tua storia e sulle storie di utenti simili a te. E se trovi quel che cercavi, cerca di capire se è corretto o no. Ma ovviamente puoi osservare come un algoritmo possa apprendere pregiudizi, tipo se cerchi “Perché le donne sono così…”. Molto spesso non ne risulta un’immagine lusinghiera delle donne, o delle persone di colore, o di una minoranza qualsiasi.

SC: Perciò il sessismo e il razzismo possono diventare incorporati nell’algoritmo stesso?

LR: La discussione sul fatto che un algoritmo possa essere sessista o razzista solleva un mucchio di opinioni roventi, perché la verità in materia è che quando scrivi un algoritmo scrivi una ricetta: e in se stessa non è necessariamente razzista o sessista o classista. Ma, quando l’algoritmo apprende da un feedback pieno di pregiudizi, o usa dati iniziali che sono allo stesso modo pieni di pregiudizi, allora il razzismo o il sessismo diventano parte dei risultati. Se per esempio cerchi lavori online per donne, troverai lavori meno pagati di quelli che troveresti per gli uomini. Questo schema è stato confermato più volte. Per cui, la questione centrale degli algoritmi è: al di là delle intenzioni della persona che scrive l’algoritmo, se il disegno di quest’ultimo permette all’auto-rinforzamento del pregiudizio di continuare – di propagarsi – allora i risultati avranno quella determinata intenzione, se non corretti.

SC: Noi spesso guardiamo alla tecnologia come a qualcosa di neutro rispetto ai valori – solo freddo e duro calcolo. Non pensiamo che Google abbia dei contenuti perché si suppone si tratti di un mero riflesso di una parola online. Tu stai dicendo che Google ha invece un ruolo attivo e significativo nel dare forma a quel che vediamo online?

LR: Assolutamente sì. Tu senti la parola “algoritmo” e pensi alla matematica, alla scienza, ai computer. E credi che i computer siano “neutri” perché in fondo sono solo “zero e uno”. Ma la realtà è che sono persone a disegnare questi sistemi e fanno delle scelte etiche su come i sistemi dovrebbero funzionare. Un esempio sono gli algoritmi nei nostri dispositivi medici. C’è un algoritmo nei pacemaker che aiuta a determinare il tuo battito cardiaco. Ma i pacemaker sono stati progettati, originariamente, solo per gli uomini: erano troppo grandi per stare nel petto di una donna in moltissimi casi. Perciò, se l’algoritmo che determina quando il tuo cuore deve battere non è stato disegnato per il tuo corpo, quell’algoritmo avrà un impatto su di te.

google algoritmi

SC: Perché quando faccio una ricerca su Google relativa alle donne i risultati sono così pornificati? In special modo considerando che Google sta tenendo in conto la cronologia delle mie ricerche e i miei interessi? Io non ho mai cercato video porno o altre cose del genere.

LR: Sì. E’ proprio stressante. Quando cerchi la parola “donna”, la ricerca non si basa solo sui tuoi dati. Loro sanno che la stragrande maggioranza degli utenti che cercano la parola “donna” seguiranno link che portano alla pornografia.

SC: Molti risultati della ricerca di immagini per qualsiasi cosa riferita alle femmine sono, di base, pornografia soft. E anche se usi l’opzione “ricerca sicura” essa non ha alcun effetto su questo, neppure nel caso dei bambini quando cerchi il termine “ragazza” o “bambina”.

LR: E’ orrendo. Come adulti, noi possiamo razionalizzare la situazione e dire: “Okay, lo so che la pornografia è un enorme motore per Internet e tutte queste tecnologie.” Ma se sei una 12enne che usa Internet per la prima volta, tentando di trovare un videogame su Nancy Drew, le possibilità che tu veda accidentalmente pornografia sono estremamente alte, perché gli algoritmi hanno questo processo incorporato del tentare di ottimizzare gli utenti che seguono i link dei risultati, così come gli annunci pubblicitari. E la pornografia è un grande fattore chiave per gli affari.

SC: C’è il fatto che le compagnie commerciali guadagnano direttamente grazie agli algoritmi che promuovono sessismo e razzismo. Per esempio, di recente un gruppo di maschi ha stuprato una ragazzina di 15 anni e ha mandato la cosa in diretta su Facebook Live. Come accade per tutti i contenuti di FB, c’erano pubblicità sul sito, proprio accanto al video. Significa che FB stava traendo profitto dallo stupro.

LR: Si difendono dicendo che non controllano i contenuti, e questo è vero. Nessuno ha controllato e detto “Sì, questo video dovrebbe essere condiviso”. Ma, in effetti, è stata una decisione presa da un algoritmo, quella che il video apparisse nei feed di altri utenti: e più gente ci clicca sopra, più apparirà nei feed di altre persone, e in questo modo abbiamo l’effetto virale. E chiunque lo guardi vede le pubblicità, così la compagnia ne beneficia.

C’è un’ossessione per l’ottimizzazione negli algoritmi: alcuni sono così altamente ottimizzati che non c’è modo di uscire dal ciclo continuo del feedback. Prendendo ad esempio lo stupro diffuso in diretta, se una donna lo vede e lo riporta a FB e ci sono altri trenta uomini che in quello stesso momento lo stanno guardando e condividendo, l’algoritmo valuterà l’attività dei trenta uomini. Quando lo scopo commerciale è tenerti agganciato a un contenuto, c’è un inerente conflitto di interessi fra lo scopo e l’assicurarsi che il contenuto sia appropriato.

SC: Se qualcuno avesse salvato il video dello stupro diffuso in diretta su Facebook Live e lo avesse caricato da qualche altra parte, allora si troverebbe nei risultati delle ricerche su Google, e anche quest’ultimo ne profitterebbe?

LR: Sì: di base, starebbe su Internet per sempre. Immagini e video sono rispecchiati automaticamente sui server in giro per il mondo. Non è che ci sia un solo sito web e che tu puoi dire “per favore, togli questa roba” e la roba sparisce. La conversazione si complica, poi, perché molte organizzazioni che lottano per i diritti alla privacy su Internet sono finanziate da ditte che producono pornografia. Per esempio Porn Hub e YouPorn dichiarano di star lottando per la tua privacy online, implicando che nessuno dovrebbe venire a sapere che tipo di pornografia cerchi o guardi. E’ una strategia che usano per apparire sul lato etico della tecnologia e allinearsi alla sinistra, ai progressisti e al discorso sulla libertà di parola. Ma fanno questo, anche, per assicurarsi che noi si sia meno inclini a discutere di istanze importanti che riguardano l’etica della pornografia su Internet.

SC: E la quindicenne dello stupro in diretta su FB? Che ne è della sua privacy? Lei sembra scomparire quando gli algoritmi sono ottimizzati per promuovere la pornografia e la conversazione è centrata sulla privacy e la libertà di chi la pornografia la usa.

LR: La sua privacy scompare e c’è di più: quando una storia come questa viene alla luce, le ricerche su di essa sono spinte al massimo, il che traumatizza di nuovo le vittime.

SC: E più ci sono ricerche di un determinato contenuto, come lo stupro della ragazzina, questo significa che l’algoritmo apprenderà a promuoverlo ancora di più nei risultati delle ricerche, giusto?

LR: Giusto.

SC: Cosa possiamo fare per smettere di abbandonare a se stesse queste vittime?

LR: Cominciamo con il non vittimizzarle ulteriormente nelle tecnologie in espansione. Per esempio, gli algoritmi di riconoscimento facciale e i database relativo stanno diventando motivi di preoccupazione. L’attuale dibattito al proposito si concentra per lo più sulla criminalità e il diritto alla protesta. Per cui l’argomento sta diventando una tendenza dominante nelle discussioni, per una buona ragione e cioè che siamo preoccupati per la privacy e il diritto di associarsi liberamente.

Ma la macroscopica omissione in questa conversazione è l’impatto di tale tecnologia sulla pornografia e sulla cultura. Abbiamo due fronti di cui preoccuparci:

1) che il software per il riconoscimento facciale sia usato sulle vittime della pornografia per identificarle. In passato una donna poteva trovare una sua foto intima pubblicata senza il suo consenso, ma in modo anonimo. Con gli algoritmi per il riconoscimento facciale, sta diventando sempre più possibile identificarle qualcuno in un’immagine;

2) ho lavorato per una compagnia commerciale dove, all’epoca, ero l’unica impiegata di sesso femminile. E il nostro presidente era terribilmente esaltato all’idea di creare un’applicazione che avrebbe cercato pornostar basandosi su un’immagine che tu avresti fornito, tipo quella di un’amica, di una collega, di una sorella che un algoritmo avrebbe tentato di far combaciare con il database delle immagini delle pornostar. E nonostante io abbia detto: “Non dovremmo creare un’applicazione simile per nessun motivo.” la mia voce non è stata presa sul serio. C’è voluto che un altro maschio che lavorava là dicesse “Assolutamente no.” perché le mie preoccupazioni fossero ascoltate. Come usiamo la tecnologia è sempre una scelta.

SC: Le poste in gioco mi sembrano molto alte. Mi pare che stiamo parlando di seri pericoli per la privacy e la sicurezza delle donne.

LR: E’ così. Anche se tu usi precauzioni relative alla sicurezza online, i servizi che usi creano dati e questi dati possono essere utilizzati per identificarti: i tuoi network, con chi sei connessa online e come interagisci con tutto ciò.

SC: Ciò può essere pericoloso in special modo per una donna che sta tentando di sfuggire a molestie, a uno stalker, a un ex partner violento, giusto?

LR: Esattamente. Nel mondo della sicurezza, lo chiamano il “modello minaccia dell’ex fidanzato”. Quando pensiamo alla sicurezza online ci vengono in mente hacker e grandi agenzie governative. Ma la verità è che la più grande minaccia alla sicurezza online non è un hacker, ma qualcuno che conosci, come un ex partner o un violento. Questa è una minaccia che è stata presa seriamente da chi disegna sistemi di sicurezza, ma non dalla comunità che disegna algoritmi. Di recente ciò è venuto alla luce quando una giornalista, Ashley Feinberg, è stata in grado di rintracciare gli account Instagram e Twitter del direttore dell’FBI James Comey: lo ha fatto basandosi su chi lui seguiva e interagendo con le applicazioni.

Ciò significa che anche se hai bloccato lo stalker sull’applicazione, lui può eventualmente connettere i punti per identificarti tramite i dati di raccomandazioni e connessioni accessibili senza il tuo consenso negli algoritmi. Se ci pensi, uno dell’FBI dovrebbe avere tutte le risorse a disposizione per l’Internet più sicuro che ci sia, ma persino uno così è stato tracciabile. Pensa a che significa per una donna che sta solo cercando di distanziarsi da un ex che abusava di lei.

SC: Grazie per aver condiviso la tua opinione da esperta. C’è qualcosa che le donne possono fare per proteggere se stesse?

LR: Non voglio alimentare paure su Internet, tuttavia raccomando a tutte di osservare le basi per la sicurezza personale:

https://hackblossom.org/cybersecurity/

Ma il vero modo di cominciare a cambiare questa tecnologia è assicurarsi che noi tutte si sia coinvolte. Significa avere più conversazioni al proposito, imparare di più e prendere davvero sul serio il fatto che la tecnologia che usi ha impatto su di te e sul mondo attorno a te.

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(tratto da: “Ghana Code Club – Intervista a Ernestina Edem Appiah”, One International, gennaio 2016, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo)

Ernestina

Che cos’è esattamente il Ghana Code Club?

La tecnologia sta reinventando il mondo. I bambini hanno bisogno di nuove capacità per prepararsi alle loro carriere nel futuro, gli attuali programmi scolastici sull’informatica non li includono, il che è abbastanza allarmante. Qui è dove il Ghana Code Club entra in gioco. E’ un doposcuola del divertimento digitale condotto da volontarie/i per la fascia d’età fra gli 8 e i 17 anni. Abbiamo lavorato in cinque istituti e siamo pronti per intervenire in molte altre scuole del Ghana durante il primo quarto del 2016.

Quali eventi nella tua vita e carriera ti hanno condotta a creare il Ghana Code Club?

Ho sempre sognato di guidare una squadra di professionisti dell’informatica per creare soluzioni innovative per l’Africa. La passione è emersa mentre lavoravo come segretaria per un ditta informatica ad Accra, nel 2000. Ammiravo molto i consulenti informatici, soprattutto l’unica donna fra loro. All’epoca, il mio stipendio era un decimo del loro. Volevo iscrivermi a un corso per imparare l’HTML (il linguaggio standard per creare pagine web) ma i pochi soldi che guadagnavo li usavo per aver cura dei miei fratelli e sorelle. Invece di aspettare per sempre, ho deciso che avrei insegnato io a me stessa, in ogni modo possibile. Un disegnatore di siti web mi ha fornito le basi del linguaggio per un piccolo compenso. Io ho fatto pratica ogni volta in cui ne avevo la possibilità e dopo poche settimane stavo creando i miei siti.

Con più fiducia nelle mie abilità mi sono proposta come “assistente virtuale” a vari clienti e nel 2004 sono stata in grado di dare le dimissioni dal posto di segretaria, di affittare un ufficio e di assumere personale. Una semplice segretaria, che nessuno notava mai, era diventata una datrice di lavoro con clientela internazionale e ha pagato le tasse universitarie a cinque persone della sua famiglia: tutto perché avevo imparato nuove abilità.

Ero così grata e così felice che volevo fare qualcosa per migliorare la vita di altri con il tipo di cose mi avevano portata a quel punto. Ho registrato la mia ong, “Healthy Career Initiative”, nel 2007 con l’obiettivo di fornire agli studenti la formazione di cui hanno bisogno per vivere nel 21° secolo. All’inizio le cose sono andate un po’ lentamente, fra il mio grande carico di lavoro, il matrimonio e i miei figli. Ma un giorno, quando il mio primogenito aveva cinque anni, stavo cercando su internet una piattaforma di programmazione semplice per cominciare a insegnargli e mi sono imbattuta in un blog che tratta di bambini che apprendono l’informatica in Gran Bretagna: le cose che questi bambini facevano hanno riacceso il mio entusiasmo per la mia organizzazione. Di colpo, volevo che i bambini ghanesi fossero in grado di creare le stesse cose: storie interattive, siti web, giochi, animazioni. Immediatamente, ho messo insieme i piani e il Ghana Code Club è nato.

Qual è la parte migliore del tuo lavoro?

Essere in classe con in bambini e vederli orgogliosi di aver creato cose che possono essere usate da un’altra persona in qualsiasi parte del mondo. I loro sorrisi mi fanno sentire meravigliosamente e mi danno la speranza che questi bambini andranno avanti a sviluppare l’impronta digitale del Ghana e dell’Africa e avranno il loro impatto sul mondo intero.

Quali sono i tuoi obiettivi per il 2016?

Miriamo a lavorare in altre venti scuole entro i primi quattro mesi del 2016, raggiungendo così circa 20.000 bambini. Vorremmo anche organizzare un concorso fra scuole, per stimolare la creatività, la capacità di risolvere problemi e di collaborare. Poi vogliamo creare un centro di formazione che assista i bambini impoveriti, i quali vorrebbero partecipare ai nostri club ma per un verso o un altro sono impossibilitati a farlo.

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(Intervista a Sara Baker di Servane Mouazan per ForWomanity, settembre 2015, trad. Maria G. Di Rienzo. Sara è la coordinatrice globale di “Take Back the Tech! – Riprenditi la tecnologia!”, una campagna organizzata dall’Association for Progressive Communications, in sigla APC.)

baker

In che modo “Take Back the Tech!” ha avuto inizio e quale è stata la sua evoluzione?

Sara Baker (SB): L’APC ha un programma per i diritti delle donne che si concentra su molte aree differenti correlate a tecnologia e genere, e “Take Back the Tech!” è una di queste. E’ scaturita dai risultati delle ricerche dell’APC sull’accesso alla tecnologia e le esperienze con la tecnologia. E’ venuto fuori che c’era un problema reale, la violenza di genere veicolata dalla tecnologia che non veniva affrontata, in special modo a livello globale. “Take Back the Tech!” ha avuto inizio per incoraggiare donne e ragazze a riprendersi la tecnologia, a farla propria, a dire: “Ehi, anche noi abbiamo diritto di stare in questo spazio.” E’ cominciata come una campagna di collaborazione con persone di differenti paesi e da allora è cresciuta sino a contarne oltre 30. Noi vogliamo sul serio fomentare la discussione sull’accesso, sulla libertà d’espressione e la violenza contro le donne in tutto il mondo, ma un pochino di più nel sud globale, dove l’istanza è più urgente.

E’ straordinario vedere quant’è cresciuta la campagna e quanta attenzione ha ricevuto. L’anno scorso ci siamo concentrate sul settore privato, includendo piattaforme come Facebook e Twitter, tentando di far loro davvero capire le esperienze che le donne fanno sui loro siti. Ciò ha avuto un mucchio di attenzione dai media e a livello internazionale. Il soggetto è sul tavolo ora – è grandioso vedere gente, ai livelli più alti, che comincia a discuterne.

Dove si intersecano i mondi online e quelli offline quando si tratta di violenza di genere?

SB: Penso che la gente abbia questa idea in testa, che internet sia un mondo totalmente diverso da quello offline e ciò che accade online sia separato dal resto. Questo, semplicemente, non è vero. La linea di confine è spesso invisibile, non esistente o offuscata. Noi abbiamo il problema di far capire alle persone che la violenza online è violenza, non qualcosa di separato. Le norme di genere e le dinamiche derivate da potere diseguale che conducono alla violenza offline sono identiche, e a volte persino amplificate, online. Le persone possono subire violenza dallo stesso individuo online e offline. La tecnologia gioca un grosso ruolo nella violenza sulla partner intima tramite webcams, social media, il controllo dei cellulari – ci sono molti più sistemi di una volta.

Noi abbiamo una mappa a “Take Back the Tech!” dove le persone possono segnalare le violenze e là si vede come la linea fra online e offline si dissolve. La violenza online è solo un’altra forma di violenza psicologica. Influisce sulle vite quotidiane delle persone. Noi stiamo cercando di far capire come ciò che accade alle donne online è una parte del continuum della violenza.

Sembra che spesso coloro che hanno meno accesso alla tecnologia siano i più marginalizzati. Come l’accesso (o la mancanza dello stesso) entra in gioco negli sforzi per l’uso della tecnologia nell’aiutare più vittime?

SB: A confronto con gli uomini ci sono duecento milioni in meno di donne online. Anche quando le vittime di violenza non hanno accesso alla tecnologia possono diventare vittime tramite la tecnologia. Questo si vede di frequente con i cellulare usati per filmare o fotografare donne senza il loro consenso. “Take Back the Tech!” cerca di istruire le donne sulla sicurezza digitale affinché siano al sicuro quando hanno un accesso. Gestiamo anche FTX – Lo Scambio Tecnologico Femminista. Un mucchio di informatici possono non comprendere quanto impatto hanno gli elementi di genere sulla tecnologia e le attiviste per i diritti delle donne stanno facendo cose enormi, ma possono non sapere molto di come usare la tecnologia: questa iniziativa li fa incontrare affinché lavorino insieme.

take back the tech

Take Back the Tech!” è diventato un fulcro attorno a cui le persone si collegano e creano in modo inclusivo: come questo ha generato soluzioni?

SB: Le donne sono state escluse e discriminate nel mondo della tecnologia per molto tempo e coloro che ci si trovavano provavano una mancanza reale di sostegno. Io penso che quando fai in modo si mettano insieme ciò crei un sistema di sostegno, ci sono persone che stanno dando riconoscimento e nutrendo le loro idee, celebrando il ruolo delle donne nella tecnologia.

Molta gente vede la tecnologia come una cosa “mascolina” e quando noi stiamo insieme sfidiamo questo. E quando sfidiamo questo, sfidiamo anche le dinamiche che creano la violenza contro le donne. Tutte queste istanze sono interconnesse. Non possiamo affrontare la violenza contro le donne senza affrontare l’accesso o il ruolo delle donne nella tecnologia, o problemi con la governance di internet.

Che impatto ha avuto questo lavoro sul tuo personale viaggio come femminista?

SB: Quando ho cominciato a lavorare con l’APC, il mio retroscena era occuparmi di violenza di genere e sino a un certo punto capivo il ruolo che la tecnologia stava cominciando a giocare, ma non ero davvero una che sapeva tanto. Lavorare su “Take Back the Tech!” è stata un’esperienza straordinaria per me. Ho una conoscenza molto più profonda della tecnologia e dei suoi aspetti di genere. La tecnologia è parte delle nostre vite quotidiane – praticamente ogni minuto – e ora io comprendo come le questioni su cui lavoravo si manifestano online.

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Sai fare il caffè, vero?

(“Things My Male Tech Colleagues Have Actually Said to Me, Annotated”, di Cate Burlington, 1° aprile 2015, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Cose che i miei colleghi nel campo della tecnologia mi hanno detto davvero, commentate.

geek girls

“La maggior parte delle ragazze non si interessa a queste cose.”

Sul serio, hai la lista? La lista delle cose a cui le ragazze si interessano? E’ da sempre che la cerco, me la puoi girare? Hai la mia email. Grazie, uomo, sei il migliore.

“Ce l’hai fatta! Che bimba sveglia!”

Gli encomi che preferirei a “bimba sveglia” includono: inesorabile agente della distruzione, inconoscibile, campionessa reale. Accettabile, anche, governatrice pronunciato con accento cockney.

“Non ti dispiace se ti chiamiamo pollastra, vero?”

Non dico nulla, perché mi hai colpita. Lo hai scoperto. In effetti, io sono un collettivo socialista di 112 pulcini nascosti in un impermeabile. Maledetta la tua perspicacia.

“Come hai imparato a fare tutto questo?!”

L’antica dea-ragno Llorothaag è venuta a me in una visione intrisa di sangue. In cambio dell’eterno servizio come sua ancella, mi ha impartito la conoscenza dei processi di subnetting (“sottorete”).

“Non è politicamente corretto dire questo, però…”

Grazie per questa utile premessa: mi allerta sul fatto che posso passare i prossimi 30 secondi a fantasticare su Star Trek senza perdermi nulla di importante.

“Devi farne un sistema a prova di fidanzata.”

Mi immagino una folla turbolenta di fidanzate assassine che punta al tuo appartamento di Brooklyn, cercando di saziare il loro oscuro desiderio di carne viva. Fra urla e farfugliamenti si preparano a divorare tutto quel che c’è intorno. Tu blocchi la porta con le apparecchiature audio e video del tuo home theater system. Sia ringraziato Iddio: è a prova di fidanzata.

“Wow, sei forte fisicamente!”

Grazie. Mi sono allenata, una volta, nel 2006. C’è stata anche l’occasione in cui ho quasi fatto una flessione intera.

“No, quando mi lamento delle ragazze nell’informatica non intendo te. Tu sei una vera appassionata.”

Tutti ascoltino! L’Arbitro sta parlando. Nella sua saggezza, lui sa dire chi è una vera appassionata e chi è falsa, e specialmente chi è una cagna.

“Mi ha detto che avevamo una nuova pollastra calda a lavorare qui. Io ero tutto: davvero, grandioso.”

Il collettivo socialista dei 112 pulcini, sotto l’illusoria parvenza di umanità, sospira di sollievo per la tua frivolezza. Il nostro travestimento ha funzionato un altro giorno.

“Ma – tu sei davvero troppo gentile per essere lesbica!”

Se ti sembra che le altre lesbiche che hai incontrato ti abbiano trattato da stronze, potrei avere una teoria sul perché.

“Sai fare il caffè, vero?”

Tu hai intuito questo, senza alcun dubbio, dal fatto che io sono l’unica persona nell’intero dipartimento che non beve caffè. Non è in alcun modo in relazione al fatto che tutti gli altri esseri umani nella stanza sono uomini.

“Non deve avere tutte le caratteristiche; questa è la versione per mamme casalinghe.”

Il contatto con madri casalinghe ovviamente richiede speciale equipaggiamento e protocolli anti-contaminazione. Le madri casalinghe sono altamente infette. Non tentate di contattarne una a meno che non siate un professionista abilitato.

“Ah aha ah, quel tizio ha pensato tu fossi l’assistente di studio!”

Sul serio? Cribbio, che ilare incidente.

“Le donne stanno esagerando con questa storia della rappresentazione nei videogiochi. Intendo, datevi una calmata.”

Tu, ovviamente, sei un tizio sensibile, liberale e con senso di giustizia che non ha mai detto una cosa sessista in vita sua. Sai questo perché le ultime tre ragazze con cui sei uscito, tramite OKCupid, hanno vagamente annuito quando lo hai ribadito.

“Avvisami quando vuoi fare quello, di modo che io possa aiutarti. Senza offesa, ma non ne sai ancora abbastanza per tentare da sola.”

E cosa può mai esserci di offensivo, nella tua asserzione che io sono incapace di usare alcune competenze di base della nostra professione senza la tua supervisione?

“Avevo questa “capa” femmina, una volta, e so che non dovrei dirlo, ma capivo sempre quando era quel periodo del mese.

Sono molto spiacente. Le offerte mensili che Llorothaag ci richiede sotto la turgida luna piena sono troppo orrende per la comprensione di menti mortali. Le grida. L’odore mefitico. I globi gelatinosi di intestini in frattaglie che punteggiano il terreno inzuppato di rosso. Tu non avresti dovuto venire a conoscenza del Periodo del Mese. Persino io sopporto a stento di ricordarlo.

“Vedi, questa è la cosa bella di te: posso dire barzellette offensive con te vicina e non te ne importa niente.”

Non è esattamente che non mi importi, è più che sto mantenendo una facciata stoica per nascondere il mio elaborato piano di vendetta. Come vedi, il piano inizia con il farmi beffe di te su internet.

“Tu e mia moglie potreste lottare nude nel fango.”

Potremmo? Potremmo?? Noi… potremmo? POTREMMO. NOI.

“Tu sei femmina, ma non sei proprio femmina-femmina, mi capisci?”

Al prossimo ritorno di Llorothaag, tu sarai il primo sacrificio che le offrirò sul suo altare profano.

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Lili Loofbourow, critica d’arte, è stata ospite per qualche giorno sul set di “Orphan Black”. Il 2 aprile 2015 ha pubblicato un lunghissimo pezzo al proposito, intitolato “I molti volti di Tatiana Maslany”. Eccone qualche significativo estratto. (Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo)

Tatiana

“Orphan Black”, fra il materiale del suo soggetto, ha il dibattito natura/cultura nella biologia, ma nel modo in cui lo show lo svolge la domanda si estende in modo intelligente alle questioni di genere. Che aspetto ha la medesima donna cresciuta in modi differenti (dal set di “Desperate Housewives” a quello di un film horror nell’Europa dell’est)? Il risultato è una rivelazione: invece del singolo archetipo esistente come personaggio femminile solitario nel proprio universo, questi tropi normalmente isolati si trovano l’un l’altro, fanno gruppo e cercano di liberarsi dal sistema malvagio che li ha creati.

Strutturando la storia attorno alle differenze fra i cloni, “Orphan Black” sembra suggerire che gli archetipi femminili esistenti devono morire. All’inizio, nella prima stagione, c’è un serial killer che dà la caccia ai cloni – si rivelerà essere Helena, la clone ucraina – e che ritualisticamente smembra bambole Barbie dopo aver tinto loro i capelli affinché corrispondano a quelli della prossima vittima. E’ un tocco raccapricciante, ma può anche essere letto come metacritica del modo in cui le donne sono usate in televisione: i punitivi standard di bellezza a cui devono attenersi, l’uniformità imposta (avete bisogno di una nuova moglie da sitcom? Prendete il prototipo e cambiate l’acconciatura dei capelli). La bassa tolleranza per le differenze fra i personaggi femminili significa che essi saranno sempre meno interessanti, meno memorabili e meno amati delle loro controparti maschili. In tal contesto, Helena diventa una sorta di eroina che, facendo una carneficina della conformità televisiva, costituisce in ambo la sua selvatichezza e il suo calore una radicale espansione di cosa le donne in televisione possono essere. Ed ogni personaggio, inclusa la clone criminale e folle, riceve considerevole attenzione e rispetto.

Dichiaratamente, la storia di come le cloni si trovano l’un l’altra e fanno gruppo per lottare contro una serie di minacce sempre più gravi, riguarda la violenta intersezione fra tecnologia e volontà femminile. La questione che sta al centro dello show è se i cloni hanno libero arbitrio e diritto di condurre esistenze normali, o se hanno valore solo come soggetti di un esperimento che devono essere monitorati, ingravidati, sterilizzati e gestiti. “E’ un tema molto connesso alle istanze femministe. – mi ha detto uno dei creatori della serie, Graeme Manson – A chi appartieni, a chi appartiene il tuo corpo, la tua biologia? Chi controlla la riproduzione?”

***

Non accade spesso che si possa chiedere alle persone com’è il diventare famose mentre stanno diventando famose. Così ho chiesto. Maslany ha espresso qualche ambivalenza rispetto al modo in cui la fama produce richieste, specialmente nell’era dei social media. “La gente semplicemente vuole vuole vuole roba.”, ha detto. Ci sono spettacoli di premiazione, tappeti rossi; lei apprezza tutto questo, ma sta molto attenta che ciò non la controlli. “Tu esisti anche senza questa roba. Non è che questa roba ti definisca o qualcosa del genere.” Maslany ha sottolineato che i suoi personaggi in “Orphan Black” devono maneggiare la scoperta di essere, in un certo senso, di proprietà e anche loro rifiutano di lasciarsi definire da questo. “Ciò entra in risonanza con me, come donna.”, aveva già detto in un’intervista a Vanity Fair, “L’idea che i nostri corpi non ci appartengano. Che siano di proprietà di qualcun altro. Che la loro immagine appartenga a qualcun altro.”

Maslany ha sfilato sul tappeto rosso dei SAG Awards (Ndt: premi conferiti dalla Screen Actors Guild – Gilda degli attori dello schermo, sindacato che rappresenta oltre 150.000 attori/attrici di cinema e tv) vestita a puntino e piena di stile sino ai denti. Sorrideva luminosamente. I suoi fans l’hanno acclamata in modo gioioso su Twitter. Ma quando Maria Menounos l’ha invitata ad usare la mani-cam per mettere in mostra le sue unghie e i suoi gioielli (un invito che alcune attrici hanno rifiutato, trovandolo sessista), lei ha candidamente confessato che non si era fatta fare le unghie: ha infilato la mano priva di manicure nella mani-cam e ha dato alla camera da presa un pollice alto, nascondendo le unghie. Un colpo brillante, gentilmente servito… Maslany è una femminista impenitente.

mano tatiana

P.S. A quest’ora saprete già che il prossimo film di Tatiana è “Woman in gold”, dove interpreta la sopravvissuta all’Olocausto Maria Altmann da giovane. Potreste invece non sapere che nel 2010 fu la protagonista femminile di uno sceneggiato BBC in quattro puntate, di grande successo, intitolato “La Natività”. Ehm, sì, faceva Maria di Nazareth. La vicenda copre il periodo dell’incontro e dello svilupparsi della relazione fra Maria e Giuseppe e termina alla nascita di Gesù. Tatiana, al proposito, ha detto ridendo a Lili Loofbourow: “Ho saltato le mestruazioni quando sono tornata a casa. Mi è successo questa sola volta in tutta la vita. Rispetto al ruolo, mi sentivo come se non meritassi la parte, mi sembrava troppo grande per me. Ma penso che questa sensazione a volte possa essere utile, quando dici: Ok, magari è proprio così che il personaggio si sente. Maria non ha la sensazione di meritare quest’enorme cosa che le è stata data. Si sente un’impostora, perché non è una santa, è solo un essere umano.”

nativity

P.P.S. L’ho detto che la terza serie di “Orphan Black” comincia il prossimo 18 aprile? Ok, adesso l’ho detto. Fremente conto alla rovescia: meno 11.

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(tratto da: “Building a Feminist Internet” una più ampia intervista a Jac sm Kee per Global Fund for Women, intervistatrice non segnalata, trad. Maria G. Di Rienzo. Jac è un’attivista femminista, una poeta e una scrittrice. E’ anche la responsabile del Programma per i Diritti delle Donne dell’Association for Progressive Communications – http://www.apc.org – nonché la fondatrice di Kryss, associazione che lavora con i giovani su sessualità e diritti in Malesia e la co-direttrice del Centro malese per il giornalismo indipendente.)

Jac

Tu sei stata profondamente coinvolta in varie iniziative, in Malesia e in tutto il mondo, che trattavano delle intersezioni fra diritti umani, media, tecnologia e identità, specialmente riguardo a genere, sessualità, etnia e religione. Cosa ti ha spinto ad iniziare questo tipo di lavoro?

Vedo la crescente prevalenza ed enfasi di Internet in ogni aspetto delle nostre vite. Dall’innamorarsi al chiedere trasparenza ai nostri governi, sta diventando parte del tessuto della nostra vita quotidiana sociale, politica, economica e culturale. Non è solo un attrezzo inerte che usiamo quando abbiamo accesso ad esso, ma uno spazio dove cose accadono, dove identità sono costruite, norme reificate o distrutte, intraprese azioni e attività. Come tale, non può che essere uno spazio intersezionale, dove molte cose collidono o si connettono.

Genere, sessualità, etnia e religione sono alcuni dei più importanti marchi di potere e identità, soprattutto per me che sono una femminista malese. Io vedo il potenziale trasformativo che Internet ha nell’abilitare più persone, in special modo quelle che hanno scarso accesso ad altri tipi di spazi “pubblici” a causa della diseguaglianza e della discriminazione, ad impegnarsi nella negoziazione di tali marchi: che senso hanno, a che valori sono collegati, quali sono le relazioni di potere ad essi correlate.

Attualmente sei la responsabile del Programma Diritti delle Donne dell’Association for Progressive Communications (APC). Cosa fa l’APC? E cos’è il Programma per i Diritti delle Donne?

L’APC è stata una delle prime organizzazione a guardare alle connessioni fra accesso ad Internet e giustizia sociale. Lavoriamo con gruppi e partner in diverse parti del mondo per promuovere l’accesso semplice e sostenibile ad un Internet libero e aperto a tutte le persone per il miglioramento delle loro vite e la creazione di un mondo più giusto.

Il Programma per i Diritti delle Donne cominciò nel 1993 come rete di donne, provenienti da diverse parti del mondo, impegnate nell’uso dell’informazione e delle tecnologie di comunicazione (ICT) per l’avanzamento delle donne. Ebbe inizio come gruppo di 175 donne, esperte informatiche, attiviste su questioni di genere ed ICT, da 35 differenti paesi, ed è oggi una delle due aree chiave di programma all’interno dell’Associazione.

Costruiamo la capacità di usare Internet in modo strategico e sicuro per movimenti delle donne, attiviste e organizzazioni, nel loro lavoro pro diritti delle donne facendo nel contempo di Internet uno spazio femminista e politico. Miriamo ad informare le aspettative e le conversazioni su genere e tecnologia tramite la ricerca, la creazione di contenuti e politiche specifiche: riconosciamo come la tecnologia possa riflettere, aumentare o amplificare le relazioni di potere. Lavoriamo per usare quest’enorme capacità trasformativa a vantaggio del rafforzamento dei movimenti femministi e per l’avanzamento dei diritti delle donne.

A che punto nella tua carriera hai visto la relazione fra genere e tecnologia?

E’ stato ad uno dei primissimi seminari a cui ho partecipato (che per inciso era stato organizzato dal Programma per i Diritti delle Donne dell’APC) sull’uso strategico delle ICT da parte dei gruppi per i diritti delle donne. Una delle trainer, Pi Villanueva, ci fornì una presentazione sullo sviluppo storico di Internet e dei computer. Parlò delle donne iniziatrici in questo campo e dimenticate, come Ada Lovelace e Grace Hopper, e io capii per la prima volta che Internet non era neutro, che era politico e segnato dal genere come ogni altra dimensione della nostra vita. Fu una folgorazione. E da allora, ho fatto di ciò una delle aree chiave del mio attivismo.

Come sarebbe un “internet femminista”, secondo te?

Non c’è una risposta breve, ma per cominciare è quello spazio aperto e trasformativo dove ognuna di noi ha universale, eguale e significativo accesso per l’esercizio dei propri diritti, per giocare, per creare, per formare comunità, per organizzarsi per il cambiamento, in piena libertà e piacere.

Ci sono stati di recente dei casi clamorosi di molestie e violenze online contro le donne, come la faccenda di GamerGate e le minacce ad Anita Sarkeesian. Il tuo lavoro con l’APC è direttamente collegato alla privacy digitale e alla sicurezza contro la violenza di genere online. Che tipo di lavoro pensi sia necessario per creare spazi migliori per le donne, in cui possano davvero creare, trasformare ed esprimersi online?

Proprio come per l’impegno globale a mettere fine alla violenza contro le donne in senso più ampio, la questione richiede strategie multiple e agite di concerto da più parti differenti. Inizia con l’aumentare l’accesso consapevole e le capacità di donne e ragazze nell’usare Internet, di modo che non si sentano diffidenti al proposito o si vedano come meno capaci a livello tecnico o “naturalmente” non appartenenti a questo campo: che è il retroscena di sostegno alla violenza online contro le donne.

Dobbiamo anche rafforzare le capacità delle organizzazioni per i diritti delle donne – che fanno un così splendido lavoro nel contrastare la violenza – ad analizzare e integrare il modo in cui Internet ha un impatto sul loro lavoro e sulle loro strategie. I governi devono includere la violenza online contro le donne nei loro piani per mettere fine alla violenza di genere nel suo complesso, e vedere questo problema come una barriera posta fra donne e ragazze ed il pieno esercizio dei loro diritti umani.

Le compagnie dei social media, dove la maggior parte delle violenze accadano, devono intraprendere passi pro-attivi per assicurarsi che i loro spazi non abilitino tali azioni. Ciò significa anche prendere una posizione chiara e forte sui diritti umani, essere trasparenti sulle loro politiche e sul modo in cui sono portate avanti, provvedere addestramento adeguato al loro staff sulla questione e, importantissimo, coinvolgere i movimenti delle donne e le attiviste dalle varie parti del mondo nella discussione.

La parte più dura è cambiare la cultura della tecnologia: la violenza online contro le donne è un’aperta espressione della discriminazione di genere e della diseguaglianza che esistono offline. Online, diventano amplificate. Il modo più importante di spostare questo è abilitare donne e ragazze al maneggio di Internet ad ogni livello: uso, creazione, sviluppo, immaginazione su come dovrebbe e potrebbe essere.

Cosa c’è nel futuro per l’APC, il tuo lavoro e l’Internet femminista? Se le donne e le ragazze potessero esprimere liberamente se stesse e far richieste per se stesse online, senza danno, in che modo il mondo sarebbe diverso?

Una delle cose eccitanti che abbiamo sviluppato quest’anno sono i Principi Femministi di Internet – http://www.genderit.org/node/4097/

Assieme ad attiviste, scrittrici e pensatrici dai movimenti per i diritti su Internet, i movimenti queer e per i diritti delle donne, siamo state in grado di articolare una serie di principi e idee che dovrebbero far da cornice ad un Internet femminista. Intendiamo usarlo come documento “vivente”, per interagire con movimenti delle donne su larga scala.

I movimenti delle donne sono di solito assai abili nel dire cosa non vogliamo; questo documento è di speciale valore perché dice con chiarezza cosa vogliamo. Invece di iniziare dalla prospettiva del rischio e del pericolo, ci piacerebbe cominciare a lavorare dal punto fermo del rafforzamento della resistenza dei movimenti delle donne. Vogliamo ottenere controllo su come possiamo usare, modellare e definire il significato della tecnologia nelle nostre vite e su come la tecnologia possa creare spazi per la trasformazione e la figurazione di un mondo “radicale” dove genere, sessualità e identità non siano cause di discriminazione e violenza, ma di celebrazione, eguaglianza e potere collettivo condiviso.

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