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MADRE – www.madre.org  – è un’organizzazione nonprofit internazionale che lavora per l’avanzamento dei diritti umani delle donne rispondendo ai bisogni urgenti delle comunità e costruendo soluzioni durature alle crisi. La lettera seguente è un esempio di come ciò avviene tramite la connessione fra gruppi locali e gruppi affiliati a MADRE. (22.11.2011, trad. Maria G. Di Rienzo)

Alle nostre sorelle di Womankind Kenya:

siamo con voi in questo periodo di tragedia e durezza. Come coltivatrici del Sudan, sappiamo bene cosa significa aspettare mesi che cada la pioggia e vedere i nostri bambini sempre più affamati. Ogni anno, quando piantiamo le sementi, le nostre famiglie dipendono da noi. Senza pioggia non abbiamo raccolto, non abbiamo nulla.

Abbiamo creato il Sindacato delle lavoratrici rurali di modo da sostenerci l’una con l’altra. Prima di ciò, il governo non riconosceva l’esistenza delle contadine e dava attrezzi, sementi e istruzione solo agli uomini. Perciò ci siamo unite per condividere le nostre risorse e chiedere al governo di rispettare i nostri diritti.

Nel Sudan orientale dove noi viviamo, l’agricoltura è sempre stata parte delle nostre vite. Ma di recente le siccità sono diventate peggiori, e accadono più spesso. Abbiamo dovuto adattare a ciò il nostro modo di coltivare. La causa di questo è il cambiamento climatico, un pericolo creato principalmente dai paesi ricchi.

Le nostre amiche di MADRE ci hanno aiutato durante gli anni, sia quando i raccolti erano buoni sia quando non pioveva. Ci hanno detto che molte donne somale e le loro famiglie si stanno rifugiando in Kenya. Ci hanno detto che avete bisogno di risorse d’emergenza, per comprare loro cibo e acqua e aiutarle a sopravvivere.

Perciò vi mandiamo il denaro che abbiamo risparmiato dopo il nostro ultimo raccolto. Di solito, usiamo questi risparmi per apportare miglioramenti alle nostre comunità. L’anno scorso abbiamo dato un tetto alla scuola locale.

Ma quest’anno i vostri bisogni sono più grandi dei nostri. Siamo in grado di mandarvi questo denaro perché ci siamo unite come lavoratrici rurali e siamo diventate più forti. Speriamo che potrete usarlo per nutrire i vostri bambini e per diventare più forti come donne.

Ve lo mandiamo con le nostre benedizioni. Poiché siamo madri e coltivatrici, il futuro dipende da noi.

In solidarietà, Fatima Ahmed, Direttrice del gruppo “Zenab for Women in Development” e leader del Sindacato delle lavoratrici rurali.

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Il vento del cambiamento ha cominciato a soffiare in Tunisia, ma poi si è diffuso in Egitto, Libia, Yemen, Algeria, Sudan, Bahrain, Siria… e voci di donne cantano nel vento.

 

“Le donne tunisine hanno partecipato ad ogni singola manifestazione prima e dopo la caduta del regime di Ben Ali, cercando un ruolo nuovo per il futuro e tentando di ottenere che le loro voci fossero ascoltate.”, dice Hedia, quarant’anni, responsabile della raccolta dati per il Centro di istruzione e ricerca delle donne arabe in Tunisia, “Rappresentano generazioni diverse ed hanno retroscena molto differenti, ma c’erano tutte, quelle con l’hijab e quelle con la minigonna. C’è una consapevolezza molto alta, fra le donne, del fatto che dovremmo muoverci per non essere escluse o marginalizzate. Nonostante l’intensa partecipazione alle proteste, la presenza delle donne nel primo e nel secondo governo provvisorio che si sono formati non la riflette.”

Le fa eco l’attivista egiziana Amal Sharaf, insegnante d’inglese 36enne: “Metà delle persone presenti in Piazza Tahrir erano donne. C’è una generale richiesta, nell’opinione pubblica, di partecipazione collettiva alla politica, perciò anche le donne devono farne parte. Mia madre mi ha detto per anni di star lontana dalla politica, perché secondo lei ci avrei guadagnato solo dei mal di testa, ma oggi la sua prospettiva è cambiata: Stai attenta alla controrivoluzione, mi dice un po’ scherzando e un po’ sul serio.”

Nel frattempo, le siriane mettono le mani avanti: “Il nostro motto è “Per una società libera dalla violenza e dalla discriminazione”, perciò condanniamo l’uso della violenza da qualunque parte arrivi. Il governo dev’essere responsabile per le azioni delle sue forze di sicurezza, non solo con la retorica, ma attraverso un’indagine reale e trasparente che riguardi chiunque agisca in modo violento. L’uso o persino la minaccia della violenza da parte dei manifestanti è anche per noi interamente inaccettabile. Il fine non giustifica i mezzi. Il nostro scopo è una cittadinanza autentica, che contrasti ogni uso di violenza o divisione etnica e tribale. Diamo il benvenuto ad ogni progresso nella pratica della cittadinanza, perché crediamo che essa aiuti la causa della nonviolenza e le istanze relative alle donne, ai bambini ed alle persone in difficoltà. Infine, condanniamo nel modo più assoluto ogni persona o gruppo che impieghi retorica settaria, etnica o tribale: confinarsi in tali identità ristrette va contro l’aspirazione di ogni cittadino e cittadina siriani che vogliono godere del loro diritto fondamentale all’eguaglianza, eguaglianza di diritti e di doveri, al di là della razza, della religione, del genere o di ogni considerazione discriminatoria.” (tratto dal comunicato dell’Osservatorio delle donne siriane, 23.3.2011)

Un’altra Amal (Basha), yemenita del Forum delle sorelle arabe per i diritti umani, sembra avere la stessa visione: “Una vera democrazia significherà necessariamente eguali diritti ed eguale partecipazione per uomini e donne. Alle donne nel nostro paese non è permesso prender parte alle decisioni, non sono riconosciute come uguali esseri umani e non sono nei posti dove meriterebbero di essere per capacità e qualifiche. La discriminazione è il nostro grande problema: verso le donne, fra uomini, fra nord e sud del paese. Quel che c’è di positivo nel movimento in Yemen è che la chiamata al cambiamento ha unito le persone da nord a sud. In questo momento, tutti gli yemeniti vogliono un cambiamento. Le richieste di separazione da parte del sud del paese sono cessate. La richiesta è la stessa da parte di tutti: cambiamento, cambiare il regime, cambiare il sistema. Un paese moderno, rispetto per la legge, una Costituzione che rifletta la volontà del popolo ed assicuri il bilanciamento fra i vari poteri: questo è ciò che la gente chiede, metter fine all’oppressione, alla carcerazione di migliaia di persone, e all’uso della guerra come mezzo per risolvere i problemi.”

Amal Basha, assieme ad una ventina di organizzazioni di volontariato, organizza l’assistenza alle manifestazioni pacifiche, composte per la maggioranza di studenti: hanno creato comitati per la salute, per il coordinamento fra dimostranti, per l’informazione, per la protezione dalla violenza. Amal è un po’ preoccupata dalla scarsa visibilità internazionale della protesta: “La comunità internazionale non deve tacere su quel che accade in Yemen. La gente in Libia ha dovuto fronteggiare una repressione brutale e non vogliamo che quel che sta succedendo in Libia succeda anche a noi.”

Attenta agli sviluppi nei vari paesi arabi è anche la tunisina Hedia: “Al di là di quel che sarà il risultato delle proteste in ogni nazione o di che impatto la partecipazione delle donne ha ora, il vero indicatore sarà quanto la loro partecipazione nel fare la storia si rifletterà nel partecipare dopo al processo decisionale. Questa è la cosa più importante, ciò che verrà.”

Maria G. Di Rienzo

(Fonti: Gulf News, Women Living Under Muslim Laws, The Guardian, Syrian Women Observatory, Sisters’ Arab Forum for Human Rights)

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(Fonti: Sudan Democracy First Group, Women living under muslim laws, Awid)

Durante gennaio e febbraio i cittadini sudanesi hanno chiesto conto al partito di governo della continua guerra nel Darfur, della secessione del sud del paese, della corruzione e del nepotismo ampiamente diffusi, dell’assenza di giustizia e trasparenza, dell’incitamento all’odio e alle divisioni, delle crescenti povertà e disoccupazione, dell’economia a rotoli. Le donne, in particolare, hanno chiesto la fine dei crimini basati sull’odio di genere: stupri, abusi sessuali, discriminazioni. Le loro parole d’ordine erano pace, democrazia, diritti umani, giustizia. Ecco le risposte che hanno ricevuto:

Samah Mohammed Adam (30 gennaio 2011)

Attivista politica, è stata arrestata mentre prendeva parte ad una manifestazione il 30 gennaio. E’ stata spinta a forza dentro un furgone che conteneva circa 14 membri delle forze di sicurezza. Mentre veniva strattonata e malmenata, uno dei presenti le ha strappato la blusa, lasciandola quasi a seno scoperto. Stringendola a sé, le ha chiesto come mai non voleva quel che stava accadendo: non era per quello che era uscita per strada? Samah ha cercato disperatamente di tenere insieme i brandelli della sua camicia, e di coprirsi il petto con il fazzoletto da testa. Ha urlato e pianto per tutto il tempo che è stata tenuta nel furgone, temendo che sarebbe stata stuprata.

Najat Al Haj (2 febbraio 2011)

Najat è una delle leader del Partito democratico unionista. E’ stata arrestata dopo aver preso parte ad un’assemblea. La sua testa è stata coperta con l’abito che lei indossava, ed un fucile le è stato puntato alla tempia mentre la si forzava a salire su un’automobile delle forze di sicurezza. Nella sede in cui è stata portata c’erano già quattro giornalisti, bendati ed allineati contro il muro mentre venivano interrogati tramite abusi verbali, umiliazioni e prese in giro.

Gli agenti della sicurezza nazionale che hanno perquisito la sua borsa hanno trovato le sue pillole anticoncezionali e ne hanno fatto un caso: “E’ così che puoi dormire fuori, la notte! Per te è normale, no? E adesso vai in giro con giovanotti muniti di preservativi! Ma dov’è tuo marito? Ah già, se avessi un marito non saresti qui adesso…” Najat è stata rilasciata nel bel mezzo della notte, perché a detta degli agenti sarebbe “abituata a tornare a casa ad ore simili”.

Marwa al Tijani (3 febbraio 2011)

Attivista del “Movimento della gioventù 30 gennaio”, è stata arrestata dopo la repressione delle proteste organizzate dagli studenti in piazza Aqrab a Bahri. Puntandole le pistole in volto, i membri delle forze di sicurezza l’hanno costretta a salire su una delle loro automobili. Dapprima detenuta negli uffici locali, è stata poi trasferita in un luogo che non è in grado di identificare. Si è trovata assieme ad altre 10 ragazze, costretta a sedere con loro sul pavimento mentre gli agenti le insultavano e le colpivano ripetutamente con fruste e bastoni. Marwa indossa abitualmente un “abaya” nero (un mantello che la copre completamente) che è stata costretta a togliersi affinché i suoi aguzzini potessero picchiarla meglio: “Non credevo potessero fare sul serio. L’ho tolto piangendo dall’umiliazione. Poi hanno cominciato a colpirmi sulla schiena e le gambe. Più singhiozzavo e più mi battevano. Ci minacciarono di metterci in prigione con le prostitute e di fotografarci assieme a loro per dimostrare alle nostre famiglie che figlie eravamo.” Marwa è stata anche accusata di avere una relazione sessuale con un collega d’università (anch’egli in stato d’arresto) e gli agenti si sono diffusi nell’insultarla fantasticando su tale relazione. Durante tutto il periodo in cui è stata prigioniera, torturata e minacciata, nessuno a chiesto a Marwa alcunché sulle dimostrazioni, sul suo ruolo di attivista eccetera.

Suad Abdallah Jumaa (10 febbraio 2011)

Attivista politica. E’ stata inseguita e costretta a scendere da un mezzo pubblico, forzato a fermarsi dalle forze di sicurezza. Portata negli uffici locali, è stata picchiata, insultata e minacciata poiché ha rifiutato di consegnare la scheda di memoria del suo cellulare. Rannicchiata in un angolo della stanza, con sette uomini attorno, Suad ha subito abusi fisici e verbali, con la minaccia dello stupro continuamente reiterata.

S.E. (13 febbraio 2011 – per rispetto della sua volontà il nome completo non compare)

E’ stata arrestata a Khartoum, alle 10.30 del mattino, per strada, dopo aver comprato carta e utensili per ufficio, ed è rimasta in stato di detenzione sino alle 10 di sera. Negli uffici dell’intelligence nazionale è stata picchiata su ogni singola parte del corpo; l’interrogatorio verteva sul suo aver distribuito volantini durante le manifestazioni. E’ stata costretta a spogliarsi mentre veniva picchiata. A causa del pestaggio è svenuta, e si è risvegliata mentre uno degli agenti la stava violentando.

Asmaa Hassan Al Turabi, durante una conferenza stampa organizzata dal “Partito popolare del congresso” il 16 febbraio 2011, ha testimoniato sui modi in cui le manifestazioni pacifiche e silenziose delle donne sono state disperse e represse. Durante una di queste marce, i membri della sicurezza nazionale hanno spogliato Asmaa per strada quasi completamente.

 

 

(Sarah Cleto Rial, il cui volto illustra questo articolo, è una donna del Sudan del sud che ha ricevuto il premio “Eleanor Roosevelt per i diritti umani” nel dicembre 2010. “Il mio impegno come attivista è cominciato quando ero studentessa, diciassettenne, a Khartoum. Quell’anno fui arrestata per come mi vestivo. Fui portata in giro su un furgone aperto, per tutta la città, mentre la gente mi tirava cose addosso, e poi in tribunale, dove fui interrogata e umiliata. Molte altre donne hanno sofferto ben di peggio. Da allora, per 25 anni, mi sono occupata delle vite delle persone marginalizzate in Sudan, assicurandomi soprattutto che le voci delle donne non andassero perdute.”)

Maria G. Di Rienzo

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(di Nagla Seed Ahmed. “citizen journalist” sudanese, 14.1.2011. L’autrice usa la sua videocamera per esporre gli abusi dei diritti umani in Sudan. Arrestata durante le dimostrazioni anti-fustigazione del dicembre scorso, Nagla Seed Ahmed è riuscita a produrre un video della sua carcerazione assieme ad altre 49 dimostranti imprigionate. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

La prima volta in cui guardai il video, che cominciò a circolare in dicembre, di una giovane donna sudanese impietosamente fustigata in pubblico, potevo sentire come la frusta stava tagliando la sua carne. Vedere la scena ha riportato in superficie i ricordi della mia stessa dolorosa esperienza.

Dieci anni fa, sono stata frustata per aver partecipato ad una manifestazione di protesta. Era il mio compleanno, un momento in cui avrei dovuto essere gioiosa e inondata di regali. Invece fui punita perché avevo rifiutato di rimanere in silenzio mentre gli studenti delle scuole superiori erano inviati nelle zone di guerra del Sudan del sud, a perdere le loro vite per un’ideologia con cui non avevano niente a che fare. Non dimenticherò mai il suono che la frusta produceva mentre scendeva a colpirmi la schiena.

Quando vidi la medesima brutalità scatenata contro un’altra donna, seppi che dovevo agire. Il 14 dicembre 2010 mi unii ad altre 150 attiviste ed attivisti durante una protesta pacifica a Khartoum. Sebbene ci picchiassero ed arrestassero 50 di noi, restammo saldi. Prima di essere trascinato via dalle forze di sicurezza, un uomo gridò: “Umiliare una donna è umiliare l’intera nazione.” E questa è la ragione per cui ci trovavamo tutti là.

Le donne sono state soggette alla fustigazione prevista dal codice penale sudanese sin dal 1991. Nel 2008, il capo della polizia riportò che 43.000 donne erano state fustigate solo quell’anno. Non è mai stato chiarito di quale crimine fosse accusata la donna del video di YouTube, ma i poliziotti che si vedono nel filmato fanno riferimento ad una legge sull’ordine pubblico che concerne la prostituzione. Io credo che il governo del Sudan abbia in mente di riportare le donne all’era dell’harem. Le donne del mio paese a volte vengono battute perché protestano contro il regime, e a volte diventano bersagli perché indossano abiti “provocanti”. Nel 2009, il mondo notò la vicenda della giornalista Lubna Hussein: arrestata, accusata di “indecenza” e minacciata da una sentenza di quaranta frustate perché indossava pantaloni.

La fustigazione è un abuso dei diritti umani ed una violazione diretta dell’Articolo 5 della “Carta africana dei diritti umani e dei diritti dei popoli”, un documento che protegge gli individui da “tutte le forme di sfruttamento e degrado” e nello specifico proibisce “la tortura e le punizioni crudeli, disumane o degradanti.” Ma il regime lo ignora. Frustare qualcuno ferisce la vittima anche psicologicamente. In Sudan è difficile per una vittima parlare delle proprie esperienze, perché spesso la sua stessa comunità la isola, marchiandola come “indecente”. Lei e la sua famiglia possono dover sopportare lo stigma per il resto delle loro vite. Nonostante io abbia una famiglia che mi sostiene, ed un marito che ha pagato la mia multa affinché non dovessi restare in prigione, è ancora difficoltoso per me parlarne. Questo è il motivo per cui la maggioranza delle vittime resta in silenzio.

Già da tempo, però, io ho fatto la scelta di non restare zitta. Come cittadina giornalista ho ormai prodotto più di 2.000 video che mettono in luce le ingiustizie della società in cui vivo, ed in special modo le brutalità dirette contro le donne. Sebbene questo faccia di me un bersaglio, non esco mai di casa senza la videocamera. Nel 2009, mi sono unita al gruppo “Iniziativa delle donne contro la violenza”, che era formato da attivisti che seguivano la vicenda di Lubna Hussein. Ho contribuito a svelare le storie simili a quella di Lubna, fra cui quella di Silva Kashif, una minorenne che ha ricevuto 50 frustate per aver indossato una gonna giudicata “provocante” dalle autorità.

Come risultato della pressione internazionale, la fustigazione di Lubna è stata commutata in una multa. Quando ella rifiutò di pagare, l’Unione sudanese dei giornalisti ha pagato per lei ed ha assicurato il suo rilascio. La storia di Lubna Hussein ha gettato un sasso in uno stagno altrimenti fermo: il suo coraggio di fronte all’ingiustizia continua a produrre onde. Ha ribaltato la questione sul comportamento delle autorità ed ha portato l’attenzione internazionale sulla situazione delle donne in Sudan.

Mentre mi avvicinavo al luogo designato per la manifestazione, il 14 dicembre scorso, sentivo che la cosa aveva il significato di un momento storico per le donne sudanesi. Decisi che avrei resistito sino alla fine e documentato quel momento con ogni mezzo. Sapevo quel che ci aspettava. Immediatamente dopo l’apparizione del video della fustigazione, l’“Iniziativa delle donne contro la violenza” aveva chiesto un incontro con i partiti politici, i rappresentanti nelle istituzioni, la società civile ed i gruppi di donne per pianificare l’azione. Ajras al-Hurriya, un quotidiano stampato in arabo, aveva acconsentito ad ospitare l’incontro, ma ritirò la sua disponibilità a causa delle pressioni subite. Abdel-Basit Merghani, direttore del “Centro Al-Fanar”, un’organizzazione volontaria pro diritti umani con sede a Khartoum, ospitò diversi incontri, ma dopo due giorni di interrogatorio da parte del NISS (Servizi nazionali di sicurezza e controspionaggio) fu arrestato, ed alla sua famiglia fu impedito di fargli visita. Mentre scrivo, il sig. Abdel-Basit Merghani è ancora prigioniero.

Quando arrivammo al luogo della manifestazione c’era già un forte presenza delle forze di sicurezza. C’erano agenti in uniforme blu e agenti in borghese, tutti armati con vari tipi di bastoni e manganelli. Ci ordinarono subito di andar via, ma noi spiegammo che ci eravamo riuniti pacificamente per poter consegnare un memorandum al Ministro della giustizia. Gli agenti del NISS permisero a due sole donne di andare a consegnare il documento, così il resto di noi rimase ad attenderle. Quando gli agenti tentarono di disperderci gridammo “Donne, state giù!”, così sedemmo tutte e rifiutammo di andarcene. Vidi un agente intimare ad una donna anziana di andarsene. Quando lei rifiutò, la trascinò con violenza sino ad un furgone aperto e la lanciò all’interno, ignorando le sue grida. Poi il personale della sicurezza e la polizia ci attaccarono insieme. La prima ad essere portata via fu Ustaza Aziza al- Zaibaq, la leader dell’Unione delle donne sudanesi. Come se volessero vendicarsi del ruolo da pioniera che quest’organizzazione ha giocato nell’emancipare le donne del Sudan, Aziza fu gettata nel furgone aperto come un animale macellato. Ogni donna presente è stata picchiata e insultata.

Le forze di sicurezza hanno impedito ai corrispondenti dell’agenzia di stampa Reuters di avvicinarsi, ed ho visto con i miei occhi il momento in cui hanno preso a pugni un corrispondente della BBC, gettandolo a terra, mentre tentava di fare un servizio sulla situazione. Sequestrarono il suo equipaggiamento e cancellarono tutto quel che aveva filmato prima di restituirglielo. Anche la mia videocamera fu confiscata. Io ero fra le 46 donne e i 4 uomini che furono arrestati e costretti a salire nei furgoni del NISS. Per tutta la strada sino al dipartimento di polizia cantammo inni nazionali e gridammo slogan contro le leggi ingiuste e l’umiliazione. Continuammo a far questo per tutte le cinque ore del nostro fermo. Ci furono comunicate le accuse a nostro carico: disturbo della quiete pubblica, assembramento illegale, minacce alla sicurezza ed al benessere pubblico. Poi fummo rilasciati dietro cauzione.

Durante gli interrogatori, gli investigatori cercarono di imporci il concetto di tribalismo e di classificarci in accordo ad identità culturali ed etniche. Ad ognuno di noi hanno chiesto il nome della tribù di appartenenza. All’unanimità abbiamo rifiutato di rispondere alla domanda, insistendo sul fatto che siamo sudanesi. Abbiamo anche rifiutato di firmare un impegno a non partecipare a qualsiasi protesta futura contro il partito di governo. Da parte mia, ho detto all’investigatore che avrei continuato a dimostrare contro le leggi sull’ordine pubblico che umiliano le donne, che avrei continuato a protestare contro l’attuale governo, e che non mi sarei risparmiata alcuno sforzo per far sì che la mia voce venisse udita: persino se questo avesse dovuto costarmi la vita.

A causa delle mie attività ora sono un bersaglio per le autorità. Oggi le mie azioni sono ampiamente monitorate e ci sono stati numerosi tentativi di intimidirmi affinché io resti in silenzio. Di recente ci sono state due irruzioni in casa mia, nel mezzo della notte, ed ogni volta gli intrusi hanno rubato il mio laptop e le videocamere. Temendo per la sicurezza della mia famiglia mi sono trasferita. Sono preoccupata che non appena il Sudan del sud dichiarerà la sua indipendenza dal mio paese, il regime peggiorerà ulteriormente le leggi “islamiche” ed io avrò ancora maggiori motivi per aver paura. E’ solo grazie al sostegno della mia famiglia che sono in grado di continuare il mio lavoro. I miei amati genitori hanno sempre messo me e le mie quattro sorelle sullo stesso piano dei nostri fratelli. Ho anche un marito meraviglioso e quattro bambini miei.

Vengo da una famiglia che conta molte donne, e desidero ardentemente vedere tutte le donne, incluse le mie figlie, vivere e crescere in un ambiente sano. Le donne meritano il rispetto della loro umanità senza che genere, tribù o etnia facciano differenza. Seguendo la mia visione, non ho mancato e non mancherò a nessuna manifestazione di protesta, anche se verrò imprigionata, multata e frustata. C’è una sola cosa che temo veramente: che i miei figli debbano crescere in un’atmosfera che sopprime le loro voci e amplifica la diseguaglianza di genere fra loro.

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“Questa è una raccolta di brani di artisti provenienti da tutto il mondo che hanno dovuto fronteggiare la censura o la cui musica è stata bandita. Questi artisti, ed altri come loro in differenti parti del mondo, devono avere il diritto di esistere e di esprimere liberamente i loro sentimenti e le loro opinioni attraverso la loro arte. Non possiamo permettere che la nostra libertà di espressione sia compromessa. La musica non dev’essere ridotta al silenzio.”

Così si presenta “Listen to the Banned” – http://www.listentothebanned.com/

 

Gli artisti che fanno parte del progetto sono stati censurati, portati in tribunale, imprigionati e persino torturati per una ragione molto semplice: la loro musica. Ci sono Mahsa Vahdat, la cui voce incredibile ha catturato l’interesse internazionale ma resta non udita dagli iraniani; Fahrad Darya, il simbolo del ritorno della musica in Afghanistan dopo la caduta dei talebani; Lapiro De Mbanga, il cantore della musica popolare che da vent’anni fa campagna per le riforme sociali in Camerun; Marcel Khalife, che i potenti del suo paese, il Libano, accusano di “blasfemia”; Chiwoniso Maraire, che si è permessa di criticare l’incompetenza, la crescente corruzione e la mancanza di libera espressione che piagano lo Zimbabwe; Tiken Jah Fakoly, un idolo per milioni di africani, che ha denunciato la corruzione politica nel suo paese, la Costa d’Avorio; Abazar Hamid, censurato in Sudan perché cerca con la sua musica di trasformare un paese in guerra con se stesso; e poi Kamilya Jubran, Kurash Sultan, Ferhat Tunç, Aziza Brahim, Haroon Bacha, Fadal Dey, Amal Murkus.

Le loro storie sono riportate nel booklet che accompagna il cd; Deeyah, un’artista che ha dovuto smettere di esibirsi a causa delle costanti intimidazioni e delle minacce fisiche, ha curato la collezione, che io consiglio caldamente a tutti/e. Maria G. Di Rienzo

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“Parte del mio lavoro è dare opportunità alla società in cui vivo.”, dice convinta Christine Akuol, reporter della stazione radio FM Mayardit a Turalei, nel Sudan del sud. A Christine piace occuparsi delle istanze che interessano donne e ragazze, anche perché è stata forzata al matrimonio quando aveva 16 anni. Nel 2006, venne rapita da cinque uomini, chiusa in una stanza per una notte intera e poi informata che sarebbe divenuta la moglie di uno dei cinque. Sebbene suo padre fosse dapprima furioso per il modo in cui era stata trattata, nel giro di una settimana si era messo d’accordo con uno dei rapitori sul “prezzo della sposa”, ed informò sua figlia che avrebbe lasciato la scuola e sarebbe divenuta una casalinga.

“Ero completamente devastata. La mia vita era arrivata alla fine. Mio padre mi aveva tradito permettendo a quell’uomo di sposarmi. Io avevo solo 16 anni, e non ero per niente pronta al matrimonio, avevo questi miei sogni: studiare, diventare una pilota… e nulla di ciò sarebbe più accaduto. Piangevo ogni giorno, e mi sentivo assai amareggiata quando vedevo le altre ragazzine andare a scuola. A volte indossavo l’uniforme scolastica per poter immaginare di essere con loro. E’ stato il periodo peggiore della mia vita.”

Nove mesi più tardi, avendo il marito non corrisposto al padre di Christine la somma patteggiata, quest’ultimo si appellò al tribunale, e riportò a casa la figlia: incinta, per cui non era neppure da pensare che potesse tornare a scuola.

Quattro anni dopo, la nuova radio comunitaria ha dato a Christine, sempre affamata di sapere e imparare, una nuova possibilità: “Basandomi sulla mia esperienza, voglio tentare di cambiare un po’ di cose nella società. Ho avuto quella che potrei chiamare una seconda opportunità. Non avrei mai sognato di diventare una giornalista, dopo essere diventata una casalinga, ma eccomi qui. Ho sentito che Internews stava assumendo reporter per la nuova stazione radio di Turalei, e ho fatto domanda per i corsi preparatori.”

Da febbraio 2010 la radio è in piena attività, e Christine ha già registrato un bel mucchio di programmi sulle donne. “Il migliore che ho fatto sino ad ora è stato quello sui matrimoni forzati. Dovevo farlo, perché era accaduto anche a me.” Durante la mezz’ora del programma, Christine parla con tre donne che andarono spose contro la loro volontà rispettivamente all’età di 13, 14 e 15 anni. Una di essa racconta come fu sul punto di morire nel mettere al mondo il suo primo figlio dopo un anno di matrimonio: oggi, all’età di vent’anni, di figli ne ha quattro.

“Una delle cose che voglio fare è dire ai nostri genitori che forzarci al matrimonio non è bene.”, dice Christine Akuol. “Le ragazze Dinka, proprio come i ragazzi, hanno diritto all’istruzione. Ad ogni ragazza si deve dare la possibilità di pianificare la propria vita, di decidere cosa vuol essere in futuro, e chi vuole sposare. Mi basta guardare a me stessa e alle mie amiche che hanno subito lo stesso destino, per sapere che devo almeno tentare di mettere fine a questa pratica. Avrei voluto fare la pilota d’aereo, ma adesso sono una giornalista,” ripete Christine con un sorriso splendente, “Sono una persona diversa, ora, conosco veramente il valore dell’essere istruita, ed è per questo che tramite i miei programmi incoraggio le ragazze ad andare a scuola. La cosa più importante, per le donne, è abbracciare la propria istruzione.”

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