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(“Meet Fartuun Adan, Somalia” – Nobel Women’s Initiative, 2017, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

fartuun adan

Fartuun Adan è nata e cresciuta in Somalia e là ha vissuto durante la guerra sino al 1999, quando emigrò in Canada con le sue bambine. Nel 2007 ritornò per onorare la memoria del marito morto aprendo il “Centro Elman per la pace e i diritti umani” e, più tardi, “Sorella Somalia” – il primo centro di assistenza alle vittime di stupro che si trova a Mogadiscio. (http://www.sistersomalia.org/)

Nel 2007 sei tornata in Somalia dopo aver vissuto in Canada. Cosa ti ha fatto tornare?

Ho sempre voluto fare ritorno. Era qualcosa a cui pensavo costantemente, ma all’epoca le mie figlie erano molto giovani e non potevo partire. Nel 2007 erano ormai cresciute e in grado di prendersi cura di se stesse. Volevo tornare per dare riconoscimento al lavoro che mio marito aveva fatto da vivo. Era un attivista molto impegnato in Somalia e un mucchio di gente lo conosceva e lo ricorda ancora oggi.

Che tipo di lavoro hai fatto appena arrivata?

Quando sono tornata ho cominciato a lavorare con i bambini soldati e per i diritti umani. Non era facile, ma sentivo di dovermene occupare. All’epoca c’erano le forze della milizia e quelle del governo somalo in conflitto, e dappertutto vedevi bimbi con fucile a tracolla. Perciò abbiamo aperto il Centro per riabilitare i bambini e difendere i loro diritti.

Nel 2011 hai aperto a Mogadiscio il primo centro antistupro in assoluto, “Sorella Somalia”. Cosa ti ha ispirata a farlo?

Abbiamo iniziato questo lavoro quando visitavamo i campi degli sfollati e incontravamo moltissime donne che erano state violentate e nessuna aveva presentato denuncia. Alcune di queste donne non potevano permettersi neppure i costi delle cure mediche relative all’aggressione subita. Ci prendevamo cura delle donne e chiedevamo aiuto per loro ai governi locali. Le donne potevano venire al nostro Centro e avere cure mediche, potevano restarci e potevano finalmente riposare.

Quali sono gli ostacoli e le sfide che affronti nel dar sostegno a queste donne?

La sfida è che non c’è giustizia. Quando suggeriamo di andare alla polizia, le donne dicono no. Chiedono: “Chi mi proteggerà se lo faccio, dove andrò dopo?”. E’ una grossa sfida perché io non ho risposte per questo. Non posso dire: “Ti proteggerò io.” Parlare apertamente di ciò che hanno subito può arrecare rischi ancora più gravi a queste donne. Cambiare il sistema è difficile. Ma se continuiamo a parlare prima o poi dovranno ascoltarci. Noi non ci arrendiamo mai. Attualmente la portata della questione non è più negata dalle ong, dalle comunità e persino dal governo: tutti sanno che la violenza sessuale sta accadendo. Adesso che siamo d’accordo nel riconoscere che un problema esiste, come lo risolviamo? Cosa possiamo fare? Questo è lo stadio in cui ci troviamo al momento.

Cosa ti dà la forza di continuare a svolgere questo lavoro?

Sono una madre e ho figlie. Quando incontro le ragazze e vedo quanto soffrono mi chiedo “Cosa farei se ciò accadesse a mia figlia?”. Perciò faccio ciò che posso, in qualunque modo. Ogni sera quando torno a casa mi chiedo: “Cos’ho compiuto oggi, a chi ho dato una mano?” e questo mi dà la sensazione di aver raggiunto qualcosa. Quando so di aver contribuito al cambiamento, questo mi motiva al cento per cento.

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(“Are Women Really Peaceful?”, di Sanam Naraghi Anderlini, 2014, trad. Maria G. Di Rienzo. Sanam Naraghi Anderlini è la co-fondatrice di International Civil Society Action Network (ICAN) – http://www.icanpeacework.org -, una rete internazionale della società civile. Esperta di genere e conflitto, Sanam fu una dei membri della società civile che parteciparono alla stesura della Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite su donne, pace e sicurezza.)

sanam

Sono davvero pacifiche, le donne?

Questa è la domanda che inevitabilmente sorge durante ogni discussione sull’inclusione o il contributo femminile alla costruzione di pace.

Per alcune donne occidentali l’assunto che le donne siano orientate alla pace implica l’essere troppo “soffici”. E’ spiacevole, perché il dialogo, la diplomazia e il compromesso sono faccende molto più dure e complesse dell’affidarsi alle opzioni militari.

Le persone mettono in discussione l’essere orientate alla pace delle donne puntando il dito su leader come Margaret Thatcher, Golda Meir ed altre che hanno guidato i loro paesi in guerra. Indicano le donne che si uniscono a ISIS o i membri femmine nei movimenti di ribelli armati, come Farc in Colombia o i maoisti in Nepal, per provare che le donne non sono pacifiche.

Questi esempi raccontano solo una piccola parte della storia. Metà dell’umanità non può essere omogenea nelle sue azioni. Anche il contesto va preso in considerazione.

Ci sono tre modi di rispondere alla domanda. Il primo potrebbe essere: no, le donne non sono pacifiche. Come individui, le donne possono essere violente o sostenere la violenza. Molte si uniscono ad eserciti, gruppi armati o altri movimenti che predicano e perpetrano violenza.

Per alcune donne il servizio militare è la strada verso l’eguaglianza, l’empowerment e fuori dall’oppressione. Numerose donne nepalesi nel movimento maoista si sono unite alla lotta per i principi di eguaglianza e giustizia sociale asseriti dal movimento. Si uniscono dopo aver testimoniato l’uccisione dei propri padri, mariti o fratelli da parte dell’esercito. Alcune fuggono dalla violenza nelle loro case o per vendicare il proprio stupro. Alcune sono forzate.

Ci sono situazioni in cui donne spingono i loro parenti maschi alla vendetta o a cercare retribuzione per la violenza da loro subita, ma globalmente le donne sono ancora una minoranza nei gruppi armati o negli eserciti.

Il secondo modo di rispondere alla domanda è: sì, se le azioni collettive delle donne, come movimenti organizzati per lottare per i propri diritti di base e l’autodeterminazione, sono prese in considerazione. Attraverso la Storia e il mondo, l’organizzarsi collettivo delle donne ha le sue radici nella nonviolenza e usa la resistenza civile e altre tattiche simili per arrivare ai suoi scopi.

Il movimento delle donne afgane è uno di questi casi. Nonostante trent’anni di guerra e di oppressione diretta, nonostante minacce di morte e aggressioni, le donne afgane continuano la loro lotta per i diritti e la pace in modo nonviolento.

Vi è inerente ironia e contraddizione, in questo. Martin Luther King e il Mahatma Gandhi sono onorati per la loro aderenza alla nonviolenza. Ma la maggior parte delle leader e delle attiviste nei movimenti per i diritti delle donne sono tipicamente ne’ celebrate ne’ onorate, mentre quelle che hanno usato violenza sono spesso ricordate nelle narrazioni storiche.

La risposta finale è considerare come le donne, collettivamente e individualmente, contribuiscono a metter fine alla violenza e alla costruzione di pace, durante le guerre e nei contesti interessati da conflitti.

Sovente, le esperienze personali hanno spinto le donne come singoli individui a sollevarsi come attiviste per la pace. In Sri Lanka, Visaka Dharmadasa ha incanalato il dolore seguito alla sparizione del figlio (che era nell’esercito) verso il cercare il leader dei ribelli e l’iniziare con lui un dialogo che ha contributo a un “cessate il fuoco”. Lei scelse di pensare ai ribelli, in maggioranza giovani uomini, attraverso la lente di una madre, anche se costoro erano responsabili della sua perdita.

Allo stesso modo negli Usa, donne che avevano perso figli e mariti l’11 settembre non solo istigarono la Commissione 11/9, ma stabilirono organizzazioni umanitarie che promuovono l’empatia per le vittime di violenza e celebrano la diversità religiosa.

Questa capacità di lavorare su un dolore profondo volgendolo in positivo è una qualità straordinaria.

In Somalia, un gruppo di donne anziane appartenenti all’elite usarono il proprio status per interagire con i clan guerreggianti e incoraggiarono la loro partecipazione ai colloqui di pace, e negoziarono la riapertura dell’aeroporto e dell’ospedale con i ribelli di al-Shabaab.

Non tutte le donne in un movimento per i diritti umani delle donne fanno attivismo pacifista.

Non tutte le donne pacifiste emergono dai movimenti per i diritti umani.

Sebbene siano una minoranza, le donne che combinano l’attivismo per la pace con l’attivismo per i diritti gettano ponti sui divari e attirano sostenitori da ambo le parti. I loro successi sono basati su tecniche che esse stesse hanno ideato, spesso specifiche per un dato contesto culturale, e radicate nel loro invisibile potere.

In molti paesi, le donne hanno usato scioperi del sesso come tattica all’interno del loro più ampio sforzo per metter fine agli scontri.

In Sierra Leone, donne anziane appartenenti alla chiesa chiesero un incontro con un leader del movimento ribelle. Furono insultate e come risposta si sfilarono le vesti e rimasero nude, conoscendo alla perfezione le conseguenze. La loro azione accese la mobilitazione degli uomini appartenenti alla chiesa e ciò portò alla fine della violenza.

In Liberia, donne si interposero direttamente durante le resistenze al processo di disarmo e convinsero i giovani uomini a consegnare loro le armi.

In numerosi scenari, le donne hanno portato informazioni e prospettive importanti ai processi di pace su istanze quali sicurezza, giustizia, governance e recupero economico. Mentre i belligeranti sono spesso concentrati sulla propria quota di potere, le donne sono concentrate sulle responsabilità verso le loro comunità, famiglie e bambini.

Persino donne anziane dei movimenti ribelli del Salvador e del Guatemala, che entravano nelle negoziazioni come combattenti stagionate e rappresentanti dei loro gruppi, diventarono subito consapevoli dei gruppi marginalizzati, fra cui le donne – e parlarono in loro favore.

Invariabilmente, la loro comprensione della pace e della proverbiale “tavola della pace” ha più sfumature ed è più complessa di quella dei partiti in guerra o dei mediatori. Le donne sanno che metter fine alla violenza è una priorità, ma riconoscono anche che ciò non può essere fatto in modo efficace senza affrontare le cause profonde della guerra ed articolare una visione condivisa di pace e società.

In nessun altro luogo questo è tanto visibile quanto nell’odierno Medio Oriente. Nella lotta contro gli estremismi insorgenti e il militarismo di stato, le donne in Siria, Libia, Iraq, Egitto ecc. osano contrapporsi e intervenire. Sono le prime a rispondere con soccorso, cura e “normalità” nel bel mezzo del caos. E nonostante tutta la violenza e le minacce di morte, sanno che le risposte militari non metteranno mai fine alla crisi. Si basano sulla loro propria storia e difendono diritti umani, pluralismo e pace. Esse sono l’unico movimento transnazionale che sta offrendo una visione condivisa e dei valori condivisi, in alternativa a visione e valori degli estremisti.

“Chiediamo al mondo: perché ci aiutate ad ucciderci l’un l’altro? – ha detto un’attivista siriana – Perché non ci aiutate a parlare l’uno all’altro?”

Le donne sono gli assetti chiave per la pace, eppure la comunità internazionale persiste nell’ignorarle o marginalizzarle. Forse è il momento di girare sottosopra la domanda iniziale.

Perché il mondo continua ad ignorare o indebolire donne che sono abbastanza coraggiose da lottare per la pace, pacificamente?

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Per le donne che sono “difficili” da amare (di Warsan Shire, trad. Maria G. Di Rienzo)

Warsan

Tu sei una cavalla che corre da sola

e lui tenta di domarti.

Ti paragona ad un’impossibile strada maestra

dice che lo stai accecando

che non potrebbe mai lasciarti

dimenticarti

volere null’altro che te.

Gli dai le vertigini, sei insostenibile.

Ogni donna prima o dopo di te

si scioglie nell’acqua del tuo nome.

Tu riempi la sua bocca

i denti gli dolgono dal ricordo del gusto

il suo corpo solo un’ombra lunga che segue il tuo.

Ma tu sei sempre troppo intensa

spaventandolo nel modo in cui lo vuoi

senza vergogna e come in un’offerta propiziatoria.

Lui dice che nessun uomo può diventare

quello che vive nella tua testa.

E tu hai tentato di cambiare, non è vero?

Hai chiuso di più la bocca

tentato di essere più tenera

più carina

meno incostante, meno conscia.

Ma persino quando dormi puoi sentirlo

viaggiare lontano da te nei suoi sogni.

Perciò che vuoi fare, amore,

aprirgli la testa?

Non puoi fare case degli esseri umani

qualcuno deve avertelo già detto

e se lui vuole andarsene

allora lascialo andare.

Tu sei terribile

e strana e bellissima:

qualcosa che non tutti sanno come amare.

(Warsan Shire, di origine kenyota ma nata in Somalia nel 1988, vive a Londra. Warsan è una poeta-guaritrice, nel senso che usa i versi e la narrazione per documentare esperienze e traumi, e aiutare chi l’ascolta ad intraprendere il viaggio verso la guarigione. Nel 2010 ha letto pubblicamente le sue poesie in Italia, a Roma, ma hanno avuto il piacere di ascoltarla dal vivo anche in Germania e in Sudafrica.)

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Gandhi con le operaie tessili del Lancashire, 26.9.1931

Gandhi con le operaie tessili del Lancashire, 26.9.1931

Il 2 ottobre è il Giorno Internazionale della Nonviolenza (giorno di nascita di Gandhi): lo stabilì nel 2007 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite come occasione per “disseminare il messaggio della nonviolenza”, nel desiderio “di assicurare una cultura di pace, tolleranza, comprensione”. Vi andrebbe di fare qualcosa che vada in questa direzione, oggi? Io ho un suggerimento: potreste firmare la petizione che si trova al seguente indirizzo:

http://www.change.org/en-GB/petitions/united-nations-secretary-general-the-ohchr-end-stoning-now

Di che si tratta ve lo faccio spiegare da Emma Batha con alcuni brani di un suo articolo del 29.9.2013 per Thomson Reuters Foundation (trad. Maria G. Di Rienzo):

Due mesi fa, in Pakistan, una giovane madre di due figli è stata lapidata a morte dai suoi parenti, su ordine di un tribunale tribale. Il suo crimine: possedeva un cellulare. Lo zio di Arifa Bibi, i suoi cugini ed altri le hanno tirato addosso pietre e mattoni sino a che è morta. E’ stata sepolta nel deserto, lontana dal villaggio. Sembra che nessuno sia stato arrestato.

Il suo caso non è unico. La lapidazione è legale o praticata in almeno 15 fra paesi e regioni. E gli attivisti temono che questa forma barbarica di esecuzione stia crescendo, in particolar modo in Pakistan, Afghanistan e Iraq. Le attiviste per i diritti delle donne hanno lanciato una campagna internazionale per il bando della lapidazione, che è nella maggioranza dei casi inflitta alle donne accusate di adulterio. Stanno usando Twitter ed altri social media per far pressione sul Segretario generale delle NU Ban Ki-moon affinché denunci la pratica.

“La lapidazione è un castigo crudele e mostruoso: è una forma di tortura a morte.”, dice Naureen Shameem del gruppo internazionale per i diritti umani Women Living Under Muslim Laws (WLUML – Donne che vivono sotto le leggi musulmane), “E’ una della forme più brutali della violenza perpetrata contro le donne al fine di controllare e punire la loro sessualità e le loro libertà basilari.” Aggiunge che le attiviste intendono spingere le NU ad adottare una risoluzione sulla lapidazione, simile a quella passata lo scorso anno sullo sradicamento delle mutilazioni genitali femminili, un altro tipo di violenza contro le donne spesso giustificato con motivazioni religiose e culturali.

La lapidazione non è legale nella maggioranza dei paesi musulmani e non vi è menzione di essa nel Corano, ma i suoi sostenitori controbattono che è legittimata dagli Hadith, le azioni e i detti del Profeta Maometto. La lapidazione è indicata come punizione specifica per l’adulterio in molte interpretazioni della “sharia” o legge islamica. In alcune circostanze, anche una donna che denunci l’essere stata stuprata può essere vista come rea confessa di “zina”, o sesso fuori dal matrimonio. In uno dei casi citati da Shameem, una ragazza somala tredicenne, Aisha Ibrahim Duhulow, è stata seppellita sino al collo e lapidata da 50 uomini di fronte ad un pubblico di 1.000 persone, in uno stadio a Kismayu nel 2008. Suo padre ha testimoniato ad Amnesty International che la ragazza era stata violentata da tre uomini, ma che era stata accusata di adulterio quando aveva denunciato lo stupro alla milizia al-Shabaab che controlla la città.

L’Iran ha il più alto tasso di esecuzioni per lapidazione e attualmente vi sono in prigione 11 persone condannate ad essa, secondo l’avvocata iraniana e attivista per i diritti umani Shadi Sadr. L’avvocata, che è stata rappresentante legale di cinque persone condannate alla lapidazione, dice che l’Iran esegue queste sentenze in segreto, nelle carceri, nel deserto o al mattino presto nei cimiteri: “La pressione dall’esterno dell’Iran aiuta sempre. La repubblica islamica pretende di non curarsi della propria reputazione, ma in effetti se ne cura e come.”

dimostranti iraniane

La lapidazione è un castigo legale per l’adulterio in Mauritania, in un terzo dei 36 stati nigeriani, in Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Somalia, Sudan, Emirati Arabi Uniti e Yemen. In alcuni paesi, come la Mauritania ed il Qatar, la lapidazione resta legale anche se non mai stata usata, ma in altri paesi come l’Afghanistan e l’Iraq, dove è illegale, viene praticata in modo extragiudiziale da leader tribali, militanti, eccetera. “In Afghanistan”, spiega Naureen Shameem, avvocata per i diritti umani di WLUML che sta coordinando la campagna contro la lapidazione, “i signori della guerra stanno manipolando la religione per terrorizzare davvero la popolazione, per i loro scopi politici: la lapidazione è uno dei mezzi che stanno usando.” L’anno scorso, la 21enne Najiba è stata lapidata di fronte ad un centinaio di uomini esultanti, dopo che i signori della guerra della provincia afgana di Parwan l’avevano accusata di “crimini morali”. Uno degli uomini ha filmato la lapidazione, che è visibile su internet. Shameem dice che il caso di Najiba fa chiarezza su quale livello di impunità esista. (…) La petizione contro la lapidazione sarà presentata al Segretario generale e all’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite il 25 novembre prossimo – Giorno internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: al momento, ha circa 9.000 firme (Ndt: il 1° ottobre aveva oltrepassato tale cifra).

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(“Femininity issue or misconception”, di Deqa Osman, Somalia, 6.5.2013, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Entro in classe. Gli studenti mi danno una breve occhiata e poi tornano alle loro posture precedenti. Io sto presso la lavagna e gli studenti si guardano l’un l’altro, confusi. Poso la borsa sulla cattedra, la apro, tiro fuori il mio laptop. Cominciano i sussurri. Gli studenti si chiedono cosa sta succedendo. Una studentessa, una femmina, così sfacciata da stare di fronte ad un’intera classe, come osa, è disgustoso!

Io scrivo il mio nome sulla lavagna e dico: “Buongiorno a tutti. Io sono la vostra insegnante per questo corso.” I sussurri aumentano di tono, le risate rubano la scena. Gli studenti maschi cominciano a sogghignare e a fare battute sarcastiche. “Un’insegnante donna! – dice uno di loro a voce alta – Mi state prendendo in giro?” Io dico loro di calmarsi e che sì, sono un’insegnante, donna, e completamente qualificata per il lavoro che faccio, poi comincio la lezione.

Questo accade ogni volta in cui entro in una nuova classe. Una donna che sta di fronte ad uomini e parla più forte di loro, affinché tutti possano sentire, è una vergogna. E’ assai difficile che i somali accettino una donna che fa udire la sua voce di fianco ad un uomo o di fronte ad un uomo. E’ inaccettabile, è contrario alla cultura somala, dicono. Sebbene la cultura somala sia ricca e benefica in diversi modi, quando si arriva alle donne è discriminatoria e molto dura.

Ci vuole un po’ perché gli studenti assorbano e digeriscano l’idea di avere una docente donna all’università. E’ difficile maneggiarne alcuni, poiché la generazione post-conflitto sembra mancare di autocontrollo e l’insegnante deve continuamente chiedere un rispetto che non è scontato e non si ottiene senza pagare un prezzo. Usualmente il prezzo è urlare, espellere studenti dalla classe e altre tattiche che lasciano esausto qualunque educatore. Diventa ancora più difficile lavorare quando metà degli studenti della tua classe pensano che tu sia inferiore a loro e non qualificata ad istruirli. I commenti sarcastici e le molestie sono continue, ma io sono paziente. Ho sempre usato metodi pacifici e spiegato loro perché tali comportamenti non sono accettabili in ambito universitario. Racconto loro delle mie esperienze in Malesia e con studenti internazionali in tutto il mondo. Li incoraggio ad andare oltre i libri di testo e apprendere di più. Sono portata ad insegnare e provo loro che di loro mi curo. Sorprendentemente, dopo qualche settimana il mio genere smette di essere un problema e io sono solo una docente.

Prima di lavorare all’Università di Bossaso, avevo fatto domanda in un altro ateneo, ma sono stata rifiutata. Ricordo come il rettore mi spiegò perché le donne non sono adatte ad insegnare in un’università. Non era la sua convinzione personale, disse, ma una visione generale: “Gli studenti maschi non accetterebbero una docente donna. Alcuni direbbero: Una donna sta di fronte a noi per istruirci, mai e poi mai, lei è inferiore a noi e perciò non possiamo accettarlo.” Io risposi che ognuno può avere le opinioni che preferisce ma, aggiunsi, “Credevo fosse lei a dirigere questo posto e che loro fossero gli studenti. Se invece sono loro a scegliere chi viene assunto per insegnare allora la direzione sono gli studenti.” Il rettore tentò un approccio differente e disse: “Qualcuno direbbe di non essere in grado di ascoltarla, perché la sua delicata voce femminile non arriverebbe al fondo dell’aula.” “Be’, – replicai io immediatamente – questo non è di sicuro un problema nel mondo odierno, grazie ai microfoni disponibili sul mercato che permettono ad una voce delicata di arrivare non solo in fondo all’aula, ma di attraversare l’intera università.”

Tutti i presenti sorrisero al mio commento, ma il rettore continuò spiegando i “fallimenti” delle donne nella società. Mi disse che le donne non fanno davvero uso della loro istruzione e la sprecano. “Produciamo molte laureate, ma tutte si sposano e stanno a casa e non tentano di avere un’occupazione. Usano il loro tempo e le nostre risorse per l’istruzione e non ne beneficiano. Noi permettiamo alle donne di insegnare alla facoltà di Studi islamici, perché la facoltà ha più del 50% di studentesse, ma anche se le preghiamo le donne non vogliono farlo.” Qui ho cominciato ad arrabbiarmi. Gli ho ricordato che ero venuta a presentare domanda per una docenza e che lui non mi stava dando nessuna possibilità. “Mi sta gettando addosso tutte le sciocchezze e i pregiudizi degli studenti, per come lei intende le loro opinioni, dovrei aggiungere, perché io non so davvero quali siano le loro opinioni e a parte le sue dichiarazioni non ho alcuna prova che siano davvero quelle che lei dice. Inoltre, anche se tutte le studentesse dovessero stare a casa dopo il matrimonio la loro istruzione non sarebbe sprecata, perché insegneranno ai loro figli o sceglieranno di insegnare a casa ad altre ragazze. Mia madre è stata istruita in questo modo ed ha investito molto tempo nell’istruzione di noi figlie, come nostra tutrice. Inoltre, insegnare a una ragazza, a una donna o in effetti a qualsiasi essere umano non è, MAI, uno spreco di risorse.”

La Somalia ha una lunga strada da fare per quel che riguarda il raggiungere l’eguaglianza e noi abbiamo la nostra parte di lavoro da svolgere. Ma noi, noi attiviste, noi costruttrici di pace, noi difensore dei diritti umani, non abbandoneremo mai questo obiettivo. Sono felice che il nostro settore politico stia migliorando. Abbiamo due elette ad alte cariche, ed una di esse è il Primo Ministro della Somalia. E’ un gran passo avanti e pavimenta la strada per le altre donne che seguiranno.

Io lotto per mostrare alle ragazze e alle altre donne che anche loro possono fare la differenza. Non abbiamo bisogno che siano gli uomini a darci l’eguaglianza. Possiamo farla accadere da noi stesse.

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(trascrizione di parte del programma radiofonico di approfondimento giornalistico “Tell me more”, trasmesso da National Public Radio il 3 gennaio 2012. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo)

MICHEL MARTIN, conduttore: In Somalia, siccità e carestia hanno ormai ucciso migliaia di persone e ne hanno forzate assai di più nei campi profughi. Questa tragica vicenda è almeno coperta dai media internazionali: molto meno conosciuta è invece l’estensione delle aggressioni sessuali che una situazione caotica senza leggi sta favorendo. Sebbene sia difficile confermare il numero degli episodi di violenza, i rapporti indicano che vi è stato un drammatico incremento di stupri di donne e bambine somale.

Al di là delle ingiurie fisiche, come potete immaginare, le conseguenze psicologiche e sociali per le vittime possono essere devastanti. Per saperne di più, abbiamo interpellato Jeffrey Gettleman, responsabile dell’Ufficio per l’Africa dell’Est del New York Times. Di recente, Gettleman ha scritto di questo ed è ora al telefono con noi da Nairobi, in Kenya. Jeffrey, ci fa piacere averti di nuovo con noi, buon anno.

JEFFREY GETTLEMAN: Buon anno anche a tutti voi.

MARTIN: Prima di iniziare, ovviamente, ricordiamo che questa è una storia che tratta di violenza sessuale contro le donne, perciò è disturbante e può non essere adatta all’ascolto di tutti. Jeffrey, parlavamo proprio di questo, prima. Immagino che sia difficile sconcertarti a questo punto, dopo così tanti anni da corrispondente, ma tu mi dicevi che in effetti hai trovato sconcertante questa storia, per la sua vastità.

GETTLEMAN: Sì, e sono anche assai frustrato dal fatto che non si faccia granché al proposito. Ho scritto di abusi dei diritti umani e di atrocità dal Sudan, dal Congo e dal Kenya, e dalla Somalia, ma di solito c’è una reazione. Ciò che è veramente disturbante, in questa storia, è che ci sono migliaia di donne che sono state vittimizzate in modi orripilanti. Ragazze seppellite nel terreno e lapidate a morte. Ragazze stuprate di fronte ai fratelli più piccoli. Queste cose stanno accadendo, capisci, attraverso tutta la Somalia del sud e non c’è nessuno che lavora per fermarle, e per aiutare le donne a riprendersi dalle violenze subite.

MARTIN: Cosa sappiamo effettivamente delle persone che attaccano le donne? Qual è il motivo dell’aumento di queste aggressioni sadiche?

GETTLEMAN: Ci sono alcune cose… la prima è la carestia. La carestia ha causato una massiccia migrazione in Somalia. Stiamo parlando di centinaia di migliaia di persone senza cibo che hanno abbandonato i loro villaggi ed hanno attraversato montagne per cercare aiuto in Kenya o Etiopia, oppure sono finite nei campi profughi interni al paese.

Spesso il numero di donne, nei gruppi di profughi, è sproporzionatamente alto. Gli uomini restano indietro a guardia delle piccole proprietà delle famiglie, o sono coinvolti direttamente nei conflitti, e questo è quel che accade in Somalia. Per cui, la maggioranza delle persone che arrivano ai campi profughi sono donne, donne sole, spesso donne giovani. E chiunque abbia un’arma si sente in diritto di abusare di loro, come abbiamo visto.

Poi, c’è soprattutto la questione del gruppo islamico Shabaab. Costoro controllano vaste zone della Somalia del sud. Dicono che stanno tentando di implementare una forma “severa” dell’islamismo wahabita. Hanno proibito la musica occidentale, gli abiti occidentali, stanno dando problemi alle donne che indossano reggiseni. Ed hanno dato inizio a questa faccenda dei “matrimoni temporanei”, in cui chiedono alle famiglie di consegnare loro ragazzine affinché diventino le “mogli” dei loro combattenti o comandanti, ma in sostanza si tratta di stupro. Le ragazze sono trattate in modo orribile per un paio di settimane e poi scaricate. Le persone con cui ho parlato dicevano che ci sono centinaia, se non forse migliaia, di casi del genere.

MARTIN: Quando di recente sei stato a Mogadiscio, capitale della Somalia, hai parlato con una ragazza la cui amica ha fatto resistenza ad un matrimonio forzato di questo tipo con un comandante di Al-Shabaab. Vorresti condividere la storia? Sottolineo di nuovo che si tratta di cose difficili da ascoltare.

GETTLEMAN: Sì. E’ una storia terribile. La ragazza che ho incontrato a Mogadiscio ha 17 anni. Aveva quest’amica del cuore con cui passava molto tempo, crescevano entrambe fuori dalla capitale e condividevano i loro sogni per il futuro. Una mattina, la ragazza con cui ho parlato uscì di casa e vide che una gran folla si era radunata nel villaggio: la sua amica era seppellita nel terreno sino al collo e i militanti di Shabaab dicevano che era un’adultera, una criminale e cose del genere, per le quali non c’era alcun riscontro. Comunque, la lapidarono tirandole in testa sassi della dimensione di una palla da softball, uno dopo l’altro, sino ad ucciderla. Ma quel che la ragazza aveva fatto in realtà era stato il rifiutare di essere consegnata ad un comandante Shabaab, e per questo è stata lapidata a morte.

MARTIN: E poi, mi dicevi, si vendicarono anche sull’amica…

GETTLEMAN: A lei dissero: “La prossima sei tu”. Qualche mese dopo tornarono in cinque e fecero a turno a stuprarla nella sua capanna, con un sacco di bambini attorno, capisci, che la sentivano urlare. Il problema è che i militanti di Shabaab hanno davvero imposto un regno del terrore nelle aree che controllano, e la gente è troppo spaventata per contrastarli.

MARTIN: All’inizio della nostra conversazione dicevi che trovavi frustrante che nessuno si stia accorgendo di quel che accade. Quando hai intervistato quel che esiste ancora del governo somalo, quali sono state le loro risposte?

GETTLEMAN: Il governo somalo sembra essere in uno stato di negazione psicologica. Ci sono denunce di stupri commessi anche dai loro soldati. C’è questa situazione in cui tutte queste donne arrivano in campi profughi sovraffollati e senza legge, e là ci sono le milizie del governo, milizie mercenarie, milizie Shabaab: e tutti, da quello che mi è stato detto, sono colpevoli di violenze sessuali.

La cosa sorprendente è che numerosi ufficiali delle Nazioni Unite, che hanno informazioni su questo problema, non hanno voluto parlare con me adducendo come ragioni che si tratta di un “tema sensibile” e che temevano di porsi come antagonisti verso gli Shabaab o di dar loro una ragione per non lavorare con le agenzie NU.

Quando finalmente ne ho trovati un paio disposti a parlare con me, avevano un sacco di informazioni, avevano ricevuto le stesse denunce che io conoscevo. Insomma, quel che sta accadendo non è un segreto.

MARTIN: Detesto metterti nella posizione di far predizioni, ma voglio chiedertelo: cosa pensi succederà nei prossimi mesi, ora che hai esposto la situazione? C’è qualcosa che la comunità internazionale può fare?

GETTLEMAN: Certamente. E’ un’ottima domanda. Ho già ricevuto messaggi da persone che lavorano per le Nazioni Unite e vogliono essere maggiormente coinvolte nella questione, per cui penso che ci sarà un po’ più di impegno in futuro. Ci sono alcune piccole organizzazioni che stanno aiutando le donne. Una si chiama “Sister Somalia”, il loro sito è www.SisterSomalia.org

Provvedono fondi ad un’organizzazione sorella a Mogadiscio che fornisce alle donne vittime di violenza cure mediche e consulenza, e stanno tentando di approntare dei rifugi in cui le donne possano essere al sicuro. E penso che sarà d’aiuto il fatto che più gente ne parla, che più il tempo passa e più il silenzio viene infranto. Ma detto questo, bisogna dire che la Somalia è un posto molto pericoloso anche per le operazioni umanitarie, e che si tratti di cibo, di cure mediche o di istruzione ci sono enormi restrizioni.

MARTIN: Jeffrey, grazie mille per essere stato con noi. Spero che ci terrai informati sugli sviluppi di questa importante vicenda.

GETTLEMAN: Sempre lieto di essere d’aiuto.

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(“Asylum life: the trials of women refugees, through their own eyes”, di Kate Kellaway per The Observer, 14 agosto 2011. Trad. Maria G. Di Rienzo)

Il seminterrato di un edificio nei pressi di Old Street, Londra orientale, è pieno: rifugiate da tutto il mondo – Eritrea, Afghanistan, Iran, Repubblica democratica del Congo, Angola, Zimbabwe, Somalia, Burundi, Iraq e Camerun – si stanno riunendo qui. Diversi corsi di inglese si stanno tenendo in contemporanea e il posto ribolle di rumori. Si tratta della sede di una piccola associazione, “Women for Refugee Women”, che aiuta le rifugiate a camminare con le proprie gambe  ed a trovare la propria voce.

Molte di loro sono in completa miseria. Hanno passato mesi, ed in alcuni casi anni, sulle strade nel mentre lottavano con il sistema di asilo britannico. Sto facendo loro visita a causa di una eccellente mostra delle loro fotografie chiamata, con un’ironia che non necessita elaborazioni, “Casa dolce casa”: un tentativo di catturare ciò che “casa”, in questo paese, significa per loro.

Natasha Walter, una scrittrice che ha scoperto l’associazione dopo aver incontrato a Londra una rifugiata indigente, spiega che l’intenzione originaria era di aiutare le donne che sanno poco l’inglese a trovare un modo alternativo di comunicare le difficoltà delle loro vite in questa città: uno scatto vale mille parole. L’idea era anche che usando le macchine fotografiche le rifugiate avrebbero potuto illuminarci, ed è ciò che hanno fatto. In superficie, le istantanee non sembrano altro che una registrazione neutra ma è proprio questo a dar loro la forza di una protesta. Le macchine fotografiche non mentono. E la mostra finisce per dire molto su di noi e sulle nostre responsabilità nei confronti delle rifugiate: una lezione snervante.

E’ impossibile guardare queste immagini senza provare un’indignata compassione. Esse documentano la lotta per una sopravvivenza elementare; il senso di quanto poco le donne abbiano è inevitabile. Le necessità di base sono dominanti: le valigie non sono mai disfatte (le donne sono sempre in movimento), una borsa d’acqua calda tiene lontano il freddo, magre quantità di cibo (zucchero, riso) sono disposte come per un ritratto di gruppo. Molte delle fotografie suggeriscono l’idea di un ufficio oggetti smarriti, solo che sono le proprietarie e non gli oggetti ad essere sperdute.

Natasha Walter spiega che la mostra non tratta di casi individuali ma “dell’importanza di far conoscere alla gente le difficili circostanze in cui queste donne si trovano. La stragrande maggioranza di quelle che sono qui sono sfuggite a pesanti abusi dei loro diritti umani, inclusa la violenza sessuale, la persecuzione etnica e quella politica. Sono traumatizzate dalla perdita delle loro case e delle loro famiglie. Ed è terribile che la richiesta di asilo le traumatizzi ancora di più. Devono negoziare all’interno di un sistema assai complesso e nonostante la realtà delle persecuzioni che hanno subito molto spesso non vengono credute.”

Se la richiesta di asilo non viene accettata, le donne sono spostate da un luogo all’altro e possono essere classificate come “destitute” (“miserabili”), il che significa essere senza casa, non percepire alcun aiuto, e non avere il diritto di lavorare. “Vogliamo mostrare l’impatto di un sistema ingiusto nelle loro vite quotidiane.”, spiega ancora Natasha Walter.

In un’immagine particolarmente inquietante, “Ombra”, una scarpa senza lacci sta su un marciapiede londinese. Il corpo della donna che la indossa getta un’ombra sulla pietra. La fotografia mi appare un invito: potete immaginare di indossare le loro scarpe? (Ovvero di “mettervi nei loro panni”, ndt.)

Ho incontrato quattro delle fotografe: Evelyne, Madeleine, Esther ed Herlinde. Sono accoglienti ma guardinghe. Vengono tutte dalla Repubblica democratica del Congo ma non si conoscevano prima di incontrarsi, per la prima volta, in questa stanza. Stanno fuggendo da persecuzioni etniche e politiche ma qui, almeno, possono condividere esperienze, essere indirizzate a un avvocato, essere parte di una rete.

Chiacchieriamo in una volonterosa mistura di inglese e francese. Cominciamo con che tempo fa a Londra – ridono, rompono in esclamazioni, scuotono le spalle – e ci spostiamo sul cibo. Herlinde ricorda una visita al supermercato, la repulsione per i cibi inglesi ed il suo ingannarsi su di essi, mentre gli occhi di Evelyne si illuminano nel descrivere il “kwanga”, le radici vegetali che le ricordano casa sua. Le ha comprate a Dalston e le ha fotografate affettuosamente. Quando parlano dei loro sentimenti, le risate scompaiono. Herlinde descrive la sua testa “come una noce di cocco. Come se il mio cervello ci tremasse dentro. Dicono che è depressione.” Herlinde è, fra le quattro, quella dall’inglese migliore. Da poco le è stato garantito il permesso di restare. “Essere una “destitute” ha effetto sulla tua mente, sul tuo corpo, sulla tua anima.”, racconta, “Quando io lo ero non potevo pianificare la mia esistenza. Ti senti inutile e abbattuta, non sei stabile, diventi come una bambina.”

Madeleine, una donna regale vestita come una macchinista delle ferrovie, mi parla con spirito delle sfide affrontate nella sua vita, e del pericolo costituito dai falsi amici, in particolare dagli uomini: “Gli uomini dicono che vogliono aiutarti ma in effetti quel che vogliono è abusare di te. E poi ti ritrovi da sola con un bimbo. O malata di Aids.” Madeleine è qui da otto anni: “Vago con la mente. Non sono in pace. Vorrei lavorare per aiutare me stessa, ma il tempo sta passando.”

Tutte le donne vorrebbero lavorare, ma a causa del loro status se lo fanno vengono arrestate. Molte hanno figli lasciati nei loro paesi ed il dolore della separazione è quasi indicibile. “Non posso parlare con la mia bambina di 11 anni. E’ un problema per me.”, spiega Evelyne semplicemente. Esther mi dice che ha tre figli e poi ammutolisce. Herlinde soffre una crudele e persistente nostalgia di casa: “Starei meglio se fossi in Congo. Ma non posso andare là.”

Quando narrano della gentilezza e dell’ostilità che hanno incontrato a Londra, Madeleine trova assurde quelle persone che credono che loro si trovino qui per ragioni opportunistiche. “Perché avremmo dovuto voler venire?”, chiede, “Siamo venute solo per salvarci la vita! Non siamo venute perché ci piace l’avventura.” Herlinde è d’accordo: “Quando una donna in fuga arriva qui, con una paura reale, è perché ha un vero problema. A noi sembra che l’Home Office (l’ufficio immigrazione) non ci tratti con giustizia.”

Pure, sono deliziate e persino esaltate dalla mostra fotografica. Madeleine crede che possa aiutare la gente a capire il loro travaglio e che “farà crescere questo gruppo e ciò sarà un bene per le donne.” Prima di andarmene, chiedo loro se vogliono provare a descrivermi le case che si sono lasciate alle spalle. Sembra difficile: qualcosa di più della barriera del linguaggio impedisce loro di farlo. Poi Esther, inaspettatamente, mi prende il taccuino di mano e faticosamente scrive il suo indirizzo congolese. Me lo ripassa come se, in un’altra vita, io potessi farle visita là.

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La Somalia è considerata una delle nazioni più “problematiche” del mondo. Da vent’anni non ha un governo centrale effettivo (quello eletto nel 2009 controlla a malapena parte della capitale con il sostegno delle Nazioni Unite), i combattimenti fra clan rivali hanno generato in questo lasso di tempo un milione di morti ed una devastante crisi relativa ai rifugiati interni (un milione e duecentomila persone senza più casa, lavoro e luogo a cui tornare), la fame e la mancanza di servizi sanitari fanno il resto. Al momento, un terzo della popolazione somala dipende per sopravvivere dal cibo fornito dagli aiuti umanitari e quel che resta dell’economia del paese è retto dalle rimesse dei migranti. La Somalia è diventata praticamente il campo di battaglia di opposte fazioni “insorgenti”, molte delle quali intendono imporre all’intero paese la loro specifica e particolare visione della fede islamica.

La dottoressa Hawa Abdi Dhiblawe, oggi 63enne, tornò in Somalia dall’Ucraina, dove si era laureata in ginecologia e lavorava, nel 1983: aveva deciso che avrebbe fatto quanto poteva per rispondere ai bisogni della sua gente. Il suo credo era composto di una sola parola, “pace”; i suoi motivatori erano “dignità e speranza” per ogni essere umano. Hawa si rimboccò le maniche ed aprì una clinica composta di una sola stanza ad Afgoye, alla periferia di Mogadiscio. Da allora, la stanzetta è cresciuta sino a trasformarsi in un ospedale da 400 posti letto, circondato da 1.300 acri di terra coltivabile che sono diventati la casa di 90.000 rifugiati. Oggi nell’ospedale lavorano anche le due figlie di Hawa, parimenti laureate in medicina: Amina Mohamed Abdi e Deqa Mohamed Abdi.

Dell’intenso e quieto lavoro di queste donne, che la gente comune chiama “le Sante di Somalia”, la comunità internazionale non ha saputo nulla sino all’anno scorso. L’incidente che le ha portate, per così dire, alla ribalta accadde nel maggio del 2010, quando il gruppo armato “Hizbul Islam” decise che aiutare la gente a stare meglio non era abbastanza “islamico” e che queste tizie pacifiste erano un po’ troppo popolari. Inoltre, si trattava pur sempre di tre esseri inferiori, e cioè di femmine. Così, 750 uomini armati presero d’assedio la clinica per permettere agli altri di saccheggiarla senza disturbo. Le infrastrutture furono distrutte assieme ai macchinari per l’anestesia ed agli schedari.

Nel bel mezzo della tempesta, la dottoressa Hawa Abdi Dhiblawe andò a confrontarsi con il comandante dei miliziani, chiedendogli per quale motivo si stesse comportando in tal modo. Il comandante rispose puntandole un fucile alla testa. Hawa scrollò le spalle: “Se vuoi uccidermi, uccidimi. – gli disse – Non è un problema. Un giorno o l’altro dovrò comunque morire.” I miliziani la trassero in arresto e si accamparono nell’ospedale, ma non avevano fatto bene i conti: Hawa aveva mostrato il potere della solidarietà per lunghi anni, e a troppe persone. Le sue ex pazienti, in particolare, donne in difficoltà che lei aveva accolto a braccia aperte senza chiedere nulla, non intendevano tacere.

Così, man mano che la notizia si diffondeva, prima qualche dozzina di donne e poi centinaia circondarono a loro volta la struttura, chiedendo il rilascio della dottoressa e che l’ospedale riprendesse a funzionare. L’azione rimbalzò sui media e a livello internazionale. Poiché quello che arrivava ad “Hizbul Islam” erano solo proteste e comunicati che esprimevano sdegno e condanna, e poiché per quanto le si minacciasse quelle donne attorno alla clinica non solo non se ne andavano, ma crescevano costantemente di numero, e sembravano non aver paura di nulla, dopo sette giorni il leader del gruppo, lo “sceicco” Hassan Dahir Aweys ordinò la liberazione della dottoressa.

Hawa Abdi Dhiblawe si rimboccò le maniche un’altra volta, raccolse i pezzi e riprese a fare il suo lavoro. Non si tratta solo di curare i corpi, lei e le sue figlie lo sanno bene. Si tratta di istruire i bambini, di dare un tetto a chi non ce l’ha, di insegnare alle persone a lavorare insieme per il bene comune. E’ vero quanto Hawa disse l’anno scorso: un giorno lei ci lascerà com’è nell’ordine naturale delle cose. Ma credo che il suo esempio e i frutti del suo impegno resteranno con noi molto, molto più a lungo. Maria G. Di Rienzo

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Nel maggio dello scorso anno, un consiglio di chierici afgani a Herat emana una “fatwa” che proibisce alle donne di viaggiare. A meno che non siano accompagnate da padre o fratello o altro “mahram” (parente non sposabile), spiega il capo del consiglio Muhammad Kababeyane, le donne che viaggiano da sole sarebbero in fallo anche se stessero facendo il pellegrinaggio alla Mecca. Inoltre, aggiunge, non dovrebbe essere loro permesso di usare cosmetici fuori dalle mura di casa propria. Chiusura: il fiero consiglio “non intende chiudere gli occhi sulla situazione” e chiede al governo di emanare le leggi necessarie. Quindi, il peggio che Kababeyane e i suoi accoliti vedono in un paese occupato militarmente, devastato da trent’anni di guerra, tuttora non unito e teatro di scontri armati, dove la maggioranza delle persone non ha ancora accesso ai servizi di base e non ha cibo sufficiente, cos’è? Il fatto che una donna viaggi da sola, magari con un po’ di rossetto sulle labbra.

Sempre nel 2010, a novembre, il consiglio locale di Baliayan, Uttar Pradesh, India, bandisce l’uso del telefono cellulare alle giovani donne non sposate: il problema è che tramite telefono si mettono d’accordo con gli uomini che amano e li sposano anche se ambo le famiglie sono contrarie, spesso rompendo le divisioni di casta. Ai giovani scapoli l’uso del cellulare è permesso, dice il portavoce del consiglio Satish Tyagisi, si consiglia però ai genitori di vigilare. L’India ha seri problemi di povertà, discriminazione, dissesto ambientale, femminicidio, ma a Baliayan hanno individuato il più grave e urgente: il fatto che una donna sposi chi vuole.

All’inizio di quest’anno, in gennaio, il gruppo islamista al-Shabab che controlla gran parte del centro e del sud della Somalia (il paese non ha un governo unico e stabile sin dal 1991), proibisce le strette di mano fra uomini e donne nella città di Jowhar. Maschi e femmine che non siano parenti non possono altresì camminare insieme o parlare insieme in pubblico. Il gruppo ha in precedenza bandito, nell’area, l’ascoltare musica e il suonarla. Gli ultimi vent’anni di scontri fra gruppi “insorgenti” in Somalia hanno prodotto un milione di morti ed un milione e duecentomila rifugiati interni. Un terzo del paese morirebbe letteralmente di fame se privo degli aiuti umanitari. Ma la cosa impellente qual è? Impedire alle persone di stringersi le mani.

E’ difficile trovare una spiegazione razionale agli eventi citati, però mi rifiuto di credere che tutti questi decisori siano mentalmente labili, incapaci di intendere o sotto l’effetto costante di stupefacenti. Voi capite, per esempio, che quando si deve imporre un comportamento per legge questo comportamento non ha niente a che fare con gli usi o le tradizioni. Al nostro governo, che pure di idiozie ne fa parecchie e persino di criminali, non verrebbe mai in mente di imporre per decreto che gli italiani mangino spaghetti: il piatto fa parte della nostra tradizione culinaria e lo mangiamo già senza bisogno che nessuno ci obblighi. Quindi la scappatoia consueta, “sono i loro diversi costumi che siamo tenuti a rispettare”, non funziona. Non va bene neanche la fuga in seconda battuta, “è la loro religione, sono obblighi di fede”, perché sfido chiunque a trovare nei testi sacri la prescrizione dell’accompagnamento coatto in viaggio e del matrimonio forzato, o il bando della stretta di mano.

L’unica idea che ho al proposito è questa: i religiosi afgani, i consiglieri indiani, i guerriglieri somali la rovina che hanno intorno la vedono sin troppo bene. Sanno anche di esserne corresponsabili, ma non hanno il coraggio di affrontare la situazione, di rivedere mezzi e scopi, di ammettere errori e di emendarli. Le risorse materiali a loro disposizione sono scarse e ciò fa sì che si sentano sia impotenti sia minacciati. La gente che vogliono “guidare” in un senso o nell’altro potrebbe pensare, e financo dire, che loro non stanno facendo proprio niente per il benessere generale. Allora finiscono per chiedersi: cosa c’è a disposizione per stornare l’attenzione, chi possiamo biasimare affinché il biasimo non cada su di noi?

Sono più di vent’anni che sento rubricare le donne sotto la voce “risorse non utilizzate”. Vedete bene che è una menzogna, vero? Maria G. Di Rienzo

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Noi donne somale abbiamo sofferto la nostra parte di stupri durante e dopo la guerra civile. Oggi soffriamo come rifugiate nei campi profughi. Lo stupro è un argomento tabù: e per le donne che ne devono sopportare l’orrendo dolore, è una condanna che dura tutta la vita, una condanna che viene ripetuta grazie al comportamento dei vicini, degli amici, dei compatrioti.

Il 29 settembre scorso, alle 8 di sera, due uomini non identificati armati di fucile sono entrati in casa di una casalinga di 40 anni, madre di cinque bambini, che risiede nel Galkaio del nord, settore Garsoor. L’hanno presa, portata via, picchiata, violentata, e l’hanno lasciata là.

In ottobre un’altra casalinga dormiva tranquilla in casa propria, non aspettandosi violenza dall’amato marito: avevano solo avuto una discussione il mattino precedente. Lui è arrivato con un coltello, le ha tagliato la lingua affinché non potesse chiamare aiuto ed ha fatto a pezzi il resto del suo corpo. Non è neppure scappato. E’ andato alla fattoria vicina dove aveva lavorato ed ha dormito lì. Il giorno dopo la polizia lo ha trovato e lo ha messo in prigione, ma il suo clan è corso in suo aiuto: il suo clan sostiene che dopotutto è solo una donna ad essere stata uccisa.

Quest’uomo ha il suo clan che difende il suo “diritto” di assassinare una donna. Ma chi difenderà il diritto alla vita di quella donna? Chi le darà giustizia? Chi lotterà per le altre donne che ogni giorno perdono la vita o sono stuprate?

Le donne del mio paese non possono uscire da sole dopo le 6 di sera per timore di essere rapite, violate, assalite. In undici mesi, da gennaio a novembre 2010, 120 casi di stupro sono stati denunciati nelle città cosiddette “stabili”: che sta succedendo nelle città che ancora bruciano? Quante donne, quante ragazze, hanno ormai perso ogni speranza di avere giustizia?

Nella mia comunità i diritti delle donne sono continuamente violati e nessuno è seriamente impegnato a contrastare la situazione. Soffriamo in silenzio. Io però voglio alzare la mia voce, e voglio si alzino le voci delle troppe donne e ragazze ridotte al silenzio.

Marian Hassan, Puntland, Somalia, 1.12.2010 – trad. Maria G. Di Rienzo

 

 (Questa lettera è parte della campagna che sostiene l’ International Violence Against Women Act (I-VAWA). Lettere di donne da tutto il mondo sono inviate al presidente degli Stati Uniti Barack Obama tramite World Pulse e Women Thrive Worldwide, per sollecitare l’adozione dell’atto internazionale contro la violenza di genere.)

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