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(Phumzile Mlambo-Ngcuka, sudafricana, dal 7 luglio u.s. ha preso il posto di Michelle Bachelet – dimissionaria perché intende correre di nuovo per la presidenza del Cile – come Direttrice dell’Agenzia Donne delle Nazioni Unite. Phumzile Mlambo-Ngcuka è stata la Vice Presidente del Sudafrica dal 2005 al 2008: è stata la prima donna ad ottenere tale posizione e, in quel periodo, fu la donna di “rango” più alto nella storia del suo paese. Ma, se vogliamo, era già Presidente nel 1983, dell’Organizzazione delle Donne del Natal, affiliata al Fronte democratico unito. Ha un diploma universitario come insegnante (Università del Lesotho, 1980) e una laurea in filosofia (pianificazione e politiche dell’istruzione) conseguita all’Università di Cape Town nel 2003, più una laurea ad honorem conferitale dall’Università di Western Cape lo stesso anno. Nel 2008 ha creato la Fondazione Umlambo che fornisce sostegno alle scuole nelle aree impoverite del Sudafrica e del Malawi. Chi è Phumzile lo lascio dire a lei stessa, con un pezzo tratto dal suo profilo pubblico. Trad. Maria G. Di Rienzo)

Istruisci una donna e hai istruito una nazione”, Phumzile Mlambo-Ngcuka.

Phumzile Mlambo-Ngcuka

Sono nata il 3 novembre 1955 a Clermont, Durban, nel Natal (oggi KwaZulu-Natal). Mia madre era un’infermiera comunitaria, specializzata in pianificazione familiare, e mio padre era un maestro di scuola. La nostra famiglia era cattolica e discutevamo molto sulle istanze che mia madre affrontava nel suo lavoro, relative ai diritti riproduttivi. Mia madre era determinata ad esprimere le proprie opinioni e a fare la differenza: lei è stata il mio primo contatto con l’attivismo.

Sin da quando ero molto piccola, ero consapevole del mondo che si estendeva oltre le mura della nostra casa: dall’apartheid sotto cui soffrivamo alla fame e alla povertà di cui ero testimone nel mio quartiere. Vivevamo in un paese che aveva così tanto eppure, quando andavo a scuola come una delle bimbe abbastanza fortunate da portare con sé il proprio pranzo, vedevo i miei compagni e le mie compagne che non avevano abbastanza da mangiare. Pensavo: “Queste cose non dovrebbero accadere.” Non avevo le parole per esprimere la diseguaglianza che vedevo, ma sapevo che era là. Dividevo il mio cibo con gli altri bambini che non avevano nulla. E la deprivazione che testimoniavo, nel contesto del ricco paese in cui vivevamo, mi faceva infuriare. Mi infuriava, e mi ispirava.

Quando ero un’adolescente, negli anni ’70, sono stata Leader della Gioventù nell’Associazione delle giovani donne cristiane (YWCA). E’ così che sono diventata una studente-attivista. Ho imparato alla svelta come articolare le mie opinioni e come prendere posizione. E’ stato là, circondata da giovani donne come me e, più importante ancora, da donne più anziane da cui ho imparato moltissimo, che la politica e il discorso pubblico mi sono diventati familiari, che ho cominciato ad essere coinvolta in marce anti-apartheid e raduni. Volevamo abbattere lo stato nella sua totalità per mettere fine all’apartheid. E fu in questo contesto che iniziai a vedere le questioni relative alle donne e a capire come si inserivano nel grande quadro dell’ingiustizia. E vidi anche che il Sudafrica era solo una delle nazioni esistenti, ma che la nostra sollevazione sarebbe stata altamente rilevante per il mondo intero.

E non ho mai guardato indietro. Mentre gli anni passavano, fui abbastanza fortunata da incontrare moltissime donne – in Sudafrica e altrove – tramite il lavoro che stavo facendo. Nel 1984 ho lavorato per l’YWCA a Ginevra, dove ho cominciato a promuovere lo sviluppo dell’istruzione in Africa, Asia e Medioriente. Vedevo chiaramente le connessioni fra l’istruzione dei giovani – in special modo delle giovani donne – e la capacità di creare il cambiamento. Gli avanzamenti che abbiamo visto in Sudafrica a livello politico, sociale ed economico sono stati ottenuti con la lotta e non possono che essere difesi con la lotta: parte di ciò è la lotta continua per i diritti umani delle donne. I diritti delle donne sono diritti umani. Non abbiamo fatto granché per migliorare le condizioni delle donne che si trovano ai margini della società. L’ho visto bene quando ho cominciato a fare politica. Persino un atto piccolissimo, come insegnare ad un gruppo di donne a formare un’associazione artigiana aveva un impatto enorme sulle loro vite.

Nel mio lavoro, oggi, la passione che mi guida è assicurare l’accesso all’informazione per i giovani, specialmente per le giovani donne che non riescono ad avere informazioni accurate sulla salute riproduttiva. Spesso non sanno dove andare, dove possono parlare apertamente senza paura sulla tale questione perché è stata politicizzata o sulla tal’altra perché è tabù. Mi colpisce la fame d’informazione che c’è, una fame che dobbiamo soddisfare. Se non rispondiamo a questo bisogno – aprendo canali di comunicazione, fornendo modi in cui la gioventù possa apprendere e crescere – perdiamo una tremenda opportunità di effettuare cambiamenti reali. Come possiamo dare potere alla gioventù, il potere di prendere il controllo sulle loro vite e sul loro futuro e nel far ciò, cambiare il corso della loro esistenza e di quella delle future generazioni? Questa è la domanda che mi guida.

La povertà e la fame possono far deragliare i progressi che abbiamo fatto. Le donne e i giovani sono esposti a incredibili durezze. Questo ci richiede di fare di più. Le soluzioni alle circostanze che viviamo non possiamo importarle da fuori, dobbiamo trovarle in noi stessi. Come tante altre donne, da giovane io sono stata appoggiata e nutrita dai miei genitori, dalle mie coetanee e da donne più anziane: dobbiamo far spazio alle ragazze, permettere loro di contribuire e di guidare in ogni cammino della vita.

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(“Raped because she was a girl”, di Sisonke Msimang (in foto) della “Rete Sonke per la giustizia di genere”. Il pezzo è stato anche pubblicato dal Mail Guardian il 7.2.2013 con il titolo “As long as we exist, we will be raped”. Trad. e nota introduttiva Maria G. Di Rienzo.

L’articolo si riferisce allo stupro di gruppo, alla mutilazione e alla morte della 17enne sudafricana Anene Booysen. Uno dei medici che hanno tentato di salvarla ha dichiarato ai giornali che uno dei suoi stupratori “ha messo la mano dentro il suo corpo e ha tirato fuori gli intestini. Per questo non è sopravvissuta.” La madre è riuscita a stento a riconoscere il cadavere: “La mia bambina era completamente viola. Tutte le sue dita erano spezzate, le sue gambe erano spezzate. Il ventre era stato aperto, la gola era stata tagliata.” Prima di morire, Anene ha identificato uno dei suoi assassini: è il 22enne Jonathan Quinton Davids, il suo ex fidanzato.)

 Sisonke

Ho letto un articolo giovedì mattina. Diceva: “La vittima è stata aperta dallo stomaco ai genitali e gettata via.” La radio è piena di questa storia. Piena di politici e opportunisti che tentano di sconfiggersi l’un l’altro a chi fa la voce più alta. Come lamentatori da funerale. Ma finirà, lo spettacolo.

E ci saranno marce e petizioni. Ci saranno dichiarazioni e rabbia. Ma succederà ancora. Sino a che lo shock diverrà per noi abitudine. Accadrà ancora. Sino a che le nostre ossa saranno polvere e i nostri denti frantumati nella sabbia. Accadrà e accadrà. A meno che non inventiamo un modo per smettere di essere donne. A meno che non troviamo un modo per smettere di sanguinare tra le gambe. Sino a che esisteremo, ci stupreranno.

Per cui, no, non vado in manifestazione. Non credo che marciare fermerà questa guerra. Piangerò, come faccio già da tutta la mattina. E forse, comincerò a percepire la mia via d’uscita da una consapevolezza tremante e pesante dopo aver parlato con altri. Con le madri e le sorelle, con i fratelli e padri che, come me, hanno figlie e sorelle. Perché c’è solo questo: una consapevolezza vuota e morta che ha sempre bussato al mio cuore. Nel minuto stesso in cui lei nacque si insediò nel ritmo del mio respiro: crescere una bambina in questo mondo, crescerla forte e in salute e orgogliosa, assicurarmi che sopravviva e poi insistere sino allo sfinimento perché rida, balli, pensi e sogni – è scegliere allo stesso tempo il sentiero più gioioso e quello che più ti spezzerà il cuore. E’ sfidare il fato ogni singolo giorno, è aver paura che il suo fiato sia prima o poi strozzato da qualcuno. E’ vivere con l’orribile prospettiva che quella potrebbe essere tua figlia.

Anene è stata violata e mutilata perché era femmina. Erano la sua vagina e i suoi seni che volevano distruggere. Erano il suo modo di camminare e di parlare. Era il suo essere una ragazza. Queste parti di lei sono state fratturate e tagliate e smembrate non da mostri, ma da amici. Ognuna delle sue dieci dita è stata spezzata.

Dieci dita nelle mani, dieci nei piedi. Baciavo la mia bimba sino a che si addormentava. Dieci e dieci dita: le contavo quando era appena nata, solo per assicurarmi che lei fosse vera. C’era amore nello spazio fra le dita. Mi commuovevo mentre la pesavo: così piccola, così forte.

Stanotte, le bacerò il collo in bagno e lei si ritrarrà da me: “Smettila, mamma.”, e le pizzicherò il sederino bagnato e lei scoppierà a ridere. Stanotte lei sarà al sicuro. Ma loro non smetteranno di uccidere femmine.

E io morirò difendendola. Buttino pure le mie ossa nella terra. Mi frantumino i denti sul suolo. Solo questo fermerà la guerra: che noi si sia pronte a morire, che i nostri corpi siano barricate contro le mani che non dovrebbero essere là, contro i coltelli che tagliano, le pistole che infilano piombo nei corpi. Che lo infilino in me. In noi.

La madre di Anene ha detto che se non avesse visto le sue scarpe non avrebbe riconosciuto la propria figlia. I suoi intestini? I suoi intestini nella polvere.

Dio ci aiuti. E se Dio non vuole, saranno le donne ad essere barricate. Gli uomini ci seguiranno.

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Gillian Schutte è una scrittrice, poeta, giornalista, regista sudafricana, co-fondatrice di Media for Justice: www.mediaforjustice.net

Il 3 ottobre scorso, annunciando la sua adesione a “One billion rising”  www.onebillionrising.org, ha detto tra l’altro: “La danza è usata come mezzo di protesta in molti luoghi del mondo. In Sudafrica, per esempio, canti e balli sono sempre stati intrinseci alle dimostrazioni pro diritti umani e sono spesso guidati da donne. La danza indica libertà del corpo, della mente e dell’anima. E’ un atto allo stesso tempo celebratorio e ribelle poiché parla di libertà di movimento, di una relazione non restritttiva con il corpo ed è l’antitesi di un corpo oppresso, limitato e violato. E’ essenzialmente non patriarcale e si ribella contro il controllo patriarcale del corpo femminile. (…) Le danze, i carnevali, le celebrazioni, sono state usate attraverso la storia, in molte diverse culture del mondo, per destabilizzare leadership repressive o draconiane: e sono destabilizzanti in quanto dimostrazioni di disobbedienza civile che non possono essere contenute o classificate come aggressive. Questa faccenda non tratta di donne che ballano. Tratta di una rivoluzione.”

Danza e canto in Sudafrica, durante la protesta contro la polizia per aver aperto il fuoco su minatori in sciopero, uccidendone 34

Di “One billion raising”, la nuova iniziativa di Eve Ensler e V-Day contro la violenza diretta alle donne, vi ho già parlato in un post precedente. La coordinatrice dell’evento in Italia è Nicoletta Corradini del Comitato V-Day di Modena che mi ha gentilmente fornito i seguenti indirizzi (io non ho una pagina Facebook, ma immagino che la maggioranza di voi che leggete ce l’abbia e possa dare un’occhiata):

https://www.facebook.com/#!/vday

https://www.facebook.com/groups/50471665887/permalink/10151087868175888/#!/groups/50471665887/

Danza di protesta in Israele contro l’esclusione delle donne voluta dagli ultra-ortodossi

E qui c’è il link al video

http://www.youtube.com/watch?v=gl2AO-7Vlzk&feature=youtu.be

Tunisia, le donne cantano contro la nuova Costituzione che le definisce “complementari all’uomo”. Il cartello recita: Non toccate i miei diritti

Non vedo l’ora che arrivi il 14 febbraio! Maria G. Di Rienzo

“Giù le mani dalla mia vagina” è il titolo della canzone su cui le donne stanno cantando e ballando, contro le norme invasive e restrittive sulla loro salute riproduttiva

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(Vice direttrice esecutiva del dipartimento “Hunger Solutions” per l’agenzia delle Nazioni Unite “Programma alimentare mondiale” (WFP). Sisulu è stata Ambasciatrice negli Usa per il suo paese, il Sudafrica. Precedentemente lavorava come insegnante di scuola superiore ed era attiva nella lotta contro l’apartheid. A cura di WFP, 2012, autore/autrice non menzionato/a. Trad. Maria G. Di Rienzo)

 

Parlaci del tuo ruolo nel Programma alimentare mondiale. Come spieghi all’esterno quel che stai tentando di ottenere?

Il mondo è cambiato da quando il Programma nacque (1962, ndt.). All’inizio offriva soluzioni a situazioni specifiche basandosi su una prospettiva di eliminazione della fame a lungo termine. Ora l’intera architettura dell’aiuto umanitario richiede il coinvolgimento dei governi. Il mio ruolo è lavorare con i governi affinché la lotta alla fame sia parte delle loro strategie economiche e di sviluppo, affinché si muovano dalla nozione che stabilire la sicurezza alimentare per le persone estremamente povere sia solo una spesa e comprendano che in realtà è un investimento, e che darà ritorno all’economia.

Quando vado nei paesi africani uso molto una brochure: quella precedente mostrava una donna che se ne veniva via da un centro di distribuzione con una borsa di cibo. Ora, nell’opuscolo, la donna ha in mano del denaro. Non glielo abbiamo dato noi come aiuto umanitario: abbiamo comprato cibo da lei in Malawi ed ora lei ha molto più potere tenendo in mano quei soldi che tenendo la borsa degli alimenti. Il suo danaro viene dal cibo che lei fa crescere nei campi e negli orti. Nel processo, impara come preservare meglio i prodotti, come migliorarne la qualità e come ottenere il prezzo migliore. Analizza fertilizzanti e sementi, si avvantaggia delle stagioni migliori e in quelle peggiori ha comunque dei soldi per vivere, ma la cosa più importante è che prende decisioni. Decide che questi soldi serviranno per le rette scolastiche dei bambini, questi altri per le bollette, questi per l’acquisto di sementi, ed è finalmente lei la “capa” nella propria vita.

Tu hai sposato il figlio di un attivista anti-apartheid molto famoso. Parlaci della tua vita coniugale e familiare.

Mia suocera, Albertina Sisulu, è mancata da poco. Era veramente una seconda madre per me. Tradizionalmente, quando partorisci per la prima volta vai a farlo da tua madre, perché solo tua madre può capire pienamente le tue gioie e le tue fatiche quando dai alla luce il tuo primo figlio. Mia suocera era infermiera e levatrice. Discusse con mia madre, che non poteva prendere permessi al lavoro, e disse: “Ascolta, io posso prendere delle ferie, lo farò. Questo è il mio primo nipote che nasce in Sudafrica. Sarò io la levatrice per Sheila.”

E’ stata una cosa davvero straordinaria. Si prese due settimane di ferie ed ebbe cura di me. Ma ancora di più si prese cura di me successivamente, quando io dovevo tornare ai miei studi. Avevo appena stabilito il legame con il mio bambino e cominciavo a pensare: Be’, ora sono una madre, e una moglie, e sono felice, non importa se lascio gli studi in questo momento, li riprenderò più avanti. Mia suocera era una donna molto forte e mi disse no, tu vai e finisci i tuoi studi, devi avere un’istruzione, ed io ho promesso ai tuoi genitori che avrei avuto cura di te e lo farò. Infatti, si occupò di mio figlio sino a che io non ebbi terminato l’università. Ho passato quarant’anni nella sua famiglia e l’ho vista attraversare difficoltà incredibili. Era lei che sosteneva economicamente tutti gli altri, perché anche mio marito studiava e lavorava quando poteva, e mio suocero, Walter Sisulu, era completamente preso dalla lotta contro l’apartheid.

L’attivismo politico ebbe un effetto profondo su tutta la famiglia.

Mio suocero smise di lavorare per occuparsi a tempo pieno dell’ African National Congress (ANC) come segretario generale, per costruire l’organizzazione. Ed uno dei successi che ebbe fu il reclutare Nelson Mandela nell’ANC, ed incoraggiarlo ad usare il suo potenziale. Queste cose prendevano interamente il suo tempo e l’ANC non aveva soldi per pagarlo. Mia suocera continuava ad occuparsi di tutti noi. Ci sono stati momenti veramente duri, devo dire. Non c’era un giorno in cui il cibo non scarseggiasse in casa nostra, ma mia suocera riusciva sempre a risolvere la questione. Noi ci lamentavamo: Abbiamo fame. E lei rispondeva: Va bene, va bene, allora mangiatemi se non ce la fate più! Ma poi andava in cucina e metteva insieme qualcosa, briciole e avanzi, e voilà, ne usciva una vera cena.

Mio suocero, una volta che fu uscito di prigione, spesso ci diceva: “Non sarei mai riuscito a fare quello che mia moglie ha fatto se i nostri ruoli fossero stati scambiati.” Lui era un uomo che credeva profondamente nelle donne, nelle loro capacità e potenzialità, sia nella lotta politica sia nelle relazioni umane.

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“C’è un bel po’ di sessismo, nella magistratura. Se sei una donna devi seguire un corso specifico per fare la giudice, se sei un uomo basta che fai la domanda. Gli uomini che li hanno creati, questi corsi, pensano siano meravigliosi, pensano di “aiutare” le donne a diventare giudici. Sono incredibilmente orgogliosi di questi costosissimi corsi. Se una donna ha esercitato la professione di avvocata per 18 anni e un uomo ha fatto lo stesso, ed entrambi vogliono diventare giudici, lei va a studiare, lui compila un modulo.” Così la giudice sudafricana Kathy Satchwell durante una lezione universitaria il 30 agosto scorso.

Kathy è fra le fondatrici di “Black Sash”, un’organizzazione per i diritti delle donne, e nel 2009 è stata al centro di un ciclone mediatico per aver presentato la propria candidatura alla Corte Costituzionale; i suoi detrattori, “sudafricani timorosi di Dio”, sostenevano che non doveva esserle permesso perchè è omosessuale. La giudice rispose che le loro argomentazioni derivavano da una mentalità sessista ed avrebbero fatto meglio ad esaminarla invece di scaricarne la responsabilità su Dio.

Kathy Satchwell è stata ed è coinvolta in numerose lotte per i diritti umani, ma curiosamente la battaglia per cui è più nota, e che ha vinto di recente dopo 16 anni di proteste, concerne… i gabinetti del Tribunale di Johannesburg. Quando l’edificio fu costruito, i bagni furono progettati per servire solo uomini e successivamente divisi in locali per bianchi e locali per neri, ma senza mai prevedere che una donna potesse accedervi. “Sì, 16 anni sono un bel po’ di tempo per costringermi a continuare a chiedere: perché ci sono solo urinali se qui ci sono anche donne? Perché alcuni gabinetti sono ancora segnalati come “solo per bianchi”? Quando sono tornata in Tribunale l’altro giorno, un collega è venuto da me e mi ha detto: Kathy, posso per piacere avere la tua mano? Io ho risposto: In matrimonio? E lui: No, devi venire con me. I nostri uffici sono stati rinnovati. E mi ha portato ai bagni, e finalmente gli urinali e il resto erano spariti.”

Kathy dice che comunque la mentalità è cambiata da quando alle donne avvocate e giudici si davano solo casi relativi ai bambini e ai divorzi a causa della loro “speciale empatia”, ma che resta molto da fare per rendere il sistema giudiziario più equo rispetto al genere. Agli e alle studenti di legge a cui ha parlato il 30 agosto ha detto anche che per esercitare l’avvocatura devono creare del bilanciamento nelle loro esistenze: “Avete una vita sola, perciò abbiatene buona cura. Non lavorate così tanto da dirvi, quando avrete settant’anni, ‘Non ho mai visitato il Parco Nazionale, avrei voluto imparare l’uncinetto.’ Siate appassionati, e godetevi tutto quel che vi interessa. Non vorrete mica dirvi, in punto di morte: Che delusione, tutto qui quel che ho fatto?” Maria G. Di Rienzo

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(“Dear God”, di Adel Alhimi, Yemen, 24.7.2012, per http://www.mideastyouth.com – Trad. Maria G. Di Rienzo)

Caro Dio,

ti ho scritto una lettera due anni fa e non hai ancora risposto, perciò o sei indaffarato con altra gente ed altri universi, oppure hai giudicato la mia lettera un immaturo tentativo di attirare la tua attenzione da parte di una delle tue insignificanti creature – o forse non c’era niente di sbagliato nella lettera in sé, è solo che a te non te ne frega un c…o.

In effetti, la vera ragione che potrebbe spiegare la tua indifferenza al mio tentativo di attirare la tua attenzione è che tu non esisti davvero, e che per tutti questi anni io ho perso tempo parlando con la mia stessa ombra.

Oggi ho pranzato con tre decenti amici cristiani in Sudafrica. Sebbene sappiano che io vengo da un paese arabo e musulmano mi hanno invitato ad unirmi alla loro sessione di preghiera dopo il pasto. Ci siamo messi in cerchio tenendoci per mano ed abbiamo pregato ad alta voce, uno dopo l’altro. Mentre ascoltavo le loro preghiere mi chiedevo se c’era qualcuno ad ascoltarle oltre a noi. Ho sorriso ed ho mormorato a me stesso: “Che perdita di tempo, che falsa speranza, che delusione!”

Nella mia mente si è formata l’immagine di milioni di musulmani, hindu, ebrei e di tutti gli altri tipi di fedeli che pregano e pensano ci sia qualcuno ad ascoltare ciò che sussurrano, ognuno credendo di essere in qualche modo speciale, e che il suo gruppo sia stato scelto per essere l’élite. Quella notte, a letto, ho riflettuto su religioni, fedi e dei: sebbene a me appaiano come bugie costruite dagli uomini, mi dicevo, pure hanno i loro vantaggi ed i loro lati positivi. Di colpo mi si sono presentate le immagini di parti di corpi umani smembrate sulla strada, nel mio paese, lo Yemen, e la faccia dell’attentatore suicida responsabile di ciò.

L’immagine successiva era me da bambino che cantavo una canzone antisemitica, piena di odio e disprezzo per gli ebrei. Tra l’altro, sono nato in un vecchio quartiere ebraico a Sanaa ed ho sempre ammirato l’architettura ebraica. E persino da bambino mi facevo questa domanda: perché dovrei odiare qualcuno a priori, per non dire un’intera nazione? Credo che a creare questa immagine abbia contribuito la visita che ho fatto il mese scorso ad una famiglia ebrea e, non occorre dirlo, non avevano ne’ corna ne’ code come mi è stato detto quando ero piccolo.

Ricordo ancora la storia che mi narrò mia madre sugli ebrei e la figlia del Profeta Maometto: ella offrì loro del cibo, ma gli ebrei erano talmente ingrati che defecarono sui piatti e Dio li trasformò in scimmie. All’epoca mi pareva una bella fiaba e sembrava anche spiegare da dove venivano le scimmie. E andava e veniva nella mia mente mentre il mio anfitrione ebreo e sua figlia erano indaffarati a parlarmi e a darmi il benvenuto in casa loro. Allora mi sono chiesto chi ha piantato odio e sfiducia fra le persone.

Tu sai di cosa sto parlando. Sei tu, Dio, la ragione della nostra vita miserabile su questa Terra. Perciò, o non esisti (il che per me ha perfettamente senso) o esisti, ma se esisti sei uno degli esseri più infami che ci siano. Chiedo scusa per l’uso di questo termine inappropriato nel rivolgermi a Te. Tuttavia esso per me descrive accuratamente chiunque abbia reso questo mondo ciò che è, ogni divino potere che ha permesso e consentito questo gioco deprimente, doloroso e senza senso chiamato vita. Oh, e visto che ci siamo: buon Ramadan.

 

Caro Dio, forse Caino e Abele non si sarebbero uccisi così tanto se avessero avuto ognuno la propria stanza. Con me e mio fratello funziona. Larry.”

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Maati (autrice/autore ignota/o, trad. Maria G. Di Rienzo)

 

Le tue braccia incrostate di fango profumano di Terra.

La tua fronte è cinta di perle di sudore per il sole a picco.

Queste tue braccia sottili hanno il potere

e la forza di parecchi uomini.

Persino la tua ombra conforta molte persone.

Ed è con il tuo flauto che accendi i fuochi di cucina. (1)

E’ quando sfiori le corde che la vita si muove e fluisce.

I raccolti illuminati dal sole sono i tuoi gioielli.

Sei come la Terra cucinata dalla luce solare,

la tua pelle ha il colore del tramonto.

E durante le lunghe notti oscure tu sei la luce dell’alba.

Mentre tu vegli, come una candela che arde nella notte,

il vento s’inchina a te, le stagioni ti rendono omaggio,

la polvere della Terra ti adorna,

a te che sei la fluida corrente che questa Terra nutre.

Nel tuo respiro stanco indugia il suono delle conchiglie.

Speranze, azzurre come il cielo, hanno molte ali:

e le loro possibilità sono riflesse nei tuoi occhi.

(1) Si riferisce alle “pipe” con cui le donne spesso soffiano nelle stufe per accendervi il fuoco.

Questa poesia, unitamente ad un video, è stata usata dalle donne di AWID – durante il loro 12° Forum internazionale tenutosi nell’aprile scorso – per onorare le femministe che hanno ispirato le oltre 2.000 partecipanti, ma che sono scomparse nei quattro anni trascorsi dal precedente incontro.

AWID ha ricevuto contributi da tutto il mondo per questo tributo. E mentre molte di queste donne sono decedute a causa di incidenti, malattie o disastri naturali, circa un terzo sono state uccise o sono scomparse a causa del loro attivismo. Si tratta di donne come Marisela Escobedo Ortiz del Messico, che è stata assassinata mentre teneva una dimostrazione pacifica che chiedeva alle autorità di arrestare l’omicida di sua figlia; come la sudafricana attivista per i diritti delle persone LGBT Noxolo Nowaza, uccisa in uno dei cosiddetti “crimini dell’odio”; come Natalia Estemirova, una giornalista assassinata a causa del suo lavoro sugli abusi dei diritti umani in Cecenia; o come Concepcion Brizuela dalle Filippine, avvocata, che è stata rapita ed è scomparsa perché lottava per i diritti umani delle donne, dei contadini poveri e dei popoli indigeni. Non è sorprendente notare che la maggior parte di questi crimini sono ancora impuniti.”

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(“Who is me? I Femme Sage”, di Monica Clarke, trad. Maria G. Di Rienzo)

Sono una donna dell’Africa, un solo sé, un sé dell’anima.

Da un continente violato dall’avidità vengo io,

da dove il grembo di Madre Terra sanguina per sempre

dalle ferite aperte dai predatori che devastano.

Nel mio DNA si è impressa la fame,

la stessa che corre nella linfa di germogli che lottano per sopravvivere,

dove nessuna speranza è rimasta fra le macerie della disperazione.

Nata durante la notte dell’Apartheid, nascondo i miei lividi

nel mentre offro con orgoglio vigilanza e cura,

nel nome della santa di cui porto il nome,

cercando i figli e le figlie che lottano attraversando l’asprezza

della violenza e dell’abuso.

Mi muovo secondo il battito, e canto una canzone di forza,

il cui ritmo disperde la scontentezza dell’angoscia e della perdita.

Dalla Nazione Arcobaleno io vengo,

da dove nelle ombre che il sole non riesce a raggiungere

si trovano antichi germi di superstizione

che si moltiplicano in colonie di oscurità ed abuso,

sotto nuvole di disinformazione.

Da un continente io vengo, dove l’innocenza di bambine e bambini

è sacrificata alla malvagità di uomini,

che pensano di poter evitare le conseguenze dei loro atti.

Vecchia e saggia, giovane e sciocca, do’ e prendo,

amata e disprezzata, percorro il mio sentiero,

nata dalla gentilezza della Terra.

Attraverso il pantano io cammino, con la testa alta e la mia piccola luce,

decisa a risplendere e a spezzare il ciclo della violenza e dell’abuso.

Io amo. Io rispetto. Io servo. Io lotto.

Io SONO – Monica.

Monica Clarke è nata a Cape Town, in Sudafrica, nel 1940. Diplomata come infermiera e levatrice, divenne studentessa di legge negli anni ’60, nel tentativo di rispondere alle violazioni dei diritti umani che testimoniava quotidianamente. Coinvolta politicamente nell’African National Congress fu costretta a lasciare il suo paese nel 1984 per non essere arrestata e si trasferì a Londra. Monica è autrice di poesie, racconti e romanzi (fra cui “Mi chiamano la Venere Ottentotta”, la storia vera di una giovane sudafricana, Saartjie Baartman, trafficata in Europa nel 1810 ed esibita nei salotti a Parigi e Londra), nonché un’esperta di assistenza terapeutica riconosciuta a livello internazionale e una trainer su “eguaglianza, diversità ed inclusione”. Monica è anche una delle poche “Cantastorie dei diritti umani” presenti sul nostro pianeta: “Amo portare i diritti umani in vita con le mie parole”.

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Andiamo al cinema? Sì, va bene, però non voglio vedere ne’ “Vacanze squallide”, ne’ “L’amore guarisce tutto, anche il cancro”, ne’ “Smembramenti selvaggi III”, ne’ “O’ vampiro ‘nnammurato”… Vero, esclusi questi generi mi resta ben poco da scegliere. Ma andrei al cinema, molto volentieri, a vedere uno dei seguenti film:

“Black Butterflies” (Farfalle Nere) – Regista: Paula van der Oest, Cast: Carice van Houten, Rutger Hauer, Liam Cunningham.

E’ la storia (vera) di Ingrid Jonker, la scrittrice sudafricana la cui poesia “Il bimbo morto di Nyanga” fu letta da Nelson Mandela in occasione del suo primo discorso al Parlamento sudafricano. Ingrid visse a Cape Town negli anni ’60 dello scorso secolo, in pieno apartheid e avendo per padre un funzionario di governo addetto alla censura. Il trailer mostra una scena stupenda – per me, ovvio – in cui il padre di Ingrid fa a pezzi un foglio su cui è scritta una sua poesia, proprio davanti a lei. La giovane donna, nonostante abbia gli occhi pieni di lacrime, risponde: “Fa’ pure.”, e indicandosi la testa aggiunge, “Tanto quelle parole sono tutte qui dentro.” Tra l’altro, il film potrebbe riconciliarmi con il “replicante” Rutger Hauer dopo la sua discutibile performance padana…

“Circumstance” (Circostanza) – Regista Maryam Keshavarz, Cast: Sarah Kazemy, Nikohl Boosheri, Reza Sixo Safai.

Le immagini, sebbene io le veda nella piccola finestra del trailer online, sono di una bellezza incantevole. Posso solo sbavare leggermente al pensiero di come devono risultare sul grande schermo… Il film è stato bandito dal governo iraniano (tanto per cambiare) e narra la storia di due ragazze sedicenni di Teheran, dell’amore che le lega, del loro viaggiare fra il mondo di “circostanza” (la scuola, il codice di abbigliamento coatto, ecc.), il mondo dei loro desideri (“Se potessi essere in qualsiasi posto al mondo, ora, dove vorresti essere?”) e quello ribelle della vita notturna nei club segreti della città.

“Pariah” – Regista: Dee Rees, Cast: Adepero Oduye, Pernell Walker, Aasha Davis, Charles Parnell, Sahra Mellesse, Kim Wayans.

Sempre in tema di adolescenti “fuori posto”, il film è la storia di Alike, ragazza afroamericana 17enne di Brooklyn. Come accade molto spesso, Alike deve lottare non con la propria identità omosessuale, che riconosce ed accetta con grazia ed umorismo, ma con la percezione che la sua famiglia e i suoi conoscenti hanno di essa. Grazie alla propria tenacia ed all’aiuto dell’amica del cuore, la giovane “pariah” è però intenzionata ad affrontare tutte le sfide.

“Oranges and Sunshine” (Arance e luce del sole – per metafora: Arance e bel tempo) – Regista: Jim Loach, Cast: Emily Watson, David Wenham, Hugo Weaving.

Storia (vera) di Margaret Humphrey, una comune donna inglese che – senza sostegno alcuno – costrinse le autorità del suo paese a rivelare la deportazione di massa di 130.000 bambini dagli orfanotrofi britannici all’Australia, dove furono vittime di abusi sessuali e fisici. Come risultato del suo lavoro, molti di questi bimbi furono soccorsi e tornarono in patria.

“The Naked Option” (L’opzione nudità), documentario – Regista: Candace Schermerhorn.

Narra la vicenda delle donne del Delta del Niger, di come dal 2002 denunciarono i disastri ambientali causati dalle compagnie petrolifere, di come occuparono i siti d’estrazione (uno per dieci giorni di seguito) – “armate” di grandi foglie con cui danzavano – e di come minacciarono di violare il tabù ultimo della loro comunità restando senza vestiti. E’ costume che quando tutto il resto, negoziazioni e discussioni, fallisce, le donne si spogliano: la loro nudità è una “maledizione” per chi vi è esposto, non per loro.

“The Lady” (La signora) – Regista Luc Besson, Cast: Michelle Yeoh, David Thewlis, Jonathan Ragget.

Forse, dato il nome del regista, sarà l’unico film della lista che riuscirò a vedere nei nostri cinema. E’ la storia della leader politica birmana, nonché Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi. La pellicola intreccia le vicende pubbliche a quelle intime e familiari della protagonista, e mi pare riesca a mostrare cosa una lotta per i diritti umani comporta davvero. Sono particolarmente felice della scelta di Michelle Yeoh per il ruolo principale, perché spesso questa grande attrice non ha l’occasione di recitare, ma solo di mostrare le sue (straordinarie) qualità in scene d’azione e combattimento.

“The Rescuers” (I soccorritori), documentario – Regista: Michael King.

Documenta l’amicizia fra lo storico dell’Olocausto Sir Martin Gilbert e l’attivista ruandese contro il genocidio Stephanie Nyombayire. Questi due, un anziano signore ed una giovane donna, hanno viaggiato insieme in tre continenti per raccogliere testimonianze dei sopravvissuti ed onorare i coraggiosi “soccorritori” che hanno salvato migliaia di vite durante l’Olocausto e in Africa. Nel trailer si vede Stephanie portare fiori sulle tombe della sua famiglia (interamente sterminata) mentre riattesta la sua fiducia nella vita e negli esseri umani. E’ una di quelle persone che mi piacerebbe abbracciare, ma visto che non succederà potreste almeno, esimi cinematografari, farmi vedere il film? Maria G. Di Rienzo

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Nel febbraio 2006, l’agricoltore 47enne Anthony Baidoo fu preso a fucilate dai vigilantes privati della AngloGold Ashanti, compagnia mineraria che estrae oro in Sudafrica (dove ha base), Namibia, Tanzania, Mali, Stati Uniti, Argentina, Brasile e Australia, oltre che a Teberebie in Ghana dove Baidoo risiede. L’uomo si stava allontanando durante un confronto fra contadini e vigilantes armati, in cui l’intera popolazione del luogo protestava per l’inquinamento di suolo ed acqua dovuto alle attività della compagnia, nella fattispecie allo non smaltimento di detriti e residui tossici (nell’estrazione dell’oro si usa cianuro). Baidoo è oggi disabile ed incapace di svolgere lavori agricoli. La AngloGold, che è in parte di proprietà dei benefici geni della Banca Mondiale, ha pagato le spese mediche che hanno consentito all’uomo di sopravvivere solo dopo una fulminante campagna di pressione organizzata da Emelia Amoateng, leader dell’Associazione degli Agricoltori Preoccupati di Teberebie.

Molti in Ghana non percepiscono come “normale” o “accettabile” che una donna guidi una lotta politica e sociale, tuttavia Emelia è la voce riconosciuta e stimata della propria comunità e nessuno degli uomini di Teberebie le nega sostegno. Di base, Emelia chiede una cosa di cui compagnie transnazionali, banche mondiali, fondi monetari, agenzie di rating eccetera non conoscono purtroppo il significato. Rispetto. Rispetto per i residenti locali, rispetto dei loro diritti umani, rispetto per le acque, per la terra, per la connessione inestricabile fra vita umana ed ambiente.

Nel distretto occidentale di Wassa, dove Teberebie si situa, oltre due terzi della terra sono stati venduti a compagnie multinazionali e le miniere d’oro a cielo aperto hanno reso profughe decine di migliaia di persone. I fiumi e le sorgenti sono state contaminate, fattorie e foreste distrutte. Gli abitanti del distretto soffrono di tutta una serie di problemi di salute, dalle più “leggere” congiuntiviti croniche ed eruzioni cutanee a silicosi e tubercolosi, passando per le epidemie di malaria e le difficoltà respiratorie congenite nelle generazioni più giovani.

Emelia Amoateng ha denunciato la AngloGold Ashanti e chiede compenso per le zone agricole devastate e le esistenze distrutte: mobilitando l’intera comunità ha tracciato con sicurezza la provenienza degli inquinanti in suolo ed acque; ha guidato i suoi compaesani in una marcia attraverso il distretto sino alla sua capitale per presentare alle autorità locali la situazione; continua ad allertare i media sugli effetti della miniera detta Iduapriem, che produce oltre 300.000 once d’oro l’anno e che sarà attiva almeno sino al 2018. Gli abitanti di Teberebie hanno a che fare con i suoi mucchi di immondizia letale dal 1991; i cumuli di detriti bloccano i rivi, pile e pile di scarti ammorbano l’intera zona e gli agricoltori sono stati costretti a spostarsi sino a 18 chilometri di distanza per trovare terra di nuovo coltivabile. L’aria è talmente infusa di elementi tossici da crepare i muri delle case. L’Istituto Ghanese di Ricerca sulle Acque ha concluso che l’acqua presente attorno alla miniera non è adatta ne’ all’irrigazione ne’ agli usi di cucina, figuriamoci il berla, perché pesantemente contaminata.

Durante lo scorso anno, le attività di Emelia Amoateng hanno costretto i rappresentanti della AngloGold ad ammettere di aver sversato cianuro ed altri veleni nei ruscelli usati come fonti di acqua potabile e per l’irrigazione nei campi. “Non possiamo coltivare piante sane, non possiamo raccoglierne nella foresta. I nostri diritti al cibo, all’acqua, alla salute, alla vita stessa, garantiti da leggi nazionali ed internazionali, sono clamorosamente violati.”, dice Emelia. Gli scherani prezzolati (pardon, i “contractors”) della compagnia mineraria continuano a sventolare in giro le loro armi e a minacciare i residenti o ad usare violenza contro di loro: ogni volta in cui succede Emelia sveglia i media globalmente e chiede il sostegno di organizzazioni ambientaliste e pro-diritti umani, perché ha scoperto che la pubblicità negativa dà un po’ fastidio ai signori della AngloGold. Ed è grazie a ciò che io posso raccontarvi oggi questa storia ed essere parte del fastidio.

Emelia ha 31 anni ed è madre di due bimbi piccoli. Vuole fare il suo lavoro di attivista al meglio, soprattutto per donne e bambini a cui – come al solito – tocca una quota maggiore di sofferenze, perciò ha deciso di diventare avvocata. In questo momento, sta studiando per essere ammessa agli studi liceali. Maria G. Di Rienzo

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