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“Guarda com’erano belli magri!”, disse qualche anno fa una dirigente di una grande cooperativa di distribuzione alimentare, indicando la fotografia di bambini denutriti nell’immediato dopoguerra. Nessuno dei presenti le rispose che se era uno scherzo non faceva ridere e neppure la invitò a considerare l’ipotesi di cercare di curarsi dall’ossessione “grassofoba”. Perché quel giorno, come tutti i giorni da anni e prima e dopo quello specifico giorno, non c’era media cartaceo o virtuale che non avesse minimo un articolo (ma in genere sono più d’uno) su come perdere peso, sul dovere di perdere peso – soprattutto per le donne, sulle conseguenze apocalittiche del non perdere peso (ormai le hanno dette proprio quasi tutte: mancano l’invasione di cavallette e la peste bubbonica).

Poi ieri, 23 giugno 2020, arriva in cronaca quel che è la “normale” vita da perseguitati destinata ai bambini che non sono “belli magri” – espressione che ormai è una figura retorica, in quanto i due termini sono diventati sinonimi. I giornali lo fanno così:

– Napoli, bullizzata dagli amici perché obesa: 12enne in ospedale

– Bullizzata su instagram perché obesa, 12enne finisce in ospedale per una sincope

– Napoli, bullizzata dagli amici su Instagram: «Fai schifo, cicciona», 12enne finisce in ospedale

All’interno dei pezzi si specifica che la ragazzina è stata insultata, minacciata, svergognata con immagini pubblicate online… non a causa della stronzaggine abissale e dell’interiorizzazione dell’odio grassofobo da parte dei suoi aguzzini (un 14enne e una 13enne) ma “per i suoi chili di troppo” o perché “è sovrappeso”. Nessuno usa la semplice parola “grassa” o qualcuno dei suoi equivalenti eufemistici quali tondetta, paffuta eccetera: capite, facendolo si potrebbe suggerire fra le righe che la condizione della fanciulla sia accettabile, invece la sua responsabilità nel non essere aderente al modello prescritto socialmente dev’essere chiara.

Le minacce si sono estese alla madre che ha cercato di mettere fine allo stalking: i due sbruffoncelli la informano che si sta organizzando un pestaggio della ragazzina e che “più continui più la pestiamo… dimostra un po’ di affetto per tua figlia”. Dopo il crollo della dodicenne, la madre ha presentato denuncia ai carabinieri.

Cosa credete ci fosse tutt’intorno alla notizia? Diete, prove bikini, ululati finto-medici, perentori inviti a “mettersi in forma” e il nuovo sensazionale metodo “pincopallo” con cui la celebrità di turno è dimagrita.

L’avvocato dei due giovanissimi bulli (come futuri mafiosi promettono bene, ma potrebbero avere carriere eccellenti anche nell’ambito fitness) troverà assai facile argomentare che le loro azioni erano motivate dalla preoccupazione per la salute fisica e mentale della loro “amica” – letteralmente infatti, almeno per il momento, hanno distrutto entrambe.

Maria G. Di Rienzo

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Rukhshanda Naz

Sino a che una donna non sarà riconosciuta come più che solo una madre, una sorella, una figlia e le sarà dato valore perché è una persona, io continuerò a lavorare per i nostri diritti. Rukhshanda Naz, femminista, avvocata e attivista per i diritti umani, Pakistan

Il Mattino di Padova, 9 marzo 2020

“Moglie, mamma e cardiochirurgo: è il mio sogno che si realizza a Padova” Assunta Fabozzo, 37 anni, è la prima donna con il bisturi a entrare nell’équipe chirurgica del professor Gino Gerosa. “Ho scelto Padova per la specializzazione, è stata dura ma entusiasmante e ora raccolgo i frutti di tanto lavoro”.

Nella foto c’erano Gino Gerosa – presumibilmente “marito, padre e cardiochirurgo”, ma nel suo caso ciò non era evidenziato – e la dottoressa Fabozzo.

La Repubblica, 10 marzo 2020

“Femminicidi, Bolzano: 28enne uccisa dal suo stalker. – La Procura di Bolzano sta indagando per l’uccisione di una donna, Barbara Rauch, 28 anni, accoltellata nell’enoteca che gestiva (nda: a San Michele di Appiano). Un suo conoscente è stato arrestato dai carabinieri con l’accusa di omicidio aggravato. Secondo le prime indiscrezioni l’uomo la perseguitava ed era già stato sottoposto a fermo.”

Queste due notizie – che, ovviamente, si sono ripetute in passato e si ripeteranno in futuro – bastano da sole a illustrare la percezione delle donne da parte della società italiana. Moglie e mamma e attrezzo scopabile che se si rifiuta muore.

Non ho particolare simpatia per la senatrice americana Elizabeth Warren, ma questa sua frase illustra la situazione in modo perfetto: “Se non hai un posto a tavola, molto probabilmente sei sul menu”.

Maria G. Di Rienzo

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In prossimità della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne – 25 novembre – i quotidiani italiani commentano i dati forniti dalla polizia. I titoli sono più o meno di questo tipo: “Violenza sulle donne, una vittima ogni 15 minuti, 88 al giorno”, gli occhielli spiegano che “Vittime e carnefici sono italiani nell’80 per cento dei casi” (Salvini non ha commentato), negli incipit è assai frequente il termine “dati agghiaccianti” (ma in realtà, come vedremo, non si agghiaccia nessuno) e le illustrazioni sono le solite (schifezze): modella incastrata in un angolo in posizione fetale e in primo piano braccio di un uomo con la mano stretta a pugno; modella che alza un braccio con la mano aperta e distoglie il volto, ecc.

Il rapporto della polizia di stato fotografa una situazione che appare insuscettibile di mutamento: “Senza distinzione di latitudine, l’aumento di vittime di reato di sesso femminile è lo stesso in Piemonte come in Sicilia.”, di queste “Il 36% subisce maltrattamenti, il 27% stalking, il 9% violenza sessuale e il 16% percosse.”, “L′82% delle volte chi fa violenza su una donna non deve introdursi con violenza nell’abitazione, ha le chiavi di casa o lei gli si apre la porta: è infatti quasi sempre il compagno o un conoscente.”, “Il femminicidio è rimasto praticamente stabile ma è un dato che preoccupa a fronte del fatto che, nello stesso periodo, gli omicidi con vittime di sesso maschile sono diminuiti del 50 per cento.”

“Unico dato consolante del report – spiegano gli articoli – è la maggiore coscienza dei delitti subiti, una rinnovata propensione e fiducia nel denunciare: è aumentato, insomma, il numero di vittime che considerano gli atti violenti subiti un reato.” E questi stessi articoli sono circondati, ovviamente e purtroppo, da altri pezzi con titoli del tipo: “Stupra la moglie con gli amici prima della separazione. Arrestato 40enne nel lecchese – L’uomo è accusato anche di lesioni nei confronti del figlio minorenne” o “Torino, perseguita la ex: stalker arrestato due volte in 4 mesi – L’uomo è finito in manette perché, 10 giorni dopo la scarcerazione, è tornato a perseguitare la ex moglie”.

Le vittime hanno più consapevolezza di star subendo un torto, quindi, ma ai perpetratori non è arrivato un milligrammo di coscienza in più: perché a loro la società nel suo complesso non sta inviando messaggi diversi dal solito, solito sintetizzabile in “le donne sono tutte troie, false e vittimiste, provocano la violenza e poi denunciano per incastrare gli uomini e spillare loro soldi”.

In cronaca, attualmente, c’è anche questo:

“La Corte di Isleworth ha deciso: sette anni e mezzo di carcere per Nando Orlando, 25 anni, napoletano, e Lorenzo Costanzo, il suo amico bolognese di 26 anni, accusati di aver abusato di una ragazza australiana, in una stanzetta all’interno di una discoteca londinese, nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2017”.

https://lunanuvola.wordpress.com/2019/10/17/cosa-ci-vuole/

La giovane donna in questione, reitero per chi non ha voglia di andare al link, ha dovuto essere operata per le lesioni subite durante… un frizzante rapporto occasionale e del tutto consensuale con due aitanti sconosciuti:

“Nando e Lorenzo non si erano accorti che quella ragazza era ubriaca, li aveva provocati mentre ballava, segnale chiaro – secondo l’avvocato Maurizio Capozzo – che ci stava.”

Non occorre che una donna dica, basta che segnali. Questo è il “consenso secondo Capozzo et al.”: l’interpretazione delle segnalazioni è demandata ai maschi di turno ed è pertanto incontestabile.

Ma non basta. Per Nando Orlando, nella natia Napoli, è subito partita “la mobilitazione tra gli amici” che “hanno organizzato una vera e propria catena di solidarietà” inviando a centinaia di persone messaggi su Whatsapp con la richiesta di inviare mail ai giudici inglesi.

“Sarai sicuramente a conoscenza dell’ingiustizia della quale è rimasto vittima, – scrivono gli amici – di conseguenza ti vorrei chiedere di scrivere una mail per spiegare come lo conosci, che tipo di persona è, e soprattutto che non fa uso di droga o abuso di alcol.” Altri suggerimenti includono il descrivere “il suo comportamento (da gentiluomo) nei locali notturni” e il sottolineare “l’impatto negativo” del carcere sul futuro di questo irreprensibile giovanotto “che ha sempre studiato”.

A me gli amici di Nando “agghiacciano” più delle percentuali del rapporto citato all’inizio. Il pensiero della sofferenza della ragazza non li sfiora neppure. Come la vicenda avrà impatto sul futuro di lei è per loro irrilevante. L’essere stata stuprata diventa un’ingiustizia subita dai suoi stupratori. La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. (1984, George Orwell)

Voi capite, vero, perché a breve quei dati – una vittima ogni 15 minuti, 88 al giorno – non cambieranno?

Maria G. Di Rienzo

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I casi della vita. Ho appena finito di vedere la serie tv “Unbelievable” – 8 puntate basate su una storia vera, che si dipanano su due filoni narrativi: il trattamento che una vittima di violenza sessuale riceve dal sistema giudiziario statunitense (la sua testimonianza non è considerata credibile dalla polizia ed è persino costretta a pagare una multa per aver “mentito”) e la caccia allo stupratore seriale intrapresa da due investigatrici molto diverse l’una dall’altra ma entrambe profondamente umane, fallibili e irriducibili al tempo stesso, animate dalla passione etica che ispira il loro lavoro.

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Poi leggo questo: “9 ottobre – Dottoressa denuncia stupro in guardia medica, imputato prosciolto: «Querela presentata in ritardo». Il gup del Tribunale di Bari Antonella Cafagna ha prosciolto il 52enne di Acquaviva delle Fonti Maurizio Zecca dal reato di violenza sessuale nei confronti di una dottoressa in servizio presso un ambulatorio di guardia medica della provincia di Bari «per difetto di tempestiva querela».”

La dottoressa ha subito più di un anno di stalking da parte dell’uomo, minacce di morte comprese, e a causa di ciò ha cambiato in breve tempo tre sedi lavorative: per questo il suo persecutore ha ricevuto una condanna a sei mesi, ma attualmente è ai domiciliari e il processo è in appello. Per lo stupro, è stato dichiarato il “non doversi procedere”.

Forse fra qualche anno qualcuno userà la storia per realizzare un bellissimo sceneggiato come “Unbelievable”, dove lo stupro non sarà edulcorato ne’ reso appetibile, dove risulterà evidente che donne di qualsiasi età e tipologia corporea ne sono vittime e dove il danno che la violenza sessuale infligge alle loro vite sarà mostrato in tutta la sua ampiezza. Qualcuno, come per la serie americana, lamenterà il fatto che la prospettiva usata per la narrazione sarà “troppo femminile”. Ma non c’è da preoccuparsi, la prospettiva maschile che giudica le donne prede e oggetti e proprietà e materiale ambulante da stupro sarà ancora quella principale, quella giustificata e giudicata non meritevole di condanna.

Maria G. Di Rienzo

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La risposta prima della domanda: qui di seguito ci sono quattro notizie pescate dalle prime pagine odierne di quotidiani a tiratura nazionale.

Bologna: Uccisa e data alle fiamme, l’ex fermato a Ventimiglia.

“Lei lo aveva lasciato dopo che lui aveva messo le mani addosso a sua figlia, un’adolescente avuta da una precedente relazione: quelle molestie sessuali avevano portato a una denuncia e a un divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dall’ex fidanzata e dalla ragazzina, ma in più occasioni l’uomo aveva vìolato il provvedimento, scatenando violenti litigi.”

Ferrara: Cinzia Fusi, lacrime per il funerale della donna uccisa dal compagno.

“Il motore di tutto sarebbe la gelosia. Gelosia per quella partner di quasi vent’anni più giovane, mescolata al timore di essere tradito e ai sospetti che le rassicurazioni della ragazza non erano bastati a placare.” Poi, ovviamente, gli è venuto il raptus e il signore è stato da esso costretto a “impugnare un mattarello da cucina e a colpire ripetutamente alla testa la compagna fino a ucciderla.”

Roma: 13enni bloccate e palpeggiate nell’ascensore di casa a Prati.

“Minuti di terrore ieri, per tre ragazzine di 13 anni, studentesse prossime ad andare in terza media, che si sono ritrovate nella morsa dell’uomo, un italiano tra i 30 e i 40 anni che ha abusato di loro, tentando, in particolare di violentarne una.”

Napoli: Violenza sulle donne e stalking, in procura venti denunce al giorno.

La domanda è in realtà un cluster di domande: chi diamine è Luca Argentero, quali titoli possiede per misurare la “giusta dose” di femminismo / eguaglianza di genere (che se ritiene di poter calibrare in grammi molto ovviamente non conosce neppure di striscio) nelle relazioni di coppia, cosa ne sa delle relazioni affettive di noi femministe (niente)?

Noi non siamo le macchiette delle battute e delle barzellette tramite cui siamo diffamate ogni singolo giorno su tutti i media disponibili. Prima di parlare di qualsiasi argomento, oltre ad attaccare la spina ai neuroni, è necessario informarsi. O Argentero vuole per esempio provare a dire al mio compagno da oltre quarant’anni che il nostro rapporto “non funziona”?

Inoltre, se davvero è interessato a sapere cosa “rovina il romanticismo” può leggere le quattro notizie riportate sopra e troverà subito i responsabili. Che, purtroppo, sono uomini – come lui.

Maria G. Di Rienzo

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Cinquanta le donne vittime di femminicidio, in Italia, dall’inizio del 2019.

La media (ultimo rapporto Censis) è di una donna assassinata ogni 60 ore.

I numeri della violenza riferiti agli episodi denunciati – stupri, maltrattamenti in famiglia, pestaggi, stalking – restano nell’ordine di migliaia.

Il 25 luglio u.s. la deputata Rossella Muroni (Liberi e uguali) presenta un ordine del giorno per assicurare l’impegno del governo “a investire sulle politiche contro la violenza di genere e sulla sicurezza delle donne”, chiedendo fra l’altro “fondi ulteriori per le forze dell’ordine e per la magistratura e di erogare le risorse stanziate nel 2018 per i centri antiviolenza e le case rifugio”: respinto.

Il 30 luglio successivo, arriva l’annuncio che due centri antiviolenza della rete D.i.Re in Umbria (a Perugia e a Terni), mentre aspettano ancora i finanziamenti previsti per il 2019, rischiano di chiudere: entro il prossimo 10 agosto, non in un nebuloso e lontano futuro.

Non sono le uniche strutture a rischio, ovviamente, e un paese civile si sarebbe accorto da un pezzo che la violenza contro le donne è un grave e persistente problema sociale. Il nostro governo preferisce strombazzare i titoli di piani, leggi e decreti colmi di promesse sesquipedali (la scomparsa della povertà, tanto per dirne una) che non è in grado di mantenere. L’importante è suonare la grancassa nelle orecchie dell’opinione pubblica: il più delle volte in modo così aggressivo e volgare che l’appellativo “onorevoli” di questi parolai si sbriciola miseramente davanti ai nostri occhi.

Ora, se volessimo usare gli stessi metodi comunicativi chiederemmo a Vincenzo Spadafora e a Giulia Bongiorno di “portarsi a casa” le donne che la loro colpevole inerzia lascerà prive di sostegno, ancora più sole di quanto la connivenza sociale per la violenza di genere le renda già: ma visto che siamo persone civili, chiediamo loro solo di fare il lavoro per cui noi cittadine/i, titolari della sovranità nazionale, li paghiamo. Grazie.

Maria G. Di Rienzo

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“Questo caso verrà forzatamente classificato come “femminicidio” per aumentarne le statistiche ma tecnicamente non lo è. in (Nda: minuscolo come nell’originale) quanto il femminicidio è una “violenza esercitata sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale” e non economica come in questo caso.

Le statistiche dei femminicidi sono costantemente falsate in quanto ormai qualsiasi omicidio di essere umano di sesso femminile viene così classificato (compresi ad esempio i delitti a scopo di rapina, gli omicidi-suicidi degli anziani malati ecc..)”

Nostradamus – suppongo sia lui – fa riferimento per questa sua profezia e correlata indignazione all’assassinio di Deborah Ballesio avvenuto sabato scorso per mano (e pistola rubata) dell’ex marito Domenico Massari. Non lo fa in perfetto italiano ma possiamo perdonarlo, giacché è nato a Saint-Rémy-de-Provence nel 1503 e per comporre le sue quartine ha sempre usato mescolare lingue diverse.

L’omicida ha dichiarato ai giornalisti di non aver ucciso la donna “per motivi passionali. Ma solo per questioni economiche.” e il veggente, oltre ad aver preso per oro colato ogni sillaba, è stato anche in grado di indicarci la malefica cospirazione per aumentare le statistiche relative alla strage di donne. Immediatamente sotto questo suo illuminato commento un sodale reitera con consueto strascico di puntini di sospensione: “Se è per questioni economiche… allora è quasi legittima difesa. Vedremo come va a finire….” (So che si fatica a crederci, ma questo tizio è serio.)

Domenico Massari era stato denunciato per stalking dalla ex moglie, che aveva pesantemente e lungamente minacciato in vari modi, con conseguente divieto di dimora in tre Comuni; era stato l’autore di un incendio doloso al locale di lei nel 2015 e perciò condannato a tre anni e due mesi di carcere; infine, l’ha uccisa tramite sparatoria in pubblico, ha ferito altri due “esseri umani di sesso femminile” (una è una bambina di tre anni) ed è andato a costituirsi al carcere di Sanremo esplodendo in aria tre colpi di pistola “per attirare l’attenzione”: suonare il campanello era troppo banale. Con una personalità del genere, quel che dice è attendibile quanto le (poche) previsioni in cui Nostradamus ha indicato date precise: non se n’è avverata nessuna.

Inoltre Deborah Ballesio si aspettava di morire in questo modo, l’ha detto a molti e l’ha persino lasciato scritto – lui mi ucciderà. “Solo per questioni economiche” generalmente uno lo denunci per truffa, furto, appropriazione indebita e persino – se del caso – circonvenzione di incapace: non ti metti a perseguitarlo sino a essere condannato per stalking, non dai fuoco al night di sua proprietà e non lo ammazzi, perché tramite ognuna di queste azioni non un centesimo ti arriva o ti torna in tasca. Tutte queste cose le fai, d’altra parte, se il tuo scopo non è essere risarcito di un danno ma infliggere dolore e sofferenza e morte per vendetta: vieppiù se chi pensi ti abbia usato un torto si trova nella posizione meno indicata per osare tanto – quella di un essere inferiore non completamente umano, intrinsecamente maligno e stupido, tuo possesso per diritto naturale o divino… che sono le classificazioni affibbiate alle donne, da qualche migliaio di anni, dalla “sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale”. La violenza che ne deriva prende una miriade di forme (fisica, sessuale, psicologica, economica) e tutte potenzialmente conducono al femicidio / femminicidio ma se di esso si conosce solo una definizione da Wikipedia è più difficile vederle. Quanto a rigettarle, sul Nostradamus “de noantri” non mi faccio illusioni.

A questo punto restano solo un paio di domande. Alla prima, che è “Chi vuole “aumentare le statistiche” (cioè gonfiare le percentuali) e per quale motivo?” non c’è una risposta intelligente, poiché la domanda è idiota e basa su presupposto falso, ma è comunque intuibile: sono le bieche orribili femministe, il cui scopo è rovinare ogni uomo sul pianeta; poi ci sono i sotto-complotti “donne vittimiste”, “donne avide di denaro che usano le statistiche per ottenere chissà che”, “donne vili che usano e abusano e poi se le ammazzano si lamentano” (vabbé, si lamentano quelle che restano vive). Tutto già visto / udito sino alla nausea.

Per la seconda domanda non ho trovato una replica soddisfacente, perciò la giro agli interessati: non avete niente di meglio da fare che sparare caxxate immani in giro per il web?

Maria G. Di Rienzo

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Repubblica, 5 febbraio u.s., estratto da un’intervista a Papa Bergoglio;

“Il maltrattamento delle donne è un problema. Io oserei dire che l’umanità ancora non ha maturato: (nda.: forse ha detto o voleva dire “non è maturata”, il testo è pieno di errori di grammatica / sintassi) la donna è considerata di ‘seconda classe’. Cominciamo da qui: è un problema culturale. Poi si arriva fino ai femminicidi. Ci sono dei Paesi in cui il maltrattamento delle donne arriva al femminicidio.” L’Italia è proprio uno di quei Paesi, e sono talmente tanti che si potrebbe riformulare la frase come “Su tutto il pianeta il maltrattamento delle donne arriva al femminicidio”.

Lieta comunque di aver sentito qualcosa al proposito dal leader di una delle maggiori religioni organizzate a livello mondiale, devo però puntualizzare che:

1. Continuando a definire come accessorio il ruolo delle donne – pur inzuccherando questa classificazione di serie inferiore con l’importanza del “servizio” reso – la chiesa cattolica contribuisce a mantenere in essere il problema culturale.

2. Tutta la patetica pappardella sul “gender”, che Bergoglio ha sponsorizzato in alcune uscite pubbliche, non solo contribuisce a mantenere in essere il problema culturale ma ha alimentato specifiche forme di violenza.

3. Se, come attestato nell’intervista, si vuole “fare qualcosa di più”, il Papa ha parecchi attrezzi a disposizione, a partire dalle analisi e dalle richieste delle donne che fanno parte a qualsiasi titolo della sua chiesa.

Il 3 febbraio, in provincia di Bergamo, Marisa Sartori è stata uccisa dall’ex marito con una coltellata al cuore. Ferita più volte dallo stesso coltello, la sorella di costei è uscita dal coma due giorni dopo. Per i seguaci del razzismo cialtrone legittimato da alte cariche governative, la questione di genere non si pone: l’assassino è di origine tunisina. Ma è italiano il signore che il giorno dopo, a Vercelli, mette in atto un inseguimento automobilistico e dà fuoco alla macchina dell’ex, Simona Rocca, mentre lei è all’interno della stessa. La donna era gravissima ieri e mentre scrivo non so quali sviluppi ci siano stati nella diagnosi. I commentatori “ruspanti” (qui è un neologismo che allude alle ruspe) su ciò non hanno nulla da dire.

Il problema culturale del nostro Paese salta all’occhio esaminando:

a) la narrazione relativa ai perpetratori (che “non accettavano la fine della relazione” ecc.);

b) la dinamica simile delle vicende: entrambe le vittime avevano denunciato lo stalking e le aggressioni, nel secondo caso la donna ha anche chiamato i carabinieri durante l’inseguimento – per la serie denunciate, denunciate, tanto non serve a nulla;

c) le risposte istituzionali, come la dichiarazione del procuratore capo di Vercelli, sig. Pianta:

“Io non credo sia un problema di leggi, ma di cultura e di prevenzione. La nostra sensibilità su questi temi è massima. C’è grande attenzione. Infatti, la misura nei confronti di quel soggetto è stata presa subito. (nda.: era stato rinviato a giudizio) Anche se non era uno dei casi più allarmanti. Solo a Vercelli, che non è il Bronx, abbiamo da 7 a 10 denunce di stalking a settimana. Sono soggetti a cui scatta qualcosa nella testa. L’unica misura che potrebbe funzionare, a livello di deterrente, è il carcere. Ma non viviamo in uno stato di polizia. E se dovessimo chiedere la carcerazione ogni volta in cui c’è dell’astio e un rapporto conflittuale, allora dovremmo raddoppiare lo spazio nelle carceri italiane”.

La prima frase mi trova parzialmente d’accordo: cambiamento culturale e prevenzione si operano anche tramite le leggi; in particolare, in Italia le leggi sembrano non funzionare per quel che riguarda la protezione delle vittime. L’attestazione di massima sensibilità e grande attenzione è smentita dall’analisi successiva: un caso di persecuzione che continua da due anni e mezzo e sfocia in un tentato omicidio non è giudicato “allarmante” ne’ uno “dei più gravi”; il procuratore non trova strano ne’ si chiede perché a 7/10 “soggetti” a settimana “scatta qualcosa nella testa” e riscrive assalti fisici e persecuzioni come “rapporto conflittuale”, redistribuendo in questo modo la responsabilità della situazione su ambo le persone coinvolte.

Nulla di nuovo, in effetti. La narrativa culturale corrente che alimenta la violenza si rifiuta di riconoscere che essa è una scelta del perpetratore e lo ritiene a priori non sano di mente: gli scatta qualcosa nella testa = raptus = incapace di intendere e volere = non (del tutto) responsabile.

In questo scenario, cambiamento culturale e prevenzione del crimine sono un’impossibilità logica e fattuale. Maria G. Di Rienzo

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28 luglio 2017, Il Resto del Carlino: “Senigallia, accoltella la ex e un amico, poi si lancia nel vuoto. Muore 21enne.” Le due vittime sono ferite ma non in pericolo di vita.

L’articolo rispetta tutti i (pessimi) standard del giornalismo che si occupa di violenza di genere. C’è la tragedia, c’è il giovane uomo disperato che non accettava la fine della relazione, c’è il terribile torto subito da quest’ultimo che trovata l’ex fidanzata in compagnia di un amico va per questo su tutte le furie e mette mano al coltello. E così prosegue:

“Il 21enne era stato arrestato tre anni fa per resistenza (nda.: a cosa? Suppongo a pubblico ufficiale, ma il dato è o no in relazione allo stalking subito dalla ragazza?), l’ex fidanzata l’aveva denunciato circa un mese fa perché la tormentava, le mandava spesso messaggi e andava sotto casa di lei per cercare di riallacciare il rapporto, tanto che l’avvocato le aveva suggerito di uscire poco per un periodo, e di non andare da sola, perché si temeva che il 21enne potesse farle del male.”

Quello stesso avvocato loda le forze dell’ordine per i tempestivi interventi garantiti alla ragazza (24enne) “che era vittima di atti persecutori” e ci tiene a sottolineare che l’esito della vicenda “non era assolutamente prevedibile”: è stato troppo “rapido e funesto”.

Non sappiamo da quanto tempo continuassero gli atti persecutori, ma se si consiglia a una giovane donna di comportarsi come se fosse un bersaglio ambulante durante una guerra – non uscire di casa o uscire solo se accompagnata – le intenzioni del suo aggressore mi sembrano completamente chiare e prevedibili. L’assalto è avvenuto di notte, l’ultimo “tempestivo intervento” delle forze dell’ordine risale al pomeriggio dello stesso giorno: e se la ragazza è ancora viva lo deve più alla fortuna che alla protezione garantita e prevista dalle leggi.

L’assalitore si è ucciso forse credendo, come spesso accade in questi casi, di aver esercitato l’estremo atto di controllo sulla ex fidanzata e di aver quindi perso ogni ulteriore possibilità e scopo, ma al di là della pietà umana per la sua fine io continuo a chiedermi: cosa fa pensare a quelli come lui che la violenza sia il principale e giusto mezzo con cui “riallacciare un rapporto”?

Perché credono che molestie, tormenti, pestaggi, pedinamenti e minacce siano le fondamenta di una relazione con una donna? Perché accettano che una donna torni da loro o resti con loro per paura?

Cos’ha a che fare tutto questo con l’amore? Niente. Stiamo trattando di possesso – e allora le cose acquistano prospettiva e alla ribellione di un oggetto che si possiede non c’è davvero modo di rassegnarsi: ha forse senso che la vostra automobile o la vostra televisione prendano decisioni e vi si chieda di rispettarle? E perché mai dovreste garantire ciò alla vostra bambola gonfiabile?

Maria G. Di Rienzo

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(brano tratto da: “Why algorithms aren’t working for women”, una molto più lunga intervista a Liz Rush di Susan Cox per Feminist Current, 7 aprile 2017. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Liz Rush, in immagine, è una femminista e un’ingegnera informatica.)

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Susan Cox (SC): Allora, cos’è esattamente un algoritmo?

Liz Rush (LR): Per dirla semplicemente, è una serie di regole o passi che devono essere fatti per calcolare o risolvere problemi al computer. E’ come una ricetta. Ci sono passi differenti che tu fai in un determinato ordine e quando hai finito, il piatto pronto è il risultato.

SC: Che effetto hanno gli algoritmi sulla società moderna?

LR: Gli algoritmi sono ovunque, ma sono per lo più invisibili a noi. Sono nel tuo feed di FB, in quel che vedi su Twitter, in ogni sorta di cose su Internet – persino nei motori di ricerca. Questo contesto con cui tu interagisci su base giornaliera è completamente informato da potenti algoritmi che apprendono meccanicamente. Quel che vedi è filtrato da algoritmi che sono stati personalizzati e modificati in base a quel che una compagnia commerciale o un programma pensano tu voglia vedere. Questo è un concetto che noi chiamiamo “la bolla filtro” e si riferisce agli algoritmi che interessano i confini di ciò che vediamo su Internet. Quando tu usi Google e cerchi un termine, non ti sono dati solo i migliori risultati che più si avvicinano a quel termine. Vengono presi in conto la cronologia delle tue ricerche, la tua relazione con le statistiche demografiche e le tue abitudini per gli acquisti online, e si prendono nel conto anche le persone che si trovano nella stessa città in cui tu fai la ricerca. Perciò, se tu e io cerchiamo la stessa cosa, avremo molto probabilmente risultati simili perché siamo interessate agli stessi argomenti, siamo entrambe donne bianche, siamo entrambe “millennial”, eccetera.

SC: Quindi i risultati non sono basati unicamente sul trovare il contenuto più rilevante e accurato in base ai termini di ricerca?

LR: Loro hanno un algoritmo che determina quali siti web saranno mostrati nei risultati della ricerca, basati sui contenuti di quei siti e da una varietà di altri fattori che determinano se loro pensano o no che corrispondano al tuo input. Ma i dati stanno diventando sempre più intrecciati con quelli personali tuoi e di altra gente. Per esempio, quando vedi la schermata di Google con i risultati è il momento in cui vedi un algoritmo che apprende meccanicamente: sta tentando di capire cosa stai cercando basandosi sulla tua storia e sulle storie di utenti simili a te. E se trovi quel che cercavi, cerca di capire se è corretto o no. Ma ovviamente puoi osservare come un algoritmo possa apprendere pregiudizi, tipo se cerchi “Perché le donne sono così…”. Molto spesso non ne risulta un’immagine lusinghiera delle donne, o delle persone di colore, o di una minoranza qualsiasi.

SC: Perciò il sessismo e il razzismo possono diventare incorporati nell’algoritmo stesso?

LR: La discussione sul fatto che un algoritmo possa essere sessista o razzista solleva un mucchio di opinioni roventi, perché la verità in materia è che quando scrivi un algoritmo scrivi una ricetta: e in se stessa non è necessariamente razzista o sessista o classista. Ma, quando l’algoritmo apprende da un feedback pieno di pregiudizi, o usa dati iniziali che sono allo stesso modo pieni di pregiudizi, allora il razzismo o il sessismo diventano parte dei risultati. Se per esempio cerchi lavori online per donne, troverai lavori meno pagati di quelli che troveresti per gli uomini. Questo schema è stato confermato più volte. Per cui, la questione centrale degli algoritmi è: al di là delle intenzioni della persona che scrive l’algoritmo, se il disegno di quest’ultimo permette all’auto-rinforzamento del pregiudizio di continuare – di propagarsi – allora i risultati avranno quella determinata intenzione, se non corretti.

SC: Noi spesso guardiamo alla tecnologia come a qualcosa di neutro rispetto ai valori – solo freddo e duro calcolo. Non pensiamo che Google abbia dei contenuti perché si suppone si tratti di un mero riflesso di una parola online. Tu stai dicendo che Google ha invece un ruolo attivo e significativo nel dare forma a quel che vediamo online?

LR: Assolutamente sì. Tu senti la parola “algoritmo” e pensi alla matematica, alla scienza, ai computer. E credi che i computer siano “neutri” perché in fondo sono solo “zero e uno”. Ma la realtà è che sono persone a disegnare questi sistemi e fanno delle scelte etiche su come i sistemi dovrebbero funzionare. Un esempio sono gli algoritmi nei nostri dispositivi medici. C’è un algoritmo nei pacemaker che aiuta a determinare il tuo battito cardiaco. Ma i pacemaker sono stati progettati, originariamente, solo per gli uomini: erano troppo grandi per stare nel petto di una donna in moltissimi casi. Perciò, se l’algoritmo che determina quando il tuo cuore deve battere non è stato disegnato per il tuo corpo, quell’algoritmo avrà un impatto su di te.

google algoritmi

SC: Perché quando faccio una ricerca su Google relativa alle donne i risultati sono così pornificati? In special modo considerando che Google sta tenendo in conto la cronologia delle mie ricerche e i miei interessi? Io non ho mai cercato video porno o altre cose del genere.

LR: Sì. E’ proprio stressante. Quando cerchi la parola “donna”, la ricerca non si basa solo sui tuoi dati. Loro sanno che la stragrande maggioranza degli utenti che cercano la parola “donna” seguiranno link che portano alla pornografia.

SC: Molti risultati della ricerca di immagini per qualsiasi cosa riferita alle femmine sono, di base, pornografia soft. E anche se usi l’opzione “ricerca sicura” essa non ha alcun effetto su questo, neppure nel caso dei bambini quando cerchi il termine “ragazza” o “bambina”.

LR: E’ orrendo. Come adulti, noi possiamo razionalizzare la situazione e dire: “Okay, lo so che la pornografia è un enorme motore per Internet e tutte queste tecnologie.” Ma se sei una 12enne che usa Internet per la prima volta, tentando di trovare un videogame su Nancy Drew, le possibilità che tu veda accidentalmente pornografia sono estremamente alte, perché gli algoritmi hanno questo processo incorporato del tentare di ottimizzare gli utenti che seguono i link dei risultati, così come gli annunci pubblicitari. E la pornografia è un grande fattore chiave per gli affari.

SC: C’è il fatto che le compagnie commerciali guadagnano direttamente grazie agli algoritmi che promuovono sessismo e razzismo. Per esempio, di recente un gruppo di maschi ha stuprato una ragazzina di 15 anni e ha mandato la cosa in diretta su Facebook Live. Come accade per tutti i contenuti di FB, c’erano pubblicità sul sito, proprio accanto al video. Significa che FB stava traendo profitto dallo stupro.

LR: Si difendono dicendo che non controllano i contenuti, e questo è vero. Nessuno ha controllato e detto “Sì, questo video dovrebbe essere condiviso”. Ma, in effetti, è stata una decisione presa da un algoritmo, quella che il video apparisse nei feed di altri utenti: e più gente ci clicca sopra, più apparirà nei feed di altre persone, e in questo modo abbiamo l’effetto virale. E chiunque lo guardi vede le pubblicità, così la compagnia ne beneficia.

C’è un’ossessione per l’ottimizzazione negli algoritmi: alcuni sono così altamente ottimizzati che non c’è modo di uscire dal ciclo continuo del feedback. Prendendo ad esempio lo stupro diffuso in diretta, se una donna lo vede e lo riporta a FB e ci sono altri trenta uomini che in quello stesso momento lo stanno guardando e condividendo, l’algoritmo valuterà l’attività dei trenta uomini. Quando lo scopo commerciale è tenerti agganciato a un contenuto, c’è un inerente conflitto di interessi fra lo scopo e l’assicurarsi che il contenuto sia appropriato.

SC: Se qualcuno avesse salvato il video dello stupro diffuso in diretta su Facebook Live e lo avesse caricato da qualche altra parte, allora si troverebbe nei risultati delle ricerche su Google, e anche quest’ultimo ne profitterebbe?

LR: Sì: di base, starebbe su Internet per sempre. Immagini e video sono rispecchiati automaticamente sui server in giro per il mondo. Non è che ci sia un solo sito web e che tu puoi dire “per favore, togli questa roba” e la roba sparisce. La conversazione si complica, poi, perché molte organizzazioni che lottano per i diritti alla privacy su Internet sono finanziate da ditte che producono pornografia. Per esempio Porn Hub e YouPorn dichiarano di star lottando per la tua privacy online, implicando che nessuno dovrebbe venire a sapere che tipo di pornografia cerchi o guardi. E’ una strategia che usano per apparire sul lato etico della tecnologia e allinearsi alla sinistra, ai progressisti e al discorso sulla libertà di parola. Ma fanno questo, anche, per assicurarsi che noi si sia meno inclini a discutere di istanze importanti che riguardano l’etica della pornografia su Internet.

SC: E la quindicenne dello stupro in diretta su FB? Che ne è della sua privacy? Lei sembra scomparire quando gli algoritmi sono ottimizzati per promuovere la pornografia e la conversazione è centrata sulla privacy e la libertà di chi la pornografia la usa.

LR: La sua privacy scompare e c’è di più: quando una storia come questa viene alla luce, le ricerche su di essa sono spinte al massimo, il che traumatizza di nuovo le vittime.

SC: E più ci sono ricerche di un determinato contenuto, come lo stupro della ragazzina, questo significa che l’algoritmo apprenderà a promuoverlo ancora di più nei risultati delle ricerche, giusto?

LR: Giusto.

SC: Cosa possiamo fare per smettere di abbandonare a se stesse queste vittime?

LR: Cominciamo con il non vittimizzarle ulteriormente nelle tecnologie in espansione. Per esempio, gli algoritmi di riconoscimento facciale e i database relativo stanno diventando motivi di preoccupazione. L’attuale dibattito al proposito si concentra per lo più sulla criminalità e il diritto alla protesta. Per cui l’argomento sta diventando una tendenza dominante nelle discussioni, per una buona ragione e cioè che siamo preoccupati per la privacy e il diritto di associarsi liberamente.

Ma la macroscopica omissione in questa conversazione è l’impatto di tale tecnologia sulla pornografia e sulla cultura. Abbiamo due fronti di cui preoccuparci:

1) che il software per il riconoscimento facciale sia usato sulle vittime della pornografia per identificarle. In passato una donna poteva trovare una sua foto intima pubblicata senza il suo consenso, ma in modo anonimo. Con gli algoritmi per il riconoscimento facciale, sta diventando sempre più possibile identificarle qualcuno in un’immagine;

2) ho lavorato per una compagnia commerciale dove, all’epoca, ero l’unica impiegata di sesso femminile. E il nostro presidente era terribilmente esaltato all’idea di creare un’applicazione che avrebbe cercato pornostar basandosi su un’immagine che tu avresti fornito, tipo quella di un’amica, di una collega, di una sorella che un algoritmo avrebbe tentato di far combaciare con il database delle immagini delle pornostar. E nonostante io abbia detto: “Non dovremmo creare un’applicazione simile per nessun motivo.” la mia voce non è stata presa sul serio. C’è voluto che un altro maschio che lavorava là dicesse “Assolutamente no.” perché le mie preoccupazioni fossero ascoltate. Come usiamo la tecnologia è sempre una scelta.

SC: Le poste in gioco mi sembrano molto alte. Mi pare che stiamo parlando di seri pericoli per la privacy e la sicurezza delle donne.

LR: E’ così. Anche se tu usi precauzioni relative alla sicurezza online, i servizi che usi creano dati e questi dati possono essere utilizzati per identificarti: i tuoi network, con chi sei connessa online e come interagisci con tutto ciò.

SC: Ciò può essere pericoloso in special modo per una donna che sta tentando di sfuggire a molestie, a uno stalker, a un ex partner violento, giusto?

LR: Esattamente. Nel mondo della sicurezza, lo chiamano il “modello minaccia dell’ex fidanzato”. Quando pensiamo alla sicurezza online ci vengono in mente hacker e grandi agenzie governative. Ma la verità è che la più grande minaccia alla sicurezza online non è un hacker, ma qualcuno che conosci, come un ex partner o un violento. Questa è una minaccia che è stata presa seriamente da chi disegna sistemi di sicurezza, ma non dalla comunità che disegna algoritmi. Di recente ciò è venuto alla luce quando una giornalista, Ashley Feinberg, è stata in grado di rintracciare gli account Instagram e Twitter del direttore dell’FBI James Comey: lo ha fatto basandosi su chi lui seguiva e interagendo con le applicazioni.

Ciò significa che anche se hai bloccato lo stalker sull’applicazione, lui può eventualmente connettere i punti per identificarti tramite i dati di raccomandazioni e connessioni accessibili senza il tuo consenso negli algoritmi. Se ci pensi, uno dell’FBI dovrebbe avere tutte le risorse a disposizione per l’Internet più sicuro che ci sia, ma persino uno così è stato tracciabile. Pensa a che significa per una donna che sta solo cercando di distanziarsi da un ex che abusava di lei.

SC: Grazie per aver condiviso la tua opinione da esperta. C’è qualcosa che le donne possono fare per proteggere se stesse?

LR: Non voglio alimentare paure su Internet, tuttavia raccomando a tutte di osservare le basi per la sicurezza personale:

https://hackblossom.org/cybersecurity/

Ma il vero modo di cominciare a cambiare questa tecnologia è assicurarsi che noi tutte si sia coinvolte. Significa avere più conversazioni al proposito, imparare di più e prendere davvero sul serio il fatto che la tecnologia che usi ha impatto su di te e sul mondo attorno a te.

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