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“Pregherei la regia di inquadrare l’assistente donna che è una cosa inguardabile (…) Annalisa Moccia, cosa impresentabile per un campo di calcio (…) E’ uno schifo vedere le donne venire a fare gli arbitri in un campionato in cui le società spendono centinaia di migliaia di euro, è una barzelletta della Federazione una cosa del genere.” Sergio Vessicchio, giornalista e telecronista calcistico per l’emittente locale CanaleCinqueTv.

Ho visto il video, ho ascoltato le parole e devo ancora capire perché la normalissima sig.a Moccia fosse “inguardabile” e “impresentabile”, sebbene abbia compreso subito perché fosse una cosa, anzi più esattamente perché fosse uno scioglilingua: una cosa che deve stare in casa e in chiesa e tenere la bocca chiusa. Id est, una femmina.

Vessicchio è stato sospeso dall’Ordine dei giornalisti della Campania (e non per la prima volta) senza mercé e senza che nessuno gli allungasse un bicchiere di effervescente Brioschi per alleviare la sua nausea alla vista di una donna arbitro. Potrebbe avere l’ulcera, essere incinto o aver rimasticato un po’ troppa misoginia ritrovandosela poi attaccata ai denti… cerchiamo di capirlo, questo poveretto.

E comunque si è scusato e ha spiegato come lo abbiamo frainteso, davvero, leggete qua:

1. “Mi rendo conto di avere usato degli attributi forti, per questo chiedo totalmente scusa, anche perché ritengo che le donne abbiano un’intelligenza straordinaria.”

Quali attributi, mister? Si riferisce agli aggettivi “inguardabile” e “impresentabile” (“schifo” è un sostantivo)? Non sono forti, nel contesto sono inappropriati e insultanti, esattamente come il “senso di disgusto provocato da cosa o persona fisicamente o moralmente ripugnante” che il dizionario fornisce quale definizione del sostantivo suddetto. Lei non ha detto di nulla di altamente controverso e quindi non giudicabile e da rubricare come “forte opinione”, lei ha espresso un profondo disprezzo per Annalisa Moccia e per ogni donna che non si conformi alla sua abominevole visione patriarcale del genere femminile. Non occorre un’intelligenza straordinaria, per capirlo, può riuscirci anche lei.

2. “La cosa è stata travisata e strumentalizzata a tutti i livelli.”

Come, dove? La sua telecronaca è accessibile e verificabile. Le parole che lei ha pronunciato sono quelle riportate fra virgolette nell’incipit e sono espresse così chiaramente da rendere impossibile il mistificarle.

3. “Non sono sessista, non sono razzista, sono per l’integrazione a 360°, ho fatto una stupidaggine, ho sbagliato i modi nell’esprimere il mio pensiero.”

Modalità inadeguate, quindi, ma pensiero corretto: lei crede sul serio che riformulare le sue frasi in tono più educato le trasformerebbe in qualcosa di accettabile? Vediamo: “Pregherei la regia di inquadrare l’assistente donna, Annalisa Moccia, che riveste a mio parere un ruolo improprio in quanto il denaro speso dalle società deve beneficiare esclusivamente il genere maschile, dopotutto pagare meno una donna o non pagarla affatto significa amarla di più, come afferma anche un nobile filosofo della discriminazione…” Eh, mi dispiace, resta sempre una stronzata.

4. Tenetevi forte, perché questa è la VERA RIVELAZIONE: Vessicchio non ce l’aveva con le donne, perbacco, voleva “attaccare la Federazione”!

Non possiamo accettarlo – non io, non il Capitano Kirk, non la Tenente Uhura e non il signor Spock. Non esiste alcuna giustificazione per l’attacco alla Federazione Unita dei Pianeti (o Federazione dei Pianeti Uniti e comunemente chiamata Federazione), repubblica federale interstellare basata su principi universali di libertà, diritti, uguaglianza e condivisione di conoscenze e risorse nella cooperazione pacifica per l’esplorazione spaziale. La Flotta Stellare è in stato di allarme e pronta a respingere qualsiasi aggressione.

Il sedicente giornalista televisivo ammetta di essere un Romulano guerrafondaio e si consegni alla clemenza della Federazione prima di provocare (altri) danni. Non impedirà all’astronave Enterprise, e tanto meno a noi donne, di “esplorare strani nuovi mondi, di cercare nuova vita e nuove civiltà, di andare coraggiosamente dove nessun altro è mai andato prima” – anche nei campi di calcio.

Maria G. Di Rienzo

weyoun

“Romulani. Così prevedibilmente infidi!” – Weyoun, Star Trek: Deep Space Nine – Stagione 7

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“Non permettere che nessuno ti derubi della tua immaginazione, della tua creatività, della tua curiosità. Si tratta del tuo posto nel mondo, si tratta della tua vita. Vai avanti e fai con esse tutto quel che puoi, fai di esse la vita che tu vuoi vivere.” Mae Jemison.

mae

Mae, nata nel 1956, è stata la prima astronauta afroamericana. La sua vita meriterebbe un romanzo per essere raccontata adeguatamente, ma qualche informazione non guasterà. Da bambina era una fan di “Star Trek” e la Tenente Uhura era la sua eroina (Mae inizierà in seguito tutte le sue missioni spaziali con la battuta tipica di quest’ultima ‘Hailing frequencies open’ – ‘Frequenze di contatto aperte’). “Durante l’infanzia ero come tutti gli altri bambini. Amavo lo spazio, le stelle e i dinosauri. Ho sempre saputo di voler esplorare. All’epoca della trasmissione sull’Apollo tutti erano eccitati rispetto allo spazio, ma io ricordo di essermi sentita irritata dal fatto che non c’erano donne astronaute. La gente tentò di darmi spiegazioni, ma io non ne accettai nessuna.”

Il suo dilemma su quale passione seguire negli studi, la scienza o la danza, fu risolto da sua madre: “Se sei un medico puoi ballare comunque, ma non puoi curare nessuno se sei una ballerina.”

Così, Mae si laureò in medicina e si unì ai Corpi di Pace (Peace Corps, organizzazione di volontariato internazionale) servendo come ufficiale medico per Liberia e Sierra Leone dal 1983 al 1985. Al suo ritorno entrò nella Nasa e nel 1992 era a bordo della navetta Endeavour.

Durante gli anni le sono state conferite nove lauree onorarie in scienze, ingegneria, lettere e studi umanistici. E’ apparsa in televisione più volte e persino in un episodio di Star Trek: The Next Generation.

Dopo aver lasciato la Nasa ha fondato il Jemison Group, che sviluppa progetti scientifici e tecnologici per gli usi quotidiani, ma è anche la direttrice del “100 Year Starship”, progetto che mirando a un futuro viaggio attraverso il sistema solare si impegna a migliorare i metodi di riciclo e a creare carburanti “verdi” e più efficienti.

Per lei il famoso “sogno” di Martin Luther King Jr. non è un’inafferrabile fantasia, bensì una chiamata all’azione, poiché il movimento per i diritti civili voleva rompere le barriere poste al potenziale umano e Mae rende il concetto così: “Il miglior modo per rendere i sogni realtà è svegliarsi.” Maria G. Di Rienzo

mae oggi

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Probabilmente non l’avrei notato – ne’ i film ne’ le serie successive all’originale hanno mai avuto per me lo stesso fascino dello Star Trek che seguivo da bambina – ma…

star trek michelle

… vedere la bravissima Michelle Yeoh nei panni di una capitana d’astronave, nel trailer del prossimo sceneggiato della CBS (uscirà questo autunno) è irresistibile!

La storia è ambientata 10 anni prima dell’epoca del capitano Kirk e del sig. Spock ecc., seguirà in 15 puntate le avventure di una nave spaziale chiamata “Discovery” e avrà come protagonista principale un Primo Ufficiale di sesso femminile – l’attrice Sonequa Martin-Green – il cui viaggio personale consiste nell’arrivare a comprendere che “per capire qualsiasi cosa classificata come aliena deve prima imparare a capire se stessa”.

Il trailer, se YouTube non mi fa scherzi, potete vederlo qui:

https://www.youtube.com/watch?v=f8mesUEFjas

Incrociando le dita, trovo promettente si apra sull’immagine di due donne di colore che attraversano un deserto e non con fanfare che sottolineano l’eroismo di qualche astronauta bianco e maschio o con le evoluzioni eccezionali di un’astronave nello spazio, sembra più “umano” e più attento a cogliere le differenze. In effetti, la serie avrà anche un personaggio dichiaratamente omosessuale, – è la prima volta per Star Trek – un ufficiale scientifico di nome Stamets.

Una curiosità: le orecchie a punta questa volta le porta James Frain (uno dei “cattivi” di Orphan Black) nel ruolo del padre del mitico sig. Spock – naturalmente è un padre un po’ stronzo, come potrete desumere dal trailer. Non seguo l’attore in modo particolare ma ogni volta in cui mi imbatto in lui in sceneggiati e film fa la carogna.

Ad ogni modo, sono di nuovo pronta ad “attraversare lo spazio alla ricerca di nuovi mondi e nuove civiltà.” Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “Demanding the Impossible: Walidah Imarisha Talks About Science Fiction and Social Change”, una più ampia intervista di Kristian Williams, 13 aprile 2015, trad. Maria G. Di Rienzo.

Vi ricordate di Walidah Imarisha, vero? https://lunanuvola.wordpress.com/2013/12/15/la-prole-di-octavia/ )

Prima di essere una poeta, una giornalista, una documentarista, un’attivista nelle prigioni e un’istruttrice al college, Walidah Imarisha era affascinata dai Klingon e dagli Elfi. Lo è ancora.

“La prole di Octavia”, una nuova antologia edita da Imarisha e dalla studiosa di fantascienza, scrittrice e facilitatrice Adrienne Maree Brown, raccoglie i racconti di 23 attivisti e organizzatori politici. Costoro usano fantascienza, fantasy e horror per riflettere sulle esperienze relative all’oppressione, le sfide poste dalla resistenza e la possibilità di nuovi mondi basati sulla giustizia.

All’inizio di aprile, poco prima dell’uscita ufficiale del libro, Imarisha ed io ci siamo seduti insieme a parlare delle connessioni fra fantascienza e attivismo.

octavia's brood

Perché la fantascienza?

WALIDAH IMARISHA: La fantascienza è l’unico genere letterario che non solo ti permette di lasciare da parte tutto quel che ti è stato insegnato come “realistico”, ma in effetti richiede tu lo faccia. In questo modo ti consente di muoverti oltre i confini di quel che è realistico e quel che è reale, nel regno nell’immaginazione: il che è, invero, quanto gli organizzatori fanno ogni singolo giorno. Tutto il lavoro organizzativo è fantascienza. Quando gli organizzatori immaginano un mondo senza povertà, senza guerra, senza confini o prigioni – quella è fantascienza. Essere capaci di sognare collettivamente questi nuovi mondi significa che possiamo cominciare a crearli, qui.

Cosa può dirci il femminismo della fantascienza? In particolare sulle convenzioni del genere e il modo in cui le storie sono narrate? In che modo la fiction “visionaria” ci aiuta a comprendere il femminismo, in particolare?

WALIDAH IMARISHA: In maggioranza, le persone che sono state coinvolte in questo processo, e che amavano la fantascienza prima di essere coinvolte, si sono sempre sentite marginalizzate. Intendo, io sono cresciuta come una secchiona. Mi piace ancora Star Trek. Ho passato fin troppo tempo ad imparare nomi di pianeti e linguaggi che non esistono in alcun contesto utile. Pure, quei mondi non erano creati da me, non mi comprendevano. Avevo ben chiari i limiti della fantascienza mainstream nella sua capacità di interagire con le complessità della mia identità o con il fatto che gente come me riuscisse a vivere nel futuro.

Penso sia per questo che Octavia Butler e altri scrittori di sf che hanno infuso nei loro lavori un senso di giustizia e scritto dal punto di vista della gente di colore siano così importanti: perché hanno operato un mutamento nel modo in cui guardiamo a noi stessi.

La prima volta in assoluto in cui ho visto una persona nera in un libro di fantascienza l’ho dovuta a “Kindred” di Octavia Butler. Sono una liceale in una libreria dell’usato e fisso questa copertina su cui ci sono due volti di donne nere che si incrociano… era la prima volta in cui vedevo persone che mi assomigliavano sulla copertina di un libro di fantascienza. Ho pensato: Non ho bisogno di leggere il riassunto in quarta, questo lo compro, ovviamente e intendo leggere qualsiasi altra cosa l’autrice abbia scritto!

Riguarda il dare alle persone il potere di scrivere se stesse nella storia. Sfidare l’idea che solo determinate persone sono abilitate a creare la narrativa su cosa sarà il futuro è anche sfidare l’idea che solo determinate persone abbiano la capacità di costruirlo, o di immaginare come le nostre vite dovrebbero essere strutturate.

Uno dei princìpi della fiction visionaria è rendere centrali le persone che sono state marginalizzate. Tu sai che la stragrande maggioranza dei personaggi creati da Octavia Butler sono giovani donne di colore. Quando noi guardiamo attraverso gli occhi di persone con identità intersezionali – razza, genere, nazionalità, abilità – non solo spostiamo il modo in cui guardiamo il mondo, ma trasformiamo questo modo completamente. E trasformiamo anche ciò che crediamo essere liberazione.

Per me, come femminista, questa è una convinzione di base: il muovere le persone che sono state marginalizzate al centro della scena, non per poterle assimilare all’esistente struttura oppressiva di potere, ma in modo da guardare alla liberazione tramite nuovi occhi. Il racconto di Leah Lakshni Piepzna-Samarasinha nella nostra antologia, “Bambini che volano”, è uno straordinario esempio di ciò. L’idea di fondo è che ci sono questi sopravvissuti al trauma, per lo più sopravvissuti ad abusi sessuali patiti da bambini, e stanno attraversando un processo dissociativo – il che, come ci viene detto, è un problema, giusto? Qualcosa su cui tu ti devi impegnare, per curarlo, qualcosa per cui devi andare in terapia. Ma la storia, invece di dire che queste donne di colore, queste persone transessuali, sono “rotte”, suggerisce che la loro capacità di uscire dai corpi è finalizzata ad unire le loro energie per cominciare a guarire questo “rotto” mondo. Penso sia una rilettura incredibilmente potente.

La questione identitaria è davvero centrale a molti dei racconti. Ma queste storie sono anche destabilizzanti delle stesse identità che narrano: costringono il lettore a riflettere davvero sul modo in cui razza e genere sono costruiti. Perciò, portano l’attenzione sull’idea di identità ma la mettono anche in discussione. Era parte del progetto iniziale o è risultato così per via delle persone a cui hai chiesto di scrivere i racconti?

WALIDAH IMARISHA: Penso sia parte di quel che significa avere organizzatori, attivisti, agenti del cambiamento, che scrivono queste storie: sono persone che hanno le loro radici nell’idea di costruire nuovi mondi. Vedono le complessità perché le vivono. Una cosa è leggere sul giornale della brutalità della polizia e pensare di scriverci su una storia, un’altra è essere sul territorio, organizzarsi, andare a una dimostrazione, confrontarsi con la polizia, lavorare con i familiari di chi ha subìto la violenza della polizia. Ciò ti fornisce una cornice che ha più sfumature, è più complessa e vera, e nei termini della costruzione di un nuovo mondo è più “utile”.

Molti degli autori sono persone che vivono nelle intersezioni delle identità: donne queer di colore, giovani con disabilità, molte identità multiple allo stesso tempo. Perciò riconoscono che il modo semplicistico in cui noi parliamo delle identità – razza o genere o sessualità – non funziona. Le categorie suddette sono dinamiche e interattive e questo conferisce la capacità di essere visionari.

astronaute

Una delle persone che ha contribuito al progetto del libro, Morrigan Phillips, ha creato un seminario dal titolo “Fantascienza e organizzazione di azioni dirette”. Prende dei mondi esistenti nella letteratura fantastica, come Oz o Mordor, e ti chiede di scegliere le persone marginalizzate al loro interno, di creare uno scopo per esse e di sviluppare azioni dirette per raggiungere tale scopo. E’ il seminario più divertente del nostro pianeta, e anche di qualsiasi altro pianeta! Ti trovi con le scimmie volanti di Oz che reclamano il diritto al ritorno, perché sono state portate via dalla loro terra natale. E ti trovi con i combattenti Uruk-hai a Mordor che si sollevano contro i loro padroni schiavisti, o con il Fronte di Liberazione degli Elfi che crea corsi di istruzione politica.

Certo molti di questi mondi fantastici sono “problematici”, ma questo non significa che dobbiamo gettarli da parte. Se abbiamo investito del tempo in essi, vuol dire che per qualche ragione ci hanno parlato. Per cui sì, Star Trek ha come sfondo una forza militare che sta colonizzando l’intera galassia, è assolutamente problematico e io – santo cielo – ho imparato la lingua dei Klingon. Il nostro punto di vista al proposito è rendere le persone legittimate a interagire con questi mondi, a ri-visualizzarli e reinterpretarli in modo da rispondere ad essi e sovvertirli. E, di converso, l’altro lato della faccenda è sentirsi abbastanza potenti da creare cambiamenti.

Noi nei movimenti radicali spesso lottiamo “contro” qualcosa invece di costruire qualcosa d’altro. E dobbiamo certamente fare ciò, ma non vogliamo neppure consumare l’intera nostra energia nella semplice sfida all’esistente. Dobbiamo coltivare la nostra capacità di sognare quel che sarà, e renderlo reale. Questo è il modo in cui tutti i cambiamenti più significativi sono avvenuti.

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ballerine klingon

(fotografia di Ashley Eckstein)

Nell’universo fantascientifico di “Star Trek”, la cultura del popolo Klingon è definita essenzialmente come “guerriera”, con tutto il corollario di violenza, militarismo, schiavismo, suicidi per onore e cibi ancora vivi e vini al sangue che se non conoscete potete facilmente immaginare: la loro mitologia insegna persino che i primi Klingon uccisero gli dei che li avevano creati.

Ma queste immagini (di fan in costume alle convention) mostrano che c’è sempre speranza.

Anche i Klingon possono essere giocosi, allegri e pacifici.

Diamoci da fare in questo senso, umanità, e abbandoniamo la violenza: o al 23° secolo – quello in cui inizia la storia di “Star Trek” – mi sa che non ci arriviamo proprio. Maria G. Di Rienzo

klingon elvis

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L’aneddoto che sto per raccontarvi le/gli appassionate/i di fantascienza lo conoscono già, ma poiché la sua protagonista l’ha narrato di nuovo con molto piacere di recente, durante il Mese della Storia delle Donne (questo marzo, intervista filmata), lo riporto anch’io per chi è nuovo/a all’ambiente o per chi vuole rinfrescarsi la memoria.

Durante la mia infanzia, mi imbarcavo spesso idealmente su un’astronave, la Enterprise, che compiva missioni quinquennali nello spazio alla ricerca di nuovi mondi e nuove civiltà. Naturalmente sto parlando della serie originale di “Star Trek” (1966) che se non veniva trasmessa sui canali Rai mi andavo a cercare su TeleCapodistria – dove la mandavano in lingua inglese con sottotitoli locali (uno spasso: capivo una parola su dieci ma le lingue erano una mia passione già allora). Credo che a modo suo “Star Trek” abbia contribuito a rafforzare la mia propensione ad essere semplicemente curiosa, e non timorosa, delle persone o delle cose strane e nuove; dopotutto, gli extraterrestri erano sempre, più o meno, tali e quali a noi: avevano solo l’abitudine di far avventurare matita nera e eye-liner in zone del viso che tali manufatti non avevano mai visitato prima…

Dott. Spock

L’equipaggio dell’Enterprise era di per sé una festa dell’incontro e della coesistenza fra persone diverse (compreso un “alieno”, il vulcaniano dott. Spock) per etnia, provenienza, genere, ed ebbe anche il pregio di presentare in tv una donna di colore, per la prima volta, in un ruolo non stereotipato come domestica, balia, serva, ecc.. Sto parlando di Nichelle Nichols, e cioè della Tenente Uhura: donna, nera e quarta in comando nel periodo in cui i neri americani maschi e femmine stavano lottando per essere trattati almeno come esseri umani. Il successo della serie testimoniò sin dall’inizio che la presenza di Uhura era vissuta bene (forse anche i razzisti e i sessisti più accaniti pensavano che avrebbero perso qualche partita entro il 23° secolo…), ma quando in un episodio si mostrò il primo bacio inter-razziale, fra la Tenente di colore e il Capitano bianco Kirk, l’audience andò un po’ in fibrillazione. Il bacio era stato telepaticamente indotto da alieni, ma la sua immagine, avulsa dal contesto dell’episodio, restava piantata là come un monito, l’orribile incredibile sconcertante disgustoso monito che l’amore è cieco ai colori, intesi nei significati arbitrari che noi attribuiamo ad essi.

Uhura

Nell’intervista, Nichelle dice che le reazioni negative di parte del pubblico e i dispetti razzisti del personale dello studio televisivo – tipo il gettare via la posta dei fans – l’avevano convinta a lasciare la serie: aveva già scritto la sua lettera di dimissioni. Ma un visitatore le fece cambiare idea. “C’è un tuo ammiratore, vorrebbe vederti.”, le annunciarono misteriosamente. “E quando mi girai non riuscivo a credere ai miei occhi. Non lo avevo mai incontrato prima. Era Martin Luther King jr.” Il dott. King era entusiasta della presenza di Nichelle Nichols in “Star Trek” ed era venuto a dirle di non essere il solo: sua moglie, altre donne di colore, le ragazze e le bambine di colore, erano fiere della Tenente Uhura. Il suo ruolo simbolico di apripista per le donne afroamericane era troppo importante. Poteva Nichelle restare al suo posto sull’Enterprise, per questo? Nichelle restò. E quando la serie finì, lavorò sino al 1987 come reclutatrice di aspiranti astronauti per la Nasa: il primo astronauta di colore, Guion Bluford, e la prima donna astronauta, Sally Ride, furono due dei suoi successi. Poi Nichelle tornò a cantare, che era la sua originaria vocazione, recitò nei musical, scrisse due libri e non mancò mai, ne’ manca a tutt’oggi, di partecipare alle feste dei “trekkers”, gli irriducibili fans della serie televisiva. E’ la splendida signora che vedete qui sotto. Maria G. Di Rienzo

Nichelle Nichols

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