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(“Are Women Really Peaceful?”, di Sanam Naraghi Anderlini, 2014, trad. Maria G. Di Rienzo. Sanam Naraghi Anderlini è la co-fondatrice di International Civil Society Action Network (ICAN) – http://www.icanpeacework.org -, una rete internazionale della società civile. Esperta di genere e conflitto, Sanam fu una dei membri della società civile che parteciparono alla stesura della Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite su donne, pace e sicurezza.)

sanam

Sono davvero pacifiche, le donne?

Questa è la domanda che inevitabilmente sorge durante ogni discussione sull’inclusione o il contributo femminile alla costruzione di pace.

Per alcune donne occidentali l’assunto che le donne siano orientate alla pace implica l’essere troppo “soffici”. E’ spiacevole, perché il dialogo, la diplomazia e il compromesso sono faccende molto più dure e complesse dell’affidarsi alle opzioni militari.

Le persone mettono in discussione l’essere orientate alla pace delle donne puntando il dito su leader come Margaret Thatcher, Golda Meir ed altre che hanno guidato i loro paesi in guerra. Indicano le donne che si uniscono a ISIS o i membri femmine nei movimenti di ribelli armati, come Farc in Colombia o i maoisti in Nepal, per provare che le donne non sono pacifiche.

Questi esempi raccontano solo una piccola parte della storia. Metà dell’umanità non può essere omogenea nelle sue azioni. Anche il contesto va preso in considerazione.

Ci sono tre modi di rispondere alla domanda. Il primo potrebbe essere: no, le donne non sono pacifiche. Come individui, le donne possono essere violente o sostenere la violenza. Molte si uniscono ad eserciti, gruppi armati o altri movimenti che predicano e perpetrano violenza.

Per alcune donne il servizio militare è la strada verso l’eguaglianza, l’empowerment e fuori dall’oppressione. Numerose donne nepalesi nel movimento maoista si sono unite alla lotta per i principi di eguaglianza e giustizia sociale asseriti dal movimento. Si uniscono dopo aver testimoniato l’uccisione dei propri padri, mariti o fratelli da parte dell’esercito. Alcune fuggono dalla violenza nelle loro case o per vendicare il proprio stupro. Alcune sono forzate.

Ci sono situazioni in cui donne spingono i loro parenti maschi alla vendetta o a cercare retribuzione per la violenza da loro subita, ma globalmente le donne sono ancora una minoranza nei gruppi armati o negli eserciti.

Il secondo modo di rispondere alla domanda è: sì, se le azioni collettive delle donne, come movimenti organizzati per lottare per i propri diritti di base e l’autodeterminazione, sono prese in considerazione. Attraverso la Storia e il mondo, l’organizzarsi collettivo delle donne ha le sue radici nella nonviolenza e usa la resistenza civile e altre tattiche simili per arrivare ai suoi scopi.

Il movimento delle donne afgane è uno di questi casi. Nonostante trent’anni di guerra e di oppressione diretta, nonostante minacce di morte e aggressioni, le donne afgane continuano la loro lotta per i diritti e la pace in modo nonviolento.

Vi è inerente ironia e contraddizione, in questo. Martin Luther King e il Mahatma Gandhi sono onorati per la loro aderenza alla nonviolenza. Ma la maggior parte delle leader e delle attiviste nei movimenti per i diritti delle donne sono tipicamente ne’ celebrate ne’ onorate, mentre quelle che hanno usato violenza sono spesso ricordate nelle narrazioni storiche.

La risposta finale è considerare come le donne, collettivamente e individualmente, contribuiscono a metter fine alla violenza e alla costruzione di pace, durante le guerre e nei contesti interessati da conflitti.

Sovente, le esperienze personali hanno spinto le donne come singoli individui a sollevarsi come attiviste per la pace. In Sri Lanka, Visaka Dharmadasa ha incanalato il dolore seguito alla sparizione del figlio (che era nell’esercito) verso il cercare il leader dei ribelli e l’iniziare con lui un dialogo che ha contributo a un “cessate il fuoco”. Lei scelse di pensare ai ribelli, in maggioranza giovani uomini, attraverso la lente di una madre, anche se costoro erano responsabili della sua perdita.

Allo stesso modo negli Usa, donne che avevano perso figli e mariti l’11 settembre non solo istigarono la Commissione 11/9, ma stabilirono organizzazioni umanitarie che promuovono l’empatia per le vittime di violenza e celebrano la diversità religiosa.

Questa capacità di lavorare su un dolore profondo volgendolo in positivo è una qualità straordinaria.

In Somalia, un gruppo di donne anziane appartenenti all’elite usarono il proprio status per interagire con i clan guerreggianti e incoraggiarono la loro partecipazione ai colloqui di pace, e negoziarono la riapertura dell’aeroporto e dell’ospedale con i ribelli di al-Shabaab.

Non tutte le donne in un movimento per i diritti umani delle donne fanno attivismo pacifista.

Non tutte le donne pacifiste emergono dai movimenti per i diritti umani.

Sebbene siano una minoranza, le donne che combinano l’attivismo per la pace con l’attivismo per i diritti gettano ponti sui divari e attirano sostenitori da ambo le parti. I loro successi sono basati su tecniche che esse stesse hanno ideato, spesso specifiche per un dato contesto culturale, e radicate nel loro invisibile potere.

In molti paesi, le donne hanno usato scioperi del sesso come tattica all’interno del loro più ampio sforzo per metter fine agli scontri.

In Sierra Leone, donne anziane appartenenti alla chiesa chiesero un incontro con un leader del movimento ribelle. Furono insultate e come risposta si sfilarono le vesti e rimasero nude, conoscendo alla perfezione le conseguenze. La loro azione accese la mobilitazione degli uomini appartenenti alla chiesa e ciò portò alla fine della violenza.

In Liberia, donne si interposero direttamente durante le resistenze al processo di disarmo e convinsero i giovani uomini a consegnare loro le armi.

In numerosi scenari, le donne hanno portato informazioni e prospettive importanti ai processi di pace su istanze quali sicurezza, giustizia, governance e recupero economico. Mentre i belligeranti sono spesso concentrati sulla propria quota di potere, le donne sono concentrate sulle responsabilità verso le loro comunità, famiglie e bambini.

Persino donne anziane dei movimenti ribelli del Salvador e del Guatemala, che entravano nelle negoziazioni come combattenti stagionate e rappresentanti dei loro gruppi, diventarono subito consapevoli dei gruppi marginalizzati, fra cui le donne – e parlarono in loro favore.

Invariabilmente, la loro comprensione della pace e della proverbiale “tavola della pace” ha più sfumature ed è più complessa di quella dei partiti in guerra o dei mediatori. Le donne sanno che metter fine alla violenza è una priorità, ma riconoscono anche che ciò non può essere fatto in modo efficace senza affrontare le cause profonde della guerra ed articolare una visione condivisa di pace e società.

In nessun altro luogo questo è tanto visibile quanto nell’odierno Medio Oriente. Nella lotta contro gli estremismi insorgenti e il militarismo di stato, le donne in Siria, Libia, Iraq, Egitto ecc. osano contrapporsi e intervenire. Sono le prime a rispondere con soccorso, cura e “normalità” nel bel mezzo del caos. E nonostante tutta la violenza e le minacce di morte, sanno che le risposte militari non metteranno mai fine alla crisi. Si basano sulla loro propria storia e difendono diritti umani, pluralismo e pace. Esse sono l’unico movimento transnazionale che sta offrendo una visione condivisa e dei valori condivisi, in alternativa a visione e valori degli estremisti.

“Chiediamo al mondo: perché ci aiutate ad ucciderci l’un l’altro? – ha detto un’attivista siriana – Perché non ci aiutate a parlare l’uno all’altro?”

Le donne sono gli assetti chiave per la pace, eppure la comunità internazionale persiste nell’ignorarle o marginalizzarle. Forse è il momento di girare sottosopra la domanda iniziale.

Perché il mondo continua ad ignorare o indebolire donne che sono abbastanza coraggiose da lottare per la pace, pacificamente?

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Il mio nome è Mayanie, ho 21 anni e vivo in Sierra Leone. Ho un bambino di sette anni e una bambina di sei. Ho smesso di andare a scuola quando sono rimasta incinta e mi sono sposata. Di recente mio marito ha cominciato a vedere un’altra donna e a spendere con lei tutto il tempo e i soldi. Io ho tentato di parlargli al proposito, ma le cose sono solo peggiorate perché lui ha iniziato ad abusare di me.

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Un giorno è diventato molto cattivo e ha cominciato a picchiarmi davanti ai nostri figli che ovviamente si sono messi a piangere ed erano assai spaventati. Quando finalmente ha smesso io ero gonfia, un ammasso di lividi e ferite. Ho deciso che dovevo fare qualcosa. Ho aspettato sino a che è uscito di casa, ho preso i bimbi e sono andata a cercare aiuto al Centro per le donne – Women’s Partnership for Justice and Peace (WPJP – Partnership di donne per la giustizia e la pace).

Dal Centro, mi hanno immediatamente portata in ospedale. Sono stata curata e ho ricevuto un referto medico (tutte cose pagate dal Centro) di cui avevo bisogno se volevo presentare denuncia. I miei piccoli ed io abbiamo vissuto in un rifugio sicuro per alcune settimane, mentre decidevo cosa fare. Ho ricevuto consigli legali e sostegno ogni giorno.

Infine ho formalizzato la denuncia alla polizia. Le donne di WPJP mi hanno sempre accompagnata in tribunale. Ma i giudici hanno continuato ad aggiornare il caso. Dopo il terzo rinvio io non potevo più permettermi il lungo viaggio e ho perso speranza che si risolva in mio favore. Questa è una pratica comune, usata per stremare le donne e fungere da deterrente affinché abbandonino le loro denunce. In molti casi girano mazzette, o gli ufficiali maschi prendono le parti dei mariti, preoccupati che le donne diventino troppo potenti.

WPJP sta lavorando per cambiare questo, addestrando membri della comunità a diventare “monitor giudiziari” e ad osservare il procedimento della causa legale. Queste donne che fungono da monitor riportano ogni caso in cui giustizia non è stata fatta o in cui le procedure non sono state seguite. Lo staff di WPJP segnala queste informazioni alle autorità giudiziarie, per mostrare loro cosa accade in realtà e spingerle ad agire.

Sono molto furiosa e frustrata per ciò che succede nei tribunali, ma ho molto su cui essere positiva, ora. Mia madre sta sostenendo me e i bambini, e mio marito – grazie all’intervento di WPJP, sta provvedendo del mantenimento per loro. Adesso ho un futuro. Mi sono iscritta a un corso di formazione fornito dal Centro e per la prima volta nella mia vita prendo decisioni per me stessa. Non tornerei indietro per nessun motivo.

(Trad. Maria G. Di Rienzo)

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Laura Conteh non riesce a guardare film violenti in televisione: se lo fa, i ricordi della guerra tornano a ghermirla e tormentarla. Per Nancy Karama il periodo natalizio è doloroso in modo insopportabile: era il giorno di Natale quando fu catturata e stuprata per la prima volta. A Janet Masaray capita di vedere per strada alcuni degli uomini che l’hanno violentata e l’hanno tenuta prigioniera: sono tornati a casa anche loro, dopo la guerra.

Laura, 27 anni, ne aveva 12 quando il conflitto in Sierra Leone raggiunse il minuscolo villaggio dove lei viveva, Binkolo. La notte in cui i fucili sparavano e il tetto di paglia della sua capanna prese fuoco, Laura e la sua famiglia non poterono fare altro che fuggire, senza avere il tempo di portarsi dietro niente. Mentre dalla boscaglia guardava la casa della sua infanzia consumarsi in fiamme, i ribelli del Fronte unito rivoluzionario circondarono lei e i suoi parenti; nel caos che seguì, Laura fu separata dalla sua famiglia e catturata. Per i successivi tre anni, rimase con un largo contingente di uomini e ragazzi armati, per cui cucinava, andava a prendere acqua e svolgeva ogni altra mansione domestica. L’abuso sessuale cominciò la notte della cattura. Un uomo la “iniziò”. Successivamente, un secondo uomo la reclamò come “moglie” ma questo non impedì agli altri di continuare a stuprarla. Il figlio di Laura, oggi 13enne, ha come padre uno di questi individui.

Fatsmata Koroma aveva 11 anni quando subì le stesse violenze: fu stuprata da 10 uomini il primo giorno della cattura: “Hanno fatto i turni, e poi mi hanno lasciata a giacere dov’ero.” “Non ci pensavi nemmeno, a resistere o a scappare.”, spiega Mimunatu Bangura, un’altra sopravvissuta oggi quasi trentenne, “Se solo loro sospettavano che ci stavi pensando, ti frustavano. Eri punita anche se piangevi o mostravi di essere nauseata quando vedevi qualcuno che veniva torturato o ucciso. Oltre la frusta, i castighi andavano dal farti fare flessioni tenendoti le orecchie a chiuderti nella latrina per un giorno: a volte, ti costringevano a mangiare le “cose” nella latrina. Infine, potevano ammazzarti.”

Ci forzarono a diventare combattenti – racconta ancora Laura – Ci diedero pistole e dovevamo usarle quando loro dicevano di farlo. Abbiamo ucciso. Dentro di noi non facevamo che chiedere a Dio che la guerra finisse, di avere del cibo e di essere perdonate.” E nel gennaio 2002 la guerra finì, lasciandosi dietro 50.000 morti, centinaia di migliaia di sfollati e un numero ancora maggiore di persone che avevano subito amputazioni. Una di esse è qui in immagine, Mariatu Kamara.

Mariatu

Quando aveva 13 anni, i ribelli attaccarono il suo villaggio e le tagliarono le mani. Le foto accanto a cui posa, che fanno parte della mostra “Eleven Women Facing War”, sono le sue. “Una guerra dovrebbe essere un campanello d’allarme, qualcosa che ti scuote. – dice Mariatu, oggi volontaria dell’Unicef – Non guardate solo le immagini dicendo “Oh, sono proprio ben fatte”, guardate oltre e cercate di vedere cosa voi potete fare.” La mostra è stata realizzata dal fotografo Nick Danziger: nel 2001 ha ripreso 11 donne in Afghanistan, Sierra Leone, Colombia, Balcani, Israele e Palestina, e dopo 10 anni è tornato a cercarle.

Dicevamo che la guerra in Sierra Leone finì. Ufficialmente. Ma non per Laura, Nancy, Janet, Mimunatu e le circa 20.000 altre rapite fra gli 8 e i 18 anni. Sono tornate a casa. Quella di Laura era persino stata ricostruita. Ma troppe avevano in braccio un figlio o due, o erano incinte. Tutte erano state violentate. Parecchie si erano macchiate di crimini anche se sotto costrizione. In breve, i loro parenti e i loro villaggi non le volevano più.

La famiglia di Janet Masaray, trentenne rapita a 14 anni, pensava che lei fosse morta. Quando fece ritorno con una figlioletta nata nella boscaglia, suo padre non volle neppure vederla: “Si vergognava di me. Lui e molti altri pensavano che non eravamo più adatte a vivere con le nostre famiglie. Siete ribelli, questo non è il vostro posto, dicevano. Ma non dimenticherò mai il sorriso e l’abbraccio di mia madre. Pian piano ho fatto la pace con mio padre, prima che morisse, anche se ci è voluto molto tempo.” Janet torna il sorriso che ha ricevuto alla figlia che portò a casa con sé, la oggi 16enne Mamaiye – una delle migliori calciatrici del villaggio. In gruppo, le donne rapite di Binkolo hanno lavorato sui loro ricordi trasformandoli in memoria collettiva: hanno rivissuto gli stupri, i pestaggi, il sangue. “Ci siamo ripetute l’un l’altra: non è colpa tua, fatti coraggio e attraverseremo tutto questo insieme. – dice ancora Janet – Adesso va meglio. Se lo tieni nel cuore ti lacera, è meglio buttarlo fuori. Ma in realtà questo è tutto ciò che possiamo fare. Gli uomini che ci hanno ferite vivono dietro l’angolo.” Maria G. Di Rienzo

(Fonti: The Telegraph, 660 News, Peace Women, Defence for Children International)

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(di Nicholas Kristof per il New York Times, 9.10.2011, trad. Maria G. Di Rienzo)

Freetown, Sierra Leone. In un Centro di cura per gli stupri, qui, ho incontrato una paziente di 3 anni, di nome Jessica, che coccolava un orsacchiotto. Jessica sembrava malata e perdeva peso, ma non era in grado di dire cosa non andava. Sua madre la portò in una clinica ed il medico attestò la verità. La bambina era stata stuprata ed aveva la gonorrea.

Mentre sostavo nel corridoio del Centro, turbato dall’incontro con Jessica, una bimba di quattro anni veniva condotta all’interno per essere medicata. Anche lei risultava infettata da una malattia a trasmissione sessuale dopo uno stupro. Nel Centro, quel giorno, c’erano anche una decenne e una dodicenne, assieme a ragazze più grandi.

La violenza sessuale è una crisi di salute pubblica nella maggior parte del mondo, e le donne e le ragazze fra i 15 ed i 44 anni d’età hanno più probabilità di essere mutilate o uccise da uomini che dalla malaria, dal cancro, dalla guerra e dagli incidenti stradali tutti insieme, secondo uno studio del 2005. Tale violenza resta un problema significativo negli Usa, ma è particolarmente prevalente in paesi come la Sierra Leone, la Liberia o il Congo che hanno sofferto la guerra civile. Lo schema è che dopo lo stabilirsi della pace gli uomini smettono di sparare l’uno contro l’altro, ma continuano a stuprare donne e bambine in percentuali allucinanti, e spesso di età giovanissima.

L’International Rescue Committee, che gestisce il Centro di cura qui a Freetown, la capitale del paese, dice che il 26% delle vittime di violenza sessuale che arrivano da loro ha 11 anni o meno. Il mese scorso, hanno curato una bambina stuprata di dieci mesi.

“Si dà la colpa alle bambine.”, nota Amie Kandeh, che dirige i programmi per le donne dell’International Rescue Committee (www.rescue.org), “Se la bambina violata ha più di cinque anni, è colpa del modo in cui era vestita. Ma abbiamo avuto qui una piccina stuprata di due mesi e mezzo. E’ stato il modo in cui la mamma le metteva il pannolino?” La piccola è morta a causa delle ferite interne inflittele durante lo stupro, aggiunge Amie Kandeh.

La lotta contro la violenza sessuale sarà vinta o perduta in primo luogo all’interno di ogni paese, ma gli Usa potrebbero dare una mano se il Congresso reintrodurrà e farà passare l’International Violence Against Women Act, che introdurrebbe passi in avanti, seppur modesti. E gli Usa potrebbero peggiorare le cose se i Repubblicani riusciranno ad eliminare i finanziamenti al Fondo per le Popolazioni delle Nazioni Unite, che lavora in luoghi come la Sierra Leone per contrastare la violenza sessuale. Alla fine, l’unico modo per fermare l’epidemia di violenza sessuale è rompere il silenzio, cancellare l’impunità e mandare i perpetratori in prigione. Ma questo non accade quasi mai. La signora Kandeh mi dice che i Centri dell’International Rescue Committee hanno curato più di 9.000 pazienti dal 2003, e meno dello 0,5% degli stupri ha avuto come risultato la detenzione dei criminali.

Nella città orientale di Kenema, ad un giorno di viaggio dalla capitale, ho incontrato una ragazzina di 13 anni, TaJoe, che è stata curata per lo stupro subito, ed il cui caso svela perché le sopravvissute non parlano. TaJoe è una sveglia scolara delle medie, la terza come eccellenza negli studi nella sua classe. Non molto tempo fa, una sera, aveva bisogno di andare al gabinetto (fuori di casa, ndt.) e chiese alla sorella di scortarla. La sorella si negò e disse che non ce n’era bisogno. TaJoe andò quindi da sola, e sulla via del ritorno fu afferrata da un uomo d’affari, sbattuta a terra e violentata.

Spaventata e vergognosa, TaJoe non si fidò di parlarne a nessuno, ma contrasse una malattia a trasmissione sessuale che le causò febbre altissima. Smise di mangiare, la sua salute peggiorò. Quando i familiari la portarono in ospedale, i medici scoprirono qual era il problema e TaJoe “confessò”.

L’uomo d’affari era sospettato di aver stuprato altre due ragazzine nel villaggio, ma era istruito e ricco. Quando TaJoe fece il suo nome, la polizia agì in modo molto rapido: mise in prigione la ragazza e sua madre, accusandole di sporcare il nome di un rispettato membro della comunità. Più tardi furono rilasciate, ma l’episodio terrorizzò TaJoe. Inoltre, mi dice, l’uomo d’affari le ha promesso che, se resterà libero, pagherà tutte le future tasse scolastiche di TaJoe: una “mazzetta” che le dà la speranza di completare la sua istruzione e di trasformare la sua vita.

Quando le ho domandato che cosa si dovrebbe fare per il suo caso, la sua risposta è stata chiara: “Non voglio il processo. Non voglio causare fastidi.” E se quell’uomo continua a violentare ragazzine?, ho detto io. TaJoe ha replicato che forse ha imparato la lezione. Sa benissimo che avere una vita normale nel villaggio, e forse le sue speranze di una carriera medica, dipendono dalla sua resa. “Ho persino paura che lo arrestino.”, dice TaJoe.

Dunque, la situazione è così disperata? Ma con mia sorpresa, ho trovato cenni di progresso: in special modo quando una fanciulla adolescente mi ha chiesto di aiutarla a mandare in prigione il suo stupratore.

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(di Deborah Block per Voice of America, 28 giugno 2011, trad. Maria G. Di Rienzo)

Per undici anni la Sierra Leone, paese dell’Africa occidentale, è stata devastata dalla guerra civile. La guerra ebbe inizio nel 1991 quando un gruppo ribelle, chiamato il Fronte rivoluzionario unito, lanciò una campagna per controllare i ricchi giacimenti di diamanti del paese. I ribelli assalivano i civili nei villaggi, usando machete ed asce per tagliar loro braccia, gambe, labbra e orecchie.

Damba Koroma aveva solo cinque anni, nel 1997, quando i ribelli le tagliarono il braccio sinistro. Più tardi, da bambina, fu portata negli Usa, dove ha appena terminato le scuole superiori. Sul braccio sinistro una mano dalle unghie perfette, sull’altro solo il ricordo. Ma Damba Koroma non indugia nel passato. Cucinare è una delle sue passioni: qualche giorno prima di ricevere il diploma se la gode nel preparare un’insalata durante la lezione di cucina. Usa allo scopo delle protesi speciali. “Trovo splendido il riuscire a produrre qualcosa di veramente buono e gustoso che altre persone ed io ameremo mangiare.”, dice.

L’insegnante Craig Scheuerman l’ha aiutata a procurarsi le protesi, che sono state donate da una fondazione non-profit. Dice che Koroma è la studente migliore che lui abbia mai avuto: “Pensavo che lei fosse disabile, ma adesso mi è chiaro che non lo è. E’ fenomenale in cucina. Riesce a lavorare alla stessa velocità di chi ha due mani.” I suoi compagni di classe sono d’accordo, e dicono che è sempre disposta ad aiutare gli altri. Daryl Hale afferma di essere impressionata da come Damba sia una “buona persona da qualunque parte la si osservi”. Josoph Jackson aggiunge che è volonterosa nel condividere le sue conoscenze con tutti.

Damba Koroma ricorda il giorno in cui i ribelli attaccarono il suo villaggio, chiedendo danaro a sua madre che non ne aveva. Il capo del gruppo disse che avrebbe fatto della bambina un esempio, di modo che tutti sapessero cosa sarebbe accaduto se non avessero soddisfatto le sue richieste. “Tagliarono via il mio braccio sinistro, e lo stesso fecero a mia madre e a molte altre persone del villaggio.” Damba spiega che ci vollero tre interi giorni, alla sua famiglia, per riuscire a raggiungere un ospedale nel mezzo del caos. Dopo di ciò, Damba ha passato tre anni viaggiando da un campo profughi all’altro. “Mia madre ed io, durante il giorno, entravano nelle città fuori dalle quali eravamo accampate, mendicando i soldi per il cibo.”

Nel 2000, mentre si trovavano in un campo per amputati, a Damba fu offerta l’opportunità di ottenere un braccio artificiale negli Usa. Ma ad operazione terminata, la bambina era terrorizzata all’idea di tornare in Sierra Leone. Quando la sua storia divenne nota al pubblico, Sahr Pombor e sua moglie Josephine si fecero avanti per diventare i suoi tutori ad Alexandria, in Virginia: “Non riuscivo neppure a pensare a quanto dolore aveva sopportato. Mi lacerava e basta.” La coppia di freschi sposi provenienti dalla Sierra Leone, fuggiti negli Stati Uniti a causa del conflitto, ha avuto successivamente tre bambine proprie. Josephine Pombor ricorda che fu sua sorella a darle consigli su come aiutare Damba: “Prendi quella mano e baciala, mi diceva, non devi dirle altro se non che la ami, e questo l’ho fatto di continuo. Mano a mano che cresceva, diventata sempre più fiduciosa in se stessa.”

Damba dice che non prova amarezza: “Anche se ho una sola mano, anche se ho un passato decisamente duro, non permetterò a questo di impedirmi di fare ciò che voglio fare.” lo scorso aprile la ragazza è tornata in Sierra Leone per la prima volta. Ha incontrato altri amputati e parlato agli studenti sul fatto che non bisogna mai darsi per vinti. Si è riunita alla madre e agli membri della sua famiglia: “Ero a casa. Ed era come se ci fossi sempre stata, anche se non li avevo visti per quasi undici anni.”

Damba Koroma entrerà all’università fra pochi mesi. Desidera studiare sviluppo e relazioni internazionali. La Sierra Leone, spiega, si sta ricostruendo dopo la guerra. La giovane spera di aiutare a mettere in piedi un ospedale per donne e bambini nel paese: “Aiutare gli altri è una passione, per me, perché è un modo per restituire quanto mi è stato dato. Così tante persone hanno aiutato me lungo la strada.”

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