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(“On surviving the Christmas holidays as a lesbian in Bulgaria” di Lora Novachkova – in immagine – per Open Democracy, 9 gennaio 2017, trad. Maria G. Di Rienzo. Lora, femminista anarchica, si è laureata all’Università di Vienna con una specializzazione in Studi di genere.)

lora

Mi trovo di nuovo in Bulgaria per le vacanza di Natale e Capodanno e sono in un luogo che si suppone essere “casa mia”, con i membri della mia famiglia omofobica che sono convinti di amarmi incondizionatamente.

L’anno scorso, all’incirca nello stesso periodo, ho dato le dimissioni dal mio lavoro come direttrice dei programmi del settore “Diritti e Movimenti LGBTI” del Centro Risorse della Fondazione Bilitis, a causa di un grave esaurimento nervoso. Ero frustrata dal vivere a Sofia, un città coperta di svastiche, e ho deciso che era ora di smettere di aver paura di essere assalita per strada. Mi sono trasferita in Spagna, dove posso di nuovo tenere per mano la mia compagna in pubblica. Tuttavia, non appena è stato il momento di far visita a “casa”, l’illusione è svanita e al suo posto è subentrata l’amara riflessione del dover fronteggiare l’omofobia della mia famiglia così come dell’intera società in cui sono cresciuta.

In maggioranza le persone LGBTI in Bulgaria sono costrette a condurre una doppia vita, o a emigrare per poter esprimere il loro orientamento sessuale più o meno liberamente. Sebbene sia difficile avere le statistiche nazionali sulle attitudini verso le persone LGBTI, i risultati di un sondaggio dell’Unione Europea del 2015 hanno mostrato che il 68% della popolazione si oppone ai matrimoni fra persone dello stesso sesso, che sono stati banditi dal governo nel 1991. La stragrande maggioranza dei bulgari vede questi desideri come malattia o devianza ma mai, per niente, come qualcosa di “naturale” (qualsiasi cosa questa parola significhi).

Ricordo il Natale del 2011, quando mi fu gentilmente chiesto dai miei familiari, che sono cristiani ortodossi come la maggioranza dei bulgari, di consultare un imam per rompere la “malvagia maledizione” che aveva fatto di me una lesbica, perché la mia famiglia crede che la mia omosessualità sia il risultato di magia nera. Ironicamente, i miei genitori non riuscirono a spiegare al tipo di cosa erano preoccupati e si aspettavano che lui lo “vedesse” in qualche modo. E’ una pratica assai diffusa, in Bulgaria, consultare imam di origine turca quando c’è il sospetto di essere sotto l’influenza di magia nera. Normalmente, vai a casa dell’imam e gli lasci una donazione per il suo lavoro. Non so se quello in questione fosse in grado di “vedere” il “problema”, ma pare che il suo lavoro non raggiunse il risultato sperato. Perciò, la procedura dovette essere ripetuta nel 2014.

Questa volta consultammo una “vrachka”, un’indovina di sesso femminile in grado anche di rompere incantesimi. Mi chiese perché, dopo aver avuto un ragazzo per alcuni anni, ho cominciato a uscire con le ragazze. Pensò che la mia risposta non fosse convincente, ma non sentivo il bisogno di arrivare a farle capire qualcosa.

Mentre facevo ricerche per la mia tesi di laurea, in cui indagavo le interconnessioni fra l’omofobia sociale e quella familiare in Bulgaria, mi sono imbattuta in storie simili raccontate da molte altre lesbiche. Io visitai questi “consulenti” perché ero per lo più curiosa come ricercatrice ma anche se non l’avessi fatto i miei genitori avrebbero comunque visto la mia omosessualità come l’influenza di un oscuro incantesimo. Un consulto psicologico è anche, tristemente, non la risposta perché in Bulgaria queste istituzione non possono garantire uno spazio sicuro a causa della natura del soggetto. Ovviamente, in tale contesto omofobico, ci sono un mucchio di psicologi incompetenti che fanno affari non etici rinforzando l’omofobia e traumatizzando le giovani persone LGBTI che dovranno poi affrontarne le conseguenze per tutta la vita. Poiché in Bulgaria non ci sono telefoni amici o qualsiasi altra risorsa pubblica per venire incontro alle necessità delle persone LGBTI, siamo in pratica lasciati a gestire il processo da soli, nei modi in cui possiamo farlo. In simili circostanze (senza l’aiuto di specialisti), la reazione familiare diventa assolutamente cruciale nella percezione che un individuo ha di se stesso.

Tornando alle mie riflessioni sul Natale, non è stato un periodo allegro. Lo sforzo mentale di sopprimere la rabbia verso l’ignoranza della propria famiglia è duro, e dover recitare il ruolo di una persona felice di essere tornata a “casa” non lo rende meno pesante. Per me, questo mondo ha perso il suo significato quando un paio d’anni fa tornai in Bulgaria da Berlino con la mia ragazza e ci fu richiesto di non venire a “casa”. Stavamo insieme da tre anni, e avevamo trascorso metà di questo tempo a Sofia, ma ciò non ha indotto i miei genitori a volerla conoscere. Mia madre non ha mai messo piede nel nostro appartamento. Mio padre osò farlo, ma solo quando lei non c’era. Quando lo incontravo, dovevo raggiungere il posto dove si trovava da sola. La legittimazione per la “mancanza di simpatia” della mia famiglia nei suoi confronti è che lei è più vecchia di me di tredici anni. Come sappiamo, l’omofobia raramente arriva da sola. Più spesso che no, si intreccia con il sessismo, con i pregiudizi sull’età, eccetera.

La scorsa estate i miei genitori mi fecero visita in Spagna. Ero sinceramente entusiasta della loro visita perché per me significava che, per la prima volta, avrebbero incontrato una mia compagna. Chiedemmo perché accettavano di incontrare lei, ma non la mia ex partner con cui ero stata tre anni. Sarebbe stato meglio non chiedere. Mio padre spiegò che l’età della mia compagna precedente lo aveva indotto a concludere che lei era veramente una lesbica, ma poiché la mia compagna attuale ha nove anni meno di me, loro vedevano la nostra relazione come l’esperimento di una persona giovane. Ero sconvolta, offesa e volevo urlare, ma invece ho dovuto sopportare perché quello era solo il primo giorno e dovevano passarne altri quattro. Dopo di ciò, volammo in Bulgaria, dove mi avvisarono di non portarla.

Questo accadde in estate e ora è inverno, nulla è cambiato. La mia compagna e io siamo nella stessa città per Natale e Capodanno, ma ne’ io ne’ lei possiamo portare l’altra a “casa”. Mi chiedo: quante coppie omosessuali smettono di tenersi per mano non appena atterranno all’aeroporto di Sofia?

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Adorabili compagne/i di viaggio cibernetico: la connessione è ripristinata (con il legittimo dubbio che il provider si ingarbugli di nuovo nei propri errori nel prossimo futuro, ma intanto va). Potrebbe essere l’unica buona (ehm…) notizia che ricevete oggi, per cui allegria! E visto che domani è il mio compleanno… no, non dovete darmi quello strano anello d’oro che avete ripescato dal fiume, tesssori… e intendo occuparmi egoisticamente solo di me stessa, vi scrivo una pappardella bella lunga oggi. Qualcuna/o stenterà a crederlo, ma c’è gente che si fida delle mie recensioni di sceneggiati, per cui ecco cos’ho visto di recente che posso consigliare anche a voi (con l’eccezione della stagione n. 4 di Orphan Black, la peggiore del mazzo: è riuscita a buttare nello scarico del wc tutto quanto di buono aveva fatto in precedenza).

Vera

Il primo premio del mio gradimento va senz’altro a “Vera”, una serie poliziesca britannica basata sui romanzi di Ann Cleeves. La protagonista Vera Stanhope – interpretata da Brenda Blethyn, nell’immagine sopra – capo ispettrice nel Northumberland, è uno dei personaggi più realistici (e di conseguenza per me più amabili e affascinanti) che io abbia mai visto in uno sceneggiato televisivo. Donna di mezz’età con una storia di abbandono familiare alle spalle, arruffata e scapigliata, irascibile, acuta e penetrante e calcolatrice, che si cura profondamente del proprio lavoro e dei propri colleghi. Puoi pensare di entrare in una centrale di polizia e trovarla là che maneggia incartamenti, fa ipotesi, programma sopralluoghi e interrogatori… e dopo averle esposto il tuo caso chiederle se le va di prendere un caffè con te: “Sure, pet” (“Certo, tesoruccio”) ti risponderà Vera con il suo caratteristico intercalare.

Inoltre, le trame di Ann Cleeves sono solide, hanno credibilità e ritmo e la giusta dose di anticipazione, per cui è un vero piacere scoprire pian piano la verità – che è sempre fatta di luci e ombre, come nella vita reale – assieme alla capo ispettrice. Da notare: nessuna battuta sull’aspetto di costei – e vorrei vedere uno che ci si prova…, nessun “consiglio” 3F (fitness – fashion – femininity : forma moda femminilità) le viene ammannito e il suo corpo è lei stessa e basta, non una bandiera da sventolare o un manichino da vendere.

Dal lavoro della medesima autrice è stata tratta un’altra serie poliziesca altamente consigliabile, Shetland”, ambientata nell’omonimo arcipelago scozzese. Oltre a condividere tutti i tratti positivi di “Vera” in termini di plot, anche qui il protagonista è piacevolmente inusuale rispetto agli standard americanizzati di produzioni simili. L’ispettore Jimmy Perez (interpretato da Douglas Henshall) è probabilmente l’unico uomo che vedrete in televisione condividere amore, cure e fatiche della crescita della figliastra con il precedente marito della madre di lei, deceduta, in una relazione d’amicizia che riesce a superare gelosie e asprezze. Di “Shetland” ho anche apprezzato molto il modo in cui ha trattato lo stupro sofferto dalla “mano destra” dell’ispettore, la sergente McIntosh. Di solito, quale espediente narrativo, lo stupro è usato in modo infame per titillare la morbosità degli spettatori, per punire un personaggio femminile “troppo” orgoglioso e sicuro di sé e rassicurare con ciò l’audience maschile o per motivare tale personaggio nelle sue decisioni e scelte (per la serie: una donna dev’essere stuprata per avere uno scopo). In “Shetland” non accade nulla di simile: noi sappiamo ciò che è accaduto ma non lo vediamo nei dettagli, ciò che vediamo invece, realisticamente, è la lotta dolorosa di una giovane donna per riprendere signoria e controllo sulla propria vita.

Nell’ambito dei gialli inglesi una rapida menzione onorevole va anche a “Happy Valley”. (Nella foto l’attrice Sarah Lancashire nei panni della protagonista, la sergente Catherine Cawood)

sarah lancashire - happy valley

La “Valle Felice” è quella del fiume Calder nel nord dell’Inghilterra e si tratta di un eufemismo realmente usato dalla polizia locale per alludere ai problemi di droga dell’area. Dietro la serie c’è la scrittrice e regista Sally Wainwright e forse per questo le donne in essa sono esseri umani a tutto tondo. Catherine Cawood, divorziata, vive con la sorella (ex alcolista ed eroinomane) e con il nipotino. Quest’ultimo è purtroppo il frutto di uno stupro da cui la figlia di Catherine non si riprese mai, giungendo a suicidarsi. Per entrambe le due stagioni della serie la sergente deve vedersela in un modo o l’altro con il violentatore della figlia, rimesso in libertà dopo 8 anni di carcere e deciso a “vendicarsi” di lei che ce l’ha mandato, mentre cerca di risolvere vari casi. Discorso uguale a “Vera” (e a “Shetland”) per le 3F: sono felicemente invisibili.

Il secondo premio del mio gradimento va a uno sceneggiato norvegese da poco terminato, “Okkupert” (“Occupati”). Nell’immagine qui sotto vedete la magnifica attrice Raghnild Gusbranden, che interpreta la capa dei servizi segreti norvegesi. (3F? Nei, takk – e cioè No, grazie in norvegese).

raghnild gusbranden - okkupert

Okkupert” descrive un prossimo futuro in cui la Russia, con l’approvazione e l’appoggio dell’Unione Europea, occupa la Norvegia affinché quest’ultima riprenda la produzione di petrolio, dismessa da quando il Partito Verde ha vinto le elezioni nel paese (dopo che un uragano di enormi proporzioni causato dal cambiamento climatico ha devastato la Norvegia). La crisi energetica europea è grave: il Medioriente, a causa dei continui tumulti, non le fornisce petrolio e nemmeno lo fanno gli Usa, che sono entrati in un regime di autosufficienza abbandonando la Nato. L’idea del governo norvegese è sostituire i combustibili fossili con l’energia nucleare derivata dal torio (è assai meno pericoloso dell’uranio, in effetti, ma – questa è l’unica pecca che trovo nella storia – mi suona stridente l’idea che diventi il vessillo di un partito ecologista). L’occupazione è sinistramente “morbida”, strisciante, ufficialmente paludata dal gergo e dalle consuetudini della politica (un teatrino di convenzioni e trattati e accordi senza effettiva rilevanza) e sempre più violenta mano a mano che il governo e la popolazione norvegese oppongono ad essa atti di resistenza. La trama è fitta e avvincente, ma non ve la racconto nei dettagli sia per non rovinarvi il piacere di vedere lo sceneggiato, sia perché dovrei scrivere sino a domani mattina… per quel che riguarda l’avvincente, vi basti sapere che al termine di ogni puntata mi spostavo dal salotto in qualsiasi altra stanza borbottando: “Dannazione, la Norvegia è ancora occupata!”

Noto di passaggio che fra le produzioni televisive nordiche potreste apprezzare anche la serie poliziesca islandese “Ófærð” (“In trappola”) in cui un incendio apparentemente casuale che provoca la morte di una ragazza si collega, sette anni più tardi, al torso di un cadavere mutilato ripescato dal mare. Qui sotto c’è lo straordinario Andri Olafsson, e cioè l’attore Ólafur Darri Ólafsson, capo della polizia locale: in tutto tre persone, il “locale” è la piccola città di Seyðisfjörður.

olafur darri olafsson

Ah: nessuna scherzosa battuta o saggio consiglio su come diventare una sardina ne’ per il detective, ne’ per qualsiasi altro personaggio maschio o femmina. Anche qui impera il rispetto per i corpi, la nozione che i corpi umani sono esseri umani, stupendamente vari.

Terza postazione per una serie fantastica spagnola, El Ministerio del Tiempo” (“Il Ministero del Tempo”). La premessa è che in Spagna sia custodito un segreto cruciale: un’istituzione governativa autonoma che risponde solo al Primo Ministro e che si occupa di raddrizzare gli incidenti causati dai viaggi nel tempo. Il Ministero del Tempo custodisce e controlla le porte che conducono dall’oggi a varie epoche del passato, assicurandosi che nessuno cambi la Storia a proprio beneficio. Per chiunque si interessi come me sia di Storia sia di narrazione fantastica questo sceneggiato è una doppia delizia. Si dipana principalmente seguendo le avventure di una delle squadre di intervento del Ministero, formata dal soldato Alonso de Entrerríos (originario del 1.600), dalla studente Amelia Folch (19° secolo, “capa” della pattuglia) e dal paramedico Julián Martínez reclutato nel tempo presente. I tre attori sono rispettivamente Nacho Fresneda, Aura Garrido e Rodolfo Sancho – che è brillato di recente anche nella serie gialla “Mar de plástico”.

ministerio

La struttura delle puntate è bilanciata in modo sapiente e sfaccettato, la tensione drammatica (ad esempio la tentazione di cambiare il passato per riavere la moglie morta da parte di Julián Martínez) ha sempre il suo contrappeso “leggero” (i comici tentativi dello spadaccino delle Fiandre Alonso de Entrerríos di trovare senso e posto nel 2016); le figure femminili sono variegate e trattate con la massima cura narrativa: hanno spessore e profondità che età, aspetto e sessualità non oscurano e noi spettatrici e spettatori possiamo finalmente trovare normale il rispetto dato alle loro capacità e competenze. Per cui… buona visione a voi e tanti auguri a me, ci risentiamo il 5 giugno! Maria G. Di Rienzo

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(Brano tratto dall’intervista a Rita Bosaho, deputata di “Podemos”, EL PAÍS – 29 dicembre 2015. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Rita Bosaho è la prima persona nera a essere eletta al Parlamento spagnolo. Nata con la cittadinanza spagnola in Guinea Equatoriale quando questa era ancora una colonia, si è trasferita in Spagna a quattro anni e non si considera una migrante pur accettando di essere diventata un simbolo per gli immigrati. Rita ha cinquant’anni, precedentemente lavorava come assistente sanitaria ospedaliera, è sposata e ha un figlio ventitreenne.)

rita bosaho

Tu hai un diploma in storia e hai lavorato nella sanità: cosa ti ha fatto entrare in politica?

Per un decennio ho lavorato con una piccola ong che crea progetti in Africa e America Latina. Sei anni fa sono andata in Guinea e sono interessata ai problemi che le persone affrontano da ambo i lati della spiaggia.

Ti definisci una femminista.

Sì, perché credo che la lotta femminista sia politica. Raggiungere l’eguaglianza dovrebbe essere una questione di stato. Il giorno prima del voto ho visto un film su Clara Campoamore (femminista e donna politica spagnola). Noi dobbiamo capire il prezzo che è stato pagato per i nostri risultati e che in alcune aree non c’è stato lo stesso progresso che c’è stato in altre.

Sei consapevole che il colore della tua pelle ti rende un membro del Parlamento assai singolare.

Naturalmente. Perché questo manda il messaggio che dobbiamo lottare per un mondo in cui le persone che non sono pienamente rappresentate nella società abbiano voce. Dobbiamo solo guardare come vivono i nostri fratelli gitani, come vivono le donne gitane, che sono spagnoli/e quanto chiunque altro, per capire quando ancora dev’essere fatto.

Come descriveresti la tua relazione con il leader di Podemos, Pablo Iglesias?

Molto buona. Credo che ora ci conosciamo un po’ meglio, comunque è una persona molto gentile e disponibile, preoccupata per i problemi della popolazione.

E con Mónica Oltra? Sei contenta di come ha funzionato l’alleanza con il suo partito, Compromís?

Penso che Mónica sia una persona gradevole e una grande donna politica. Tutto ciò sta contribuendo a rendere le donne più visibili, che è una cosa buona. L’alleanza ha funzionato bene. L’accordo è stato vantaggioso per tutti e inoltre mostra che siamo in grado di dialogare e dialogare è quel che abbiamo bisogno di fare. Abbiamo potuto raggiungere accordi tramite lunghe negoziazioni che hanno prodotto buoni risultati.

Pensi che il risultato di Podemos si debba alla campagna elettorale?

E’ stata una grande campagna. Noi abbiamo cercato il contatto con la gente, la gente ha cercato il contatto con noi. Questo è un momento storico che dobbiamo cogliere. Possiamo davvero cambiare il corso della Storia. Quel che i politici di questo paese devono fare è ascoltare il popolo – attualmente hanno voltato le schiene al popolo.

Quanto del successo del tuo partito è dovuto all’ira della gente per la corruzione?

La cosa è stata fondamentale. E’ un problema endemico nel nostro sistema e dobbiamo combatterlo, così come dobbiamo lottare contro la perdita di diritti sociali, la riforma del mercato del lavoro, e dobbiamo trovare più soldi per la sanità e per i diritti delle donne, in particolare per contrastare la violenza di genere.

Quest’ultima cosa l’hai menzionata spesso durante la campagna elettorale. Cosa esattamente stiamo facendo di sbagliato?

Ci sono stati un mucchio di tagli di spesa. E quando ci sono molti tagli di spesa in aree che hanno a che fare con le persone… Non è giusto che più della metà della popolazione soffra in proporzioni maggiori dell’altra metà, e che i nostri diritti non siano più visibili. Questo ha a che fare con le strutture patriarcali e perciò significa operare cambiamenti nell’istruzione, cambiamenti culturali… Dobbiamo fare qualcosa. Perché non c’è nessuna donna a dirigere qualcuna delle principali istituzioni di questo paese? Continenti come l’Africa sono assai dipendenti dal danaro fornito dalle donne, eppure esse non sono rappresentate nelle istituzioni. Voglio dire che è un problema strutturale, un problema globale. Perché le nostre ragazze si trasformano per apparire “belle” agli occhi dei loro ragazzi? Abbiamo bisogno di femminilizzare la nostra società.

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Calendario alternativo per il 2016. Perché sono arcistufa di immagini di donne in pose contorte, “photoshoppate”, con le lingue penzoloni e le mutande di lustrini. Sono nauseata dal suggerimento sotteso che le donne “non servono ad altro” e “non sanno fare nient’altro”. Perciò, eccovi: IL LAVORO DELLE DONNE – 12 mesi 12 di persone che mi/vi somigliano. Maria G. Di Rienzo

GENNAIO dedicato a Sara Bahai, la prima tassista afgana che lavora per le donne a cui non è consentito prendere taxi senza permesso di un parente maschio di primo grado.

sara bahai

FEBBRAIO dedicato alla meccanica spagnola al lavoro su una turbina d’aereoplano in quel di Aoiz, Navarra.

meccanica spagnola

MARZO dedicato a Mahboubeh Khoshsolat, membro dell’unica squadra femminile di vigili del fuoco in Iran.

mahboubeh khoshsolat

APRILE dedicato a Cristina Isidro Salazar (sinistra) e Felicitas Contreras Santiago (destra) qui ritratte mentre riparano il furgone con cui consegnano legna ai cantieri della loro città, San Pablo Huixtepec, Messico.

cristina e felicitas

MAGGIO dedicato all’operaia tessile francese impegnata al telaio del lino.

operaia francese

GIUGNO dedicato alla carpentiera palestinese Amal Abu-Rqayiq, che lavora nel campo profughi di Nusseirat a Gaza.

Amal Abu-Rqayiq

LUGLIO dedicato a Liu Shujian, saldatrice ultranovantenne cinese ancora al lavoro.

Liu Shujian

AGOSTO dedicato alla sigaraia in pausa dentro la fabbrica di Havana, Cuba.

sigaraia cubana

SETTEMBRE dedicato alla raccoglitrice di tè Oolong sulle colline di Chang Rai, Thailandia.

raccoglitrice thailandese

OTTOBRE dedicato all’ingegnera tedesca che sta costruendo un motore alla fabbrica Mercedes di Affalterbach.

ingegnera tedesca

NOVEMBRE dedicato alle pallequeras, minatrici peruviane che scavano oro in quel de La Rinconada.

minatrici peruviane

DICEMBRE dedicato all’operaia al lavoro nella fabbrica di mattoni fuori Islamabad, Pakistan.

operaia pakistana

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(tratto da: “I will not tell girls not to walk alone”, un più ampio articolo di Rosanna Cooney per The Irish Times, 4 luglio 2015, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Woman Rising

Sin da quando avevo 12 anni sono stata molestata sessualmente negli spazi pubblici. Uomini – uomini adulti fatti e finiti – per strada mi gridavano dietro, fischiavano, mi chiamavano. Incidenti minori si intervallavano con quelli più minacciosi: il furgone bianco che mi seguì mentre passavo per Ranelagh, la macchina nera zeppa di uomini che mi tallonò al tramonto sulla corsia degli autobus; una corsa di dieci minuti, inseguita da un uomo in completo, cominciata in una stazione dei treni a Melbourne.

Poi ci sono stati gli episodi di veloce ed ovvio abuso sessuale: il pescatore greco che mi seguì nella toilette di un ristorante e passò la mano sui miei shorts mentre usavo il lavandino; il giardiniere spagnolo che mi afferrò i seni quando gli chiesi indicazioni stradali.

Ho 22 anni, e ho sperimentato dieci anni di sottomissione femminile forzata dal terrore.

Non puoi fuggire dalla paura, e la paura è alimentata ogni giorno da articoli di giornale, da show televisivi dove le donne sono invariabilmente le vittime della violenza e del perverso desiderio maschile. La paura mi sfida quotidianamente ma non mi inibisce. Sono razionale e so che la maggior parte dei casi di stupro accade fra persone che si conoscono. Perciò cammino da sola nel buio; viaggio da sola e con determinazione. Il mondo è vasto e bello ed è triste e assurdo che il 51% della popolazione viva limitata dalle giornaliere minacce di assalto.

Il mese scorso a Granada, in Spagna, ho lasciato un club da sola per percorrere gli 800 metri che mi separavano dal mio appartamento in centro città. Sotto un segnale stradale per il Camino de Santiago sono stata aggredita da un uomo che non avevo mai visto prima.

Trenta minuti dopo ero di nuovo nel club, dove i miei amici stavano ancora ballando. Il mio vestito era stracciato e sgocciolante di rosso, le mie gambe e le mie braccia inzuppate di sangue che avrebbe dovuto stare sotto la mia pelle. Ho aspettato che mi notassero, poi sono svenuta dal dolore.

All’ospedale, la vista di com’ero ridotta è stata sufficiente a far svenire anche un’infermiera, mentre una seconda è scoppiata in lacrime. Gli esami chiarirono che non ero stata stuprata, avevo lottato con il mio aggressore ed ero scappata. (…)

Una stazione televisiva chiamò, arrivò un giornalista. I reporter avevano udito la storia per via della diffusione che aveva avuto su Facebook. I miei amici spalleggiavano le loro richieste. Sarei andata in tv? No. Poteva contribuire ad identificare il mio assalitore, non pensavo fosse importante condividere la storia? No. Pausa. Per suscitare consapevolezza? Per avvisare altre donne? Per aiutare altre donne? Per proteggerle? Pausa. Pausa. Pausa.

Considerai le mie responsabilità. Il mio silenzio era egoista? Stavo evitando attenzione e domande perché riparlare del tentato stupro mi faceva rivivere un incubo? No. Non è questo il motivo per cui ho rifiutato di interagire con i media che mi circondavano.

Volevo parlare dell’uomo che mi ha sbattuta a terra, che ha calciato la mia faccia sino a rincagnarla, che mi ha rotto il naso, spaccato la bocca, fratturato il cranio, fatto neri ambo gli occhi e stampato l’impronta della sua scarpa sulla mia guancia?

Io non dirò alle ragazze di non uscire da sole. Non dirò loro di essere caute, di vivere sulla difensiva e di viaggiare solo in gruppo. Questa non è una risposta, è solo mantenere il fuoco della paura, acceso nei primi stadi dell’adolescenza e alimentato da notizie sulla violenza contro le donne che sembrano scritte da avvoltoi. Il potere della “mascolinità” si basa sul controllo e sulla disciplina dei nostri corpi negli spazi pubblici e privati. (…)

Le reazioni dei miei amici variarono molto a seconda del loro genere. “Eri solo nel posto sbagliato al momento sbagliato.” (maschio) “Sei così dolce e gentile, non avrebbe dovuto capitare a te.” (maschio) “Santo cielo, te la sei vista brutta, poverina.” (maschio)

Gli uomini si concentrano su di me e in maniera subconscia sulla mia possibile colpa. Non c’è riflessione sulla fonte dell’accaduto; c’è, invece, accettazione della situazione.

Nessun uomo comprende ciò che una donna istintivamente capisce: che quell’attacco è stata una violazione del mio diritto ad essere ovunque a qualsiasi ora senza essere torturata da qualcun altro; e che, al di là della mia natura amichevole o meno, ne’ io ne’ nessun’altra meritiamo questo.

Le mie amiche sono arrabbiate, io non ho l’energia per esserlo. Ma mi dicono che le loro abitudini sono cambiate, e che ora c’è la paura alle loro radici. Gli uomini ti dicono di essere forte, ma sono le donne che possono farmi più forte, combattendo i tentacoli della paura che lasciano tracce vischiose sui loro corpi. (…)

Il mio volto sta guarendo. I miei occhi sono gialli anziché porpora. Il mio naso si sta rimettendo in sesto (Ndt: è stato operato) anche se resta un po’ storto. Ancora non sopporto di essere toccata. Essere in mezzo alla gente è difficile e per tutto il tempo mi destreggio con l’idea di essere troppo “drammatica”. Quel che è accaduto è anormale ma comune. E’ rara la donna che non prova neppure un briciolo di paura quando cammina da sola.

Io imploro le ragazze e le donne di non essere spaventate. Di non portare il peso nauseante di una società che maneggia le vittime ma non prende misure preventive. Di non rinchiudersi nelle loro case e di non imprigionare se stesse interagendo solo con ciò che è loro familiare. Le violenze e le minacce contro le donne non sono responsabilità delle donne.

Vivrò con le cicatrici sulla faccia, calmerò la furia che provo, continuerò a viaggiare da sola, oltre le barricate del terrore che mi confinano alle zone “sicure”. Proverò nervosismo e timore, e mi solleverò oltre essi ogni giorno, perché l’alternativa assomiglia molto alla galera.

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“Per tre volte hanno tentato di mettermi su un aereo per deportarmi, ma ho resistito. Ho l’occhio destro ammaccato, un’unghia strappata via, mi duole il corpo intero e tutti questi sforzi mi hanno indebolita. Ho detto loro che non potevo tornare nel mio paese, perché là non posso avere una vita.”

Christelle Nangnou

E davvero Christelle Nangnou non può. E’ arrivata a Madrid dal Camerun il 25 marzo scorso chiedendo asilo a causa della persecuzione delle persone omosessuali nel suo paese. E’ attualmente sulla lista dei ricercati in Camerun e, se catturata, può essere condannata sino a dieci anni di galera: semplicemente perché è lesbica.

Sino al 15 aprile, data in cui la Spagna le ha concesso uno speciale permesso di residenza per “motivi umanitari”, Christelle è stata prigioniera all’interno dell’aeroporto di Barajas in cui era sbarcata e ha potuto vedere solo l’avvocato Eduardo Gómez di Red Jurídica. A fare rumore sui media c’era per fortuna “La Federación Estatal de Lesbianas, Gais, Transexuales y Bisexuales” spagnola (Federazione Nazionale di Lesbiche, Gay, Transessuali e Bisessuali) e qualche partito politico ha cominciato ad appoggiare la causa di Christelle.

Non credendo alla sua vicenda, i tribunali spagnoli hanno continuato a rigettare la richiesta e l’avvocato Gómez ha dovuto sottoporre il caso alla Corte Europea per i Diritti Umani, la quale ha messo uno stop ai tentativi di deportazione e stabilito la data del 17 aprile come termine per la produzione di prove.

Come ho detto, è andata – relativamente, viste le violenze subite dalla giovane donna – bene: Christelle è legalmente residente in Spagna, ma in carico alla Croce Rossa perché il tipo di permesso temporaneo garantitole dal governo non le consente di lavorare. L’autorizzazione finale, con la cancellazione dell’ordine di deportazione, deve venire dalla magistratura spagnola: ci vorrà circa un anno, dicono gli esperti, perché la procedura arrivi al suo termine.

Quel che vorrei sottolineare è che Christelle aveva in effetti fornito una prova decisiva giusto al suo arrivo. Si tratta di questo ritaglio di giornale.

il giornale

L’articolo attesta che la polizia sta cercando di catturarla quale “capobanda/tenutaria di un gruppo di lesbiche” e dell’omosessualità dice come sia “allarmante constatare il crescente potere di tale pratica satanica in seno alla nostra società. Sono ancora ingenui, vedete, non hanno pensato di sostituire “omosessualità” con “teoria del gender” e “pratica satanica” con “complotto per cancellare le differenze fra uomini e donne”. L’odio ignorante che sta dietro ad ambo le opzioni è comunque identico. Maria G. Di Rienzo

(Fonti: El Pais, El Diario, Global Voices)

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Grazie al lavoro di denuncia e sostegno delle attiviste femministe, i tribunali turchi sono stati sommersi di recente da un’ondata di processi relativi alla violenza domestica. Il problema, dicono le attiviste, è che il sistema giudiziario sembra “un club per soli uomini”, i giudici non condannano i violenti per quelle che sono rubricate come “dispute familiari” e le voci delle donne “sono ridotte al silenzio da quello stesso sistema che dovrebbe proteggerle.” Perciò, hanno deciso di fare un passo in più e il 26 giugno scorso Benal Yazgan e le sue colleghe e sostenitrici hanno sottoposto al Ministero degli Interni la petizione affinché Kadin Partisi – Il Partito delle Donne sia riconosciuto legalmente; il suo scopo è “lottare contro la discriminazione di genere e la diseguaglianza nella società, così come contro le discriminazioni basate su religione, lingua, etnia e orientamento sessuale, i colpi di stato militari e civili e gli incitamenti all’odio.”

Cosa vogliono offrire alle donne che hanno sofferto abusi? “Presenza femminile nelle forze dell’ordine e nei tribunali. Nuove leggi che promuovono l’eguaglianza. Nuove politiche che perseguono la giustizia. Offriamo loro l’inizio di un nuovo movimento di liberazione delle donne in Turchia.” Kadin Partisi parteciperà alle elezioni parlamentari del 2015.

Benal con il simbolo

Benal con il simbolo

E sempre nel 2015, in primavera, la Spagna potrebbe vedere la più grande manifestazione femminista della sua storia. Le “prove generali” sono state fatte circa una settimana fa a Barcellona, dove migliaia di donne hanno fermato il traffico, bloccato la metropolitana tenendo aperte le porte dei vagoni e occupato gli uffici di istituzioni politiche ed economiche, fra cui il “Cercle d’Economia”, potente “pensatoio” economico e finanziario degli imprenditori da cui escono illuminazioni del tipo “meglio assumere donne sopra i 45 anni e sotto i 25, così non c’è il problema della gravidanza”.

barcellona

600 gruppi femministi hanno formato, con un anno di discussione e lavoro, “Vaga de Totes” (Tutto sciopera, o anche Sciopero ovunque) e portato nelle strade i problemi per cui chiedono soluzioni, che vanno dalla violenza di genere alle “riforme del lavoro che aumentano le diseguaglianze già subite dalle donne” e ai “tagli al welfare che incrementano le ore dedicate dalle donne alla cura delle persone”. E’ incredibile che un’azione di protesta così partecipata e così ben riuscita, ideata per gran parte da giovani donne, non abbia avuto alcuna copertura dai media internazionali. Mentre marciava lungo la Gran Via di Barcellona, l’attivista femminista Laura Lozano ha spiegato a quelli spagnoli che spesso le donne non possono partecipare agli scioperi dei lavoratori perché stanno “combinando più impieghi diversi sottopagati” e che “i tagli alla sanità e all’istruzione ci colpiscono più di altri, perché sono le donne che si prendono cura delle persone dipendenti, piccole o grandi.” Nel 2015, quindi, le “cuidados” – che significa proprio “quelle che hanno cura” – hanno in programma di mostrare cosa succede quando le donne incrociano davvero le braccia: per cui non solo non andranno al lavoro (qualora lo abbiano, la disoccupazione in Spagna è altissima, soprattutto per le giovani), non faranno la spesa, non cucineranno, non puliranno, non accudiranno.

“Le donne muovono il mondo. – sottolineano a Vaga de Totes – E insieme possono fermarlo.” Maria G. Di Rienzo

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ActionAid, un’organizzazione umanitaria britannica, ha menzionato in un rapporto recente che il 90% delle prostitute in Bangladesh sono assuefatte all’Oradexon, uno steroide usato per il bestiame.

“La sostanza è intesa per ingrassare le mucche, ma è diventata la droga preferita nei bordelli del paese. Le tenutarie dei bordelli la danno alle ragazzine minorenni per mascherare la loro vera età, di modo che appaiano più vecchie, ma la danno anche alle prostitute “stagionate” per farle apparire paffute e voluttuose.”, ha spiegato Anushay Hossain, attivista del Bangladesh.

lisa

Il magnaccia di Lisa, nella foto, l’ha marchiata con un tatuaggio all’interno delle labbra. La cosa è accaduta a San Diego, Usa. Naturalmente Lisa non è la sola ad aver fatto questa esperienza (il suo sfruttatore impone il marchio a tutte le prostitute che controlla) e detto magnaccia non è un’eccezione: nei tribunali statunitensi stanno passando in questi giorni le fotografie del gruppo di donne controllato da un altro farabutto che le ha tatuate tutte – su guance, seni, cosce, natiche – con l’acronimo C.R.E.A.M (Crema) = Cash Rules Everything Around Me = Il contante governa ogni cosa attorno a me, ma anche il simbolo del dollaro è popolare come marchio di possesso.

“Si fanno chiamare imprenditori. – dice il Ten. Andre Dawson del Dipartimento traffico di esseri umani della polizia di Los Angeles – Fra loro parlano di come fare 300.000 dollari l’anno a ragazza. Il marchio fa parte del processo di indottrinamento: non importa quel che dici o quel che vuoi, addosso hai il mio nome.” “Le ragazze sono riusabili ogni giorno. – aggiunge la procuratrice Sanders Gordon – Per questi tizi sono solo dei prodotti ed è più facile vendere una donna che vendere droga: quando la droga l’hai venduta devi procurartene ancora, ma quando hai una ragazza la puoi usare di continuo.”

polso spagna

Questa ragazza di 19 anni era una delle schiave di una gang di magnaccia in Spagna, donne bastonate e minacciate affinché si prostituissero. Come le altre, è stata marchiata sul polso con una sorta di codice a barre e con la somma che doveva consegnare per essere liberata, nel suo caso 2.000 euro.

“In maggioranza i clienti non sanno o non gli importa sapere se stanno comprando sesso da una che si è messa in affari in modo indipendente o da una che è stata forzata a vendere il proprio corpo. Le donne nella prostituzione devono fingere di essere felici, che si tratti di compiacere il compratore – di modo che diventi un cliente abituale – o che si tratti di compiacere il magnaccia, di modo che non le picchi. Qualsiasi sia la piattaforma tramite cui i corpi delle donne sono comprati e venduti, la prostituzione perpetua una forma di violenza estrema contro le donne. Il tasso di omicidi “sul posto di lavoro” è 50 volte più alto di quello delle donne che lavorano in rivendite di liquori. E’ un mestiere in cui dal 60 all’80% delle “lavoratrici” fa regolarmente esperienza di abusi fisici e sessuali. Il tasso di infezione da Hiv è 14 volte più alto fra le prostitute rispetto alle altre donne. Il fatto è che la stragrande maggioranza delle donne che “scelgono” la prostituzione lo fanno solo perché altre opportunità economiche sono loro inaccessibili. In una società dove le donne continuano a dover affrontare discriminazione, povertà e violenza, ogni occasione di guadagnare denaro può sembrare una scelta.” Helen Rubenstein, legale di Advocates for Human Rights, 7.9.2014.

Due notizie sui quotidiani italiani del 25 settembre (oggi) – la prima è data con titoli di questo tipo: Arrestato per pedofilia allenatore di calcio giovanile di Roma, Arrestato allenatore giovanile di calcio: “Abusi sessuali su ragazzini dai 13 ai 15 anni” e gli articoli relativi sono (giustamente) zeppi di “tutelare i minori”, rilevano “la spregiudicatezza e l’elevata capacità manipolatoria dell’adulto”, “un soggetto pericoloso socialmente, che reitera le proprie azioni, senza mai desistere dai propri comportamenti, ormai divenuti abituali e non manifesta alcun ravvedimento né pentimento”. Il mister “comprava” i ragazzini con “somme di denaro, ricariche telefoniche e regali di ogni sorta, che costringevano le facili prede a ricambiarlo, assecondando le sue richieste sessuali.”

La seconda notizia riguarda un giro di prostituzione minorile femminile, a Milano. I titoli parlano di “tre nuove inchieste”, di “via vai di clienti da un appartamento”, di “vastissimo giro” e sparano negli occhielli frasi del tipo: “Sul litorale, una gang ne gestiva dieci” – di cosa? Be’, di quelle che TUTTI i titoli definiscono “baby prostitute” o “baby squillo”. Qua la tutela dei/delle minori non appare, le facili prede neppure, la spregiudicatezza e l’elevata capacità manipolatoria di magnaccia e clienti neanche. Anzi, ci si stupisce che le quindicenni femmine si lasciassero comprare per così poco: “Il compenso? Poche decine di euro, a volte qualche grammo di cocaina, un ingresso in discoteca, un drink pagato al bar.”, anche se l’equivalenza con le “regalie” dell’allenatore ai giovanissimi calciatori è evidente.

No, non mi sto chiedendo perché. Mi sto chiedendo se in Italia possiamo smettere di prenderci in giro con “il libero scambio sessuale a pagamento fra adulti consenzienti”, e “la felice prostituta liberata” e il “civilissimo puttaniere liberato” e il “buon intermediario liberato che fa soldi sulla prostituta liberata”, perché non si tratta più di essere solo ridicoli: soprattutto nei confronti delle minori questo atteggiamento è infame. Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “Laying Claim to Our Bodies”, di Shazia Z. Rafi per Women’s Media Center, 7 maggio 2014, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)
Quando ho visto per la prima volta il mio certificato di nascita, rilasciato a Lahore, ho provato orrore. Il certificato attestava che mio padre aveva prodotto una bambina – nessuna menzione di mia madre, l’utero ambulante. Il nome proprio mi fu dato più tardi dal capo maschio della famiglia di mio padre.
Mentre facevo ricerche sul movimento di protesta delle donne che registrano la proprietà del loro corpo in Spagna, ho capito tristemente che nonostante siano passati decenni, in Europa la lotta per stabilire chi “possiede” il ventre di una donna è ancora in corso.
Nel giro di qualche settimana, il Parlamento spagnolo voterà una revisione della legge sull’aborto che restringerebbe grandemente il diritto di una donna a interrompere la gravidanza. Se passa nella forma che ha attualmente, la Spagna si unirà all’Irlanda nell’andare all’indietro nell’epoca degli aborti clandestini per le povere e degli aborti all’estero per quelle che possono finanziariamente permetterselo.
Mentre le notizie al proposito cominciavano a circolare, qualche mese fa, Yolanda Dominguez – artista di Madrid – ha deciso di rovesciare la prospettiva con un semplice e potente gesto: “Siamo sempre state mercificate, come fossimo proprietà di altri. Prima gli uomini delle nostre famiglie, adesso lo Stato. Perciò ho deciso di rendere il mio corpo mia proprietà, e sono andata all’ufficio dove si registrano le proprietà come automobili, case, eccetera, a registrare me stessa.”
Il 5 febbraio scorso, in risposta alla chiamata di Yolanda, file di donne si sono formate davanti alle Camere di Commercio di Madrid, Barcellona, Bilbao, Siviglia, Pamplona e Pontevedra, per chiedere la certificazione ufficiale che i loro corpi appartengono a loro stesse.

in fila per la registrazione a madrid

I funzionari locali, alcuni divertiti, alcuni perplessi, si sono conformati alla richiesta. E un movimento è nato. Sino ad ora, un migliaio di donne hanno ottenuto la registrazione.
“E’ un modulo molto semplice, che ho messo a disposizione online.” dice ancora Yolanda.

http://www.yolandadominguez.com/en/register-2014.html

“Aspetto il risultato del voto. Se la legge non sarà approvata, celebrerò la vittoria di tutte le donne. Se sarà approvata, penserò ad altri modi con cui esprimere la nostra opinione.” Yolanda è perfettamente conscia che registrare la proprietà dei corpi è un’azione simbolica. Se l’aborto sarà reso illegale, quel pezzo di carta non avrà il potere di convincere un medico a praticare un’interruzione di gravidanza ne’ quello di proteggere chi eventualmente la fornisse.
Le donne spagnole, tuttavia, stanno ancora riempiendo gli uffici per ottenere la registrazione: “Io non le conosco, – conclude Yolanda – ma dobbiamo fare in modo che si conosca pubblicamente chi sono e quel che pensano.”

Svegliati - Yolanda Dominguez a Milano

(Ndt. L’interruzione di gravidanza è legale in Spagna dal 1985. La legge vigente al proposito è del 2010. La cosiddetta “pillola del giorno dopo” può essere comprata in farmacia senza ricetta, ma la legge permette al farmacista di “obiettare” per ragioni religiose: che alcuni farmacisti estendono alla vendita di preservativi.)

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Dopo un ventennio di abusi e violenze da parte del compagno, e dopo l’ennesimo pestaggio subito davanti alla figlioletta Andrea di tre anni, Angela González Carreño fugge con quest’ultima. E’ il 1999. Ma per il signor Rascón – l’aggressore – non fa grande differenza. E’ il padre della bambina e ha il diritto di vederla, quindi di sapere dove le due stanno di casa, e continua a presentarsi loro a suo capriccio e a malmenare Angela. La donna teme per la propria vita, ma soprattutto per quella della figlia: durante gli anni presenta alla polizia più di trenta denunce, chiedendo fra le altre cose che le visite dell’uomo alla bambina avvengano sotto supervisione. Non la si ascolta. In un solo caso l’uomo viene multato per “molestie”. In momenti diversi i tribunali avevano decretato sia l’ordine di protezione per Angela, che il suo ex compagno violava senza conseguenze, sia l’ordine di protezione per la bimba – che fu subito ritirato perché “lesivo del diritto di visita del sig. Rascón”. E durante una di queste visite non monitorate, il 24 aprile 2003, il signor Rascón uccide Andrea (che non aveva ancora compiuto sette anni) e si suicida.

Angela con le fotografie della figlia

Angela con le fotografie della figlia

Dopo la morte della bambina, Angela ha cercato inutilmente giustizia portando il caso attraverso tutti i livelli del sistema giudiziario spagnolo, fino alla Corte Suprema e alla Corte Costituzionale. Ogni volta, il tribunale non ha riconosciuto ne’ la negligenza delle autorità competenti ne’ la violazione dei diritti della donna e di sua figlia. Allora, nel settembre 2012, si è rivolta al Comitato CEDAW (Convenzione per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne, NU 1979), chiedendo la condanna dello stato per l’impunità che alimenta e permette la violenza di genere, per cui lei ha sofferto e per cui Andrea ha sofferto ed è morta, e il riconoscimento che il diritto di un minore di vivere una vita libera della violenza dovrebbe essere considerato interesse superiore al diritto di visita nelle cause legali. E’ una lotta straziante, quella di Angela, ma lei dice che la continuerà perché ha speranza di vedere un cambiamento sistemico, qualcosa che garantisca il non ripetersi del suo caso per altre donne e bambine/i vittime di violenza.

Il Comitato CEDAW è il solo organismo internazionale che si occupi specificatamente dei diritti umani delle donne fornendo pareri legali tramite il suo personale esperto, e definendo standard sulla violenza di genere che vanno ad interessare tutti i 187 stati che hanno firmato la Convenzione. Nella denuncia presentata dalla donna, ormai nota come “Angela González Carreño vs. Spagna”, si documentano le violazioni agli artt. 2 (obblighi generali – il fallimento nel prevenire, perseguire, indagare e punire la violenza commessa contro la bambina), 5 (stereotipizzazione – contenuta nelle risposte che i vari tribunali spagnoli le hanno fornito rigettando le sue istanze) e 16 (eguaglianza nel matrimonio e nelle relazioni familiari – giacché oltre a chiudere un occhio sulla violenza, polizia e giudici l’hanno chiuso anche sul fatto che il padre non provvedeva economicamente per il mantenimento della figlia).

A rappresentare Angela ci sono Paloma Soria Montañez e Gema Fernández Rodríguez de Liévana, due giovani avvocate di Women’s Link Worldwide, un’ong internazionale pro diritti umani che lavora per l’eguaglianza di genere in tutto il mondo.

http://www.womenslinkworldwide.org/

gema e paloma soria

Come la loro assistita, sperano che il Comitato identificherà chiaramente la stereotipizzazione di genere come una delle radici della violenza e della discriminazione: “L’applicazione degli stereotipi di genere da parte di autorità, giudici e tribunali è una della barriere più significative che stanno fra le donne e il loro accesso alla giustizia quando i loro diritti umani sono violati. Inoltre, il caso di Angela è tipico, non unico e non isolato. In Spagna, come in molti altri paesi, c’è un’alta incidenza di violenza contro le donne e la mancanza di risposte adeguate quando le donne cercano protezione e rimedi. Nel 2004, la Spagna ha adottato una legislazione specifica sulla violenza domestica, ma la sua implementazione è minima. I giudici sono riluttanti ad applicarla a causa dei loro stessi pregiudizi e nessun meccanismo li richiama alla responsabilità per questo atteggiamento; in più, a causa della mancanza di indagini giudiziarie, un alto numero di casi di violenza contro le donne sono lasciati cadere.” Maria G. Di Rienzo

(Fonti: Agenzia Donne delle Nazioni Unite, Women’s Link Worldwide, OpCedaw)

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