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(“Meet Mariama Sonko, Senegal” – Nobel Women’s Initiative, 1° dicembre 2017. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

Mariama Sonko

Contadina e organizzatrice per le donne rurali, Mariama è la coordinatrice nazionale di “Nous sommes la solution” (Noi siamo la soluzione) in Senegal, un movimento di agricoltrici per la sovranità alimentare che si sta diffondendo anche in Burkina Faso, Mali, Ghana e Guinea. Tramite le pratiche agro-ecologiche, Mariana e il suo movimento lavorano con le donne rurali per prendere il controllo dei propri mezzi di sussistenza e creare una forte rete di sostegno l’una per l’altra.

Puoi dirci qualcosa del tuo lavoro?

Il nostro movimento è nato dai dialoghi fra le organizzazioni degli agricoltori e la società civile su come resistere alle politiche agricole imposte dalle corporazioni multinazionali. Questo movimento è afro-centrato e propone l’agro-ecologia come alternativa per sostenere una maggior sicurezza alimentare in Africa.

Le donne giocano un ruolo indiscutibile in agricoltura: nella produzione, nella commercializzazione delle coltivazioni domestiche, nel consumo. Il nostro movimento è radicato nella visione di un’Africa in cui le donne rurali sono coinvolte in ogni processo decisionale e coltivano, vendono e consumano i prodotti delle loro fattorie di famiglia.

Come si è diffuso il vostro movimento sino a ora?

Abbiamo avuto un bel po’ di successo, principalmente perché siamo state capaci di rinforzare le capacità delle donne leader di esporre il valore del movimento proprio dal suo inizio. Ciò ci ha permesso di organizzarci con le donne coinvolte a livello di base e ora abbiamo una piattaforma di circa 100 associazioni locali.

Lavoriamo anche con i media, giornali e radio, per diffondere il nostro messaggio. Sebbene il movimento sia stato creato dalle donne ci siamo espanse e abbiamo incluso uomini, gioventù, politici e altre persone che credono nel nostro lavoro. Oggi abbiamo una fattoria modello diretta da donne rurali e un negozio dove vendiamo i nostri prodotti. Sta tutto nel trasformare le parole in azione.

Facciamo molto a livello locale, ma crediamo sempre di più che sia cruciale avere anche reti a livello internazionale, per dare maggiore visibilità al movimento. Questa può essere una risorsa potente per il nostro attivismo.

Quale ritieni essere la sfida maggiore che avete davanti?

Le donne sono le persone chiave, ma il loro lavoro non è compreso e neppure compensato. Perciò, questo è il motivo per cui dobbiamo continuare a costruire l’abilità delle donne di comunicare le nostre opinioni e di entrare in relazione con altri, di modo che sappiamo che cosa stiamo chiedendo e cosa dobbiamo fare.

Quale azione diresti essenziale per l’attivismo?

E’ essenziale essere collegati con altri movimenti in altri paesi, per sapere meglio cosa stanno difendendo e per cosa stanno lavorando e vedere come i legami d’alleanza possono essere più forti. Non possiamo limitarci a quel che facciamo noi. Dobbiamo conoscere cosa altri fanno per ricevere o dare lezioni che ci conducano a uno sviluppo più armonioso.

Cosa significa la parola “femminismo” per te?

Femminismo significa semplicemente giustizia sociale nella nostra comunità. L’ingiustizia verso le donne è stata presente sin dai giorni dei nostri antenati. Il femminismo corregge questa ingiustizia a livello locale, nazionale e internazionale. E questo è ciò che ci sprona a essere e lavorare nel movimento femminista globale, il tentare davvero di risolvere questa ingiustizia, di dare valore al ruolo che le donne svolgono e al loro posto nella nostra comunità.

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Laamb” è la parola Wolof per “lotta libera”. In Senegal, laamb è qualcosa di più di una competizione: la forza e l’abilità sono legate a elementi mistici e implicano la presenza di una comunità riunita. In pratica ogni individuo, donna o uomo e sin dall’infanzia, partecipa alla lotta libera.

isabelle

La donna nell’immagine è la senegalese Isabelle Sambou, un’atleta olimpica che è stata scelta come ambasciatrice da “United World Wrestling” per propagandare lo sport.

Isabelle è rimasta orfana quand’era piccola ed è stata cresciuta collettivamente dalle donne del suo piccolo villaggio. Impegnata nella lotta come tutti i bambini del circondario, aveva abbastanza talento da essere notata a un torneo e ingaggiata a livello professionale: un livello che nonostante le antiche radici egualitarie dello sport le donne raggiungono raramente. I grandi tornei con gli sponsor e il copioso giro di denaro non vogliono donne: è interessante notare che laamb ha cominciato a essere considerato un ambito di pertinenza maschile quando soldi e potere sono entrati nel quadro.

Isabelle Sambou ha fatto propria la missione di reclamare la lotta libera come sport per tutti. E’ molto attiva nell’incoraggiare le ragazze senegalesi a partecipare e poiché è arrivata alle Olimpiadi è stata riconosciuta come leader del suo villaggio e celebrata dalle donne che le hanno fatto da madri.

Perché lo fa? “Dietro le lottatrici professioniste per me stanno tutte le donne del Senegal: ottenere riconoscimento in qualsiasi campo significa aprire le opportunità per l’accesso a maggior rappresentanza politica e posizioni decisionali.”

E’ sempre un enorme piacere ascoltare qualcuna con le idee chiare. Grazie, Isabelle.

Maria G. Di Rienzo

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Dieynaba Sidibe

Dieynaba Sidibe, in arte Zeinixx, accanto al muro su cui ha dipinto lo slogan “La povertà è sessista” (il posto è l’Africulturban Centre a Pikine, un sobborgo di Dakar, Senegal, dove si radunano giovani artisti, soprattutto musicisti hip hop).

Dieynaba, 25enne, è la prima donna graffitista riconosciuta come tale nel suo paese. Inoltre, è una poeta, una femminista e un’attivista per il cambiamento sociale. I suoi murales hanno spesso come tema i diritti delle donne e ha cominciato a produrli nel 2008: “E’ perché voglio esprimere molte cose. La differenza fra dipingere graffiti e dipingere su una tela è che quando uso una tela è perché io voglio disegnare, invece con i graffiti sono più concentrata sul messaggio sociale. Le donne sono marginalizzate nella società e io penso che la mia arte possa aiutare la gente a capirlo.”

Sin da quand’era bambina, Dieynaba usava i soldi della sua “paghetta” per comprare carta e colori. Un giorno tornò a casa da scuola per scoprire che sua madre le aveva buttato via tutto, disegni compresi. Nella sua famiglia non era considerato appropriato che una femmina fosse un’artista. La madre di Dieynaba avrebbe però accettato che la figlia studiasse per diventare medica. Riflettendo sull’episodio, Dieynaba dice che “la società ha creato un posto per le donne e quando tu tenti di uscirne, cominciano i problemi.”

E anche se ti adegui, le diseguaglianze non scompaiono: “Per esempio nei salari: quando un uomo e una donna hanno lo stesso grado di istruzione e le medesime capacità di lavorare e riflettere, alla fine del mese non riscuotono la stessa paga.”

Dieynaba Sidibe2

La “battaglia” con la sua famiglia questa giovane artista l’ha vinta (ora i suoi parenti sono orgogliosi di lei) ma poiché è una donna sa di dover lottare ancora: “Come donne abbiamo ottenuto molto in Senegal, in termini di diritti, ma molto di più rimane da fare.” La cosa la preoccupa? Per niente: “Tutte le donne, ovunque, siano pescivendole, graffitiste o impiegate in un ufficio… siamo tutte lottatrici. Le donne stanno lottando per essere libere di esercitare la propria volontà e di svolgere le professioni che a loro piacciono, per essere pagate per il loro lavoro quanto si pagano gli uomini, e per poter seguire le proprie passioni.” Maria G. Di Rienzo

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“Ho 23 anni e mio marito ne ha 30. Mi sono sposata quando ne avevo 15. Ho due bambini, uno di nove anni e uno di 18 mesi. Io non volevo sposarmi ma ho dovuto accettare perché a casa mia siamo poveri.

Abbiamo avuto una cerimonia in cui erano presenti i genitori di entrambi, che hanno parlato e hanno deciso che potevamo sposarci. Durante la cerimonia mi è stato detto di rispettare mio marito e di non negargli mai il sesso. Mi è anche stato detto che se avessi avuto problemi dovevo sopportarli, perché è così che vanno i matrimoni. Ho trovato la vita molto difficile, dopo le nozze. Ero una ragazza giovane e non sapevo niente del matrimonio.

A un certo punto, la mia pancia ha cominciato a crescere e avevo sempre un forte mal di testa. Ero spaventatissima, non sapevo cosa stava succedendo. Così sono andata all’ospedale e là l’infermiera mi ha detto che ero incinta di cinque mesi.

Mio marito è un muratore e io non ho un lavoro. Non sono felice con lui, perché se ne va per lunghi periodi senza lasciare cibo in casa, mi picchia e ha molte altre donne. Vorrei andarmene ma sto aspettando il momento giusto. Se lui non cambia, lo lascio. Quando mio marito torna dopo essere stato con altre donne e vuole sesso, io mi limito ad accettare perché è mio marito. Non usiamo preservativi: mi ha già infettata con l’Hiv.

Il matrimonio non è una buona cosa per le ragazze. Non c’è alcuna gioia in esso. Voglio che le cose cambino per le ragazze e questo è il motivo per cui voglio che esse ascoltino la mia storia, soprattutto quelle che stanno pensando di sposarsi.” Kalinde, Malawi, 2014. (Trad. Maria G. Di Rienzo. Il nome della giovane donna è stato cambiato per la sua protezione.)

http://www.girlsnotbrides.org/

http://www.hrw.org/

senegal

“Quando ero molto piccola, ho detto a mio padre che volevo andare a scuola.”

(Maoundé nel documentario ““Waylowaylo” – “Cambiamento” del 2013. Il film racconta, attraverso gli occhi di Maoundé e di suo padre, come un intero villaggio senegalese abbia deciso di investire nell’istruzione delle ragazze e di ritardare i loro matrimoni. In precedenza le ragazze non avevano accesso alla scuola e si aspettava compissero 13 anni per darle in mogli.)

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toussa 2

C’era una volta una bambina (ma davvero pochissimo tempo fa, e adesso c’è una giovane donna) di nome Astou Gueye, che nacque a Dakar in Senegal. La musica era la sua gioia principale: hip-hop, pop internazionale, rock, ma anche la poesia ritmica femminile del suo paese, chiamata Taasu e recitata per la maggior parte durante eventi a cui partecipano solo donne o in cui le donne sono centrali. Poiché la cultura Wolof tende ad evitare l’espressione diretta in un discorso, questo tipo di poesia permette alla Taasukat (colei che la ripete) di essere autobiografica, di presentare e creare attivamente un se’ testuale che connette la sua storia e le sue opinioni alla comunità.

A 13 anni, la nostra protagonista è già un’artista hip-hop e rilascia il suo primo singolo, in cui fra l’altro mette in guardia le donne sullo scarso rispetto che gli uomini mostrano loro in ogni ambito. Il suo stile potente combina la tradizione poetica delle donne senegalesi con tre lingue – wolof, francese e inglese – e i ritmi del mondo. Oggi di anni ne ha 22 ed è conosciuta come Toussa Senerap, fondatrice e presidente di GOTAL (ovvero “unità”), un collettivo femminile composto da 11 rapper e cantanti. “Tramite quest’alleanza creativa – spiega Toussa – abbiamo dimostrato che quando le artiste lavorano insieme, possono farsi ascoltare eccome.”

Le donne non restano molto nell’ambiente, di solito. L’associazione dell’hip-hop a sesso / droga / violenza nell’immaginario sociale fa sì che lo si ritenga praticabile dagli uomini, ma compromettente e pericoloso per le donne. Toussa ha in mente di cambiare lo scenario: “Ci stiamo lavorando.”, assicura, perciò ha aperto il suo proprio studio di registrazione, RockTeam Musik, gestito da donne e diretto alle donne musiciste. Nello studio si tengono anche seminari sui ruoli di genere e la politica delle donne, e durante le elezioni del 2012 Toussa fu in effetti una figura chiave dell’espressione della società civile.

Toussa si esibì al Social Forum, nel 2010, e all’inizio di quest’anno cinque membri di GOTAL, lei compresa, hanno scritto e registrato due canzoni sulla violenza contro le donne in occasione dell’8 marzo. Ma fanno anche altro: “Lo scopo della mia musica è parlare di tutto. – dice l’artista, e Toussa significa proprio “tutto” – Quando vogliamo divertire le persone le divertiamo, e quando abbiamo bisogno di tirar fuori un messaggio dalla nostra generazione, lo facciamo.”

Non ho soldi, “rappano” le donne di GOTAL nella loro lingua, Non ho nemmeno degli spiccioli. Ma pur non avendo granché, intendo lo stesso far festa. Maria G. Di Rienzo

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Rawan, yemenita, è morta il 10 settembre u.s. di emorragia interna dovuta alla distruzione dell’utero, dopo la sua prima notte di nozze. Il “vedovo” pedofilo ha quarant’anni: Rawan ne aveva otto. Le autorità della città di Meedi, dove il fatto è avvenuto, non hanno preso provvedimenti per lo stupro e il conseguente omicidio e se interrogati negano tutto. I capi tribali hanno minacciato un giornalista locale tentando di coprire la vicenda. Ma ormai, notizia e foto della bimba hanno fatto il giro del mondo, assieme ai dati sulla povertà in Yemen e alle solite solfe su religione-tradizione-cultura.

Rakiya, nigeriana, è ancora viva. Non voleva sposarsi e diventare madre a 12 anni, ma fra gli stupri del marito e i pestaggi del padre dopo un po’ si è rassegnata. A vent’anni è rimasta vedova, con cinque figli e un sesto in arrivo. Ha venduto tutto quel che aveva per dar da mangiare ai figli e alla fine, quando non le restava più nulla, ha venduto se stessa. Dopo quattro anni infernali da sex worker ha scelto di provare un’altra strada. Oggi vende tortine di fagioli per le strade. Cosa giustifica i matrimoni di bambine, secondo Rakiya, la povertà, la religione, la tradizione, la cultura? “Niente di tutto questo. E’ l’ignoranza. E’ il credere che una femmina non valga niente e porti solo danno economico, è il non sapere che questo è sbagliato.”

Fatou Diakhate, senegalese, oggi ha 55 anni. Quando è stata data in moglie ne aveva 13. Dai quindici in poi ha messo al mondo dodici figli. “Ero analfabeta, mai visto una scuola, non sapevo niente.” Poi, a quarant’anni, scopre che un’agenzia umanitaria locale offre corsi di alfabetizzazione per adulti. Fatou partecipa. E non impara solo a leggere e scrivere in Wolof, perché i corsi comprendono la salute riproduttiva e Fatou viene ad esempio a sapere che sono ben due milioni le donne affette da “fistula ostetrica”, un danno collegato principalmente ai parti precoci, che causa incontinenza e spesso l’allontanamento e l’ostracismo per chi ne soffre. Impara anche che la pratica della mutilazione genitale femminile, comune in Senegal, esaspera questo rischio fra i mille altri (mortalità materna e del neonato, travaglio tre volte più lungo del normale, danni cerebrali per il nascituro, ecc.). La prima cosa da fare per salvare un po’ di vite, pensa Fatou, è fermare i matrimoni di bambine.

Fatou Diakhate

Comincia con l’organizzare le altre donne del suo villaggio, condividendo quel che ha appreso e insistendo sul rischio per la vita delle bimbe e sulla violazione del loro diritto fondamentale a ricevere un’istruzione. Come rappresentante delle donne parla al capo locale, al consiglio municipale e all’imam del desiderio delle donne che la pratica termini. Gli uomini la aggrediscono con tutto quel che hanno a disposizione: l’accusano di corruzione, di essere pagata dall’agenzia umanitaria per distruggere le loro tradizioni, le lanciano minacce di ogni tipo – compresa quella di usare il gri gri (magia nera) contro di lei. Fatou si indigna ancora, quando lo racconta, ma forte del sostegno delle altre donne, ha continuato ad orchestrare campagne e a fare pressione sui leader comunitari: nel 1998 la sua comunità, Keur Issa, ha abbandonato la pratica. Da allora, nessun matrimonio di bambine è avvenuto in loco.

Fatou continua ad ispirare l’intero Senegal. Le ultime a seguirla sono state 159 comunità nelle regioni di Fouta e Kolda, che hanno anche abbandonato le mutilazioni. “Come donne e come madri è quel che dobbiamo fare.”, spiega Fatou, “E dobbiamo parlare alle nostre figlie, sostenerle affinché vadano a scuola, perché non vogliamo che soffrano quanto noi abbiamo sofferto.” Maria G. Di Rienzo

(Fonti: Plan UK, The Elders, Unicef, International Centre for Research on Women, AFP, Dawn)

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Tra fine novembre e inizio dicembre 2012 si è svolta a Londra una rassegna di film femministi – http://londonfeministfilmfestival.com/ – che ha mostrato un po’ di verità e di varietà di corpi e menti femminili altrimenti assenti dal grande schermo. Alcuni registi odierni pensano che per far andare la gente al cinema ci vogliano tecnologie avanzatissime e mirabolanti effetti speciali, io continuo a pensare che ci vogliano innanzitutto una buona storia e la capacità di raccontarla. Fra le diverse sezioni del festival ho trovato particolarmente interessante “Herstories”, quella dedicata ai “corti” (in maggioranza documentari), per le questioni affrontate e per la brillantezza delle protagoniste.

festival Londra

E allora cominciamo con “Taxi Sister” ( http://www.youtube.com/watch?v=mGf6pVRRui0 ), prodotto da Theresa Traore Dahlberg. La vicenda è quella di un gruppo di donne di Dakar, Senegal, che grazie ad un programma governativo di sostegno (ora cancellato, ci dice il film nel finale) sono diventate autiste di taxi. Sono le prime, nel paese, e sono in 15: i tassisti uomini sono circa 15.000. Pure, questi ultimi sono convinti che siano davvero troppe e che non dovrebbero neppure esistere. Boury, la protagonista seguita dal documentario, sogna di diventare la prima donna che metterà in piedi la propria compagnia di taxi a Dakar. Boury è solare, determinata e positiva, ma non importa quanto bene lavori o quanto bene sostenga e depotenzi le aggressioni verbali da parte di sconosciuti e di colleghi: oltre a sentirsi dare dell’indecente, perché “i clienti maschi vorranno andare a letto con te”, viene continuamente messa a rischio da tamponamenti e scontri intenzionali da parte delle auto dei tassisti maschi. Non dimenticherò mai il suo volto che si gira verso la camera da presa, dopo uno di questi episodi, per dire: “Come mi trattano, così li tratto. Se mi insultano, li insulterò cinque volte tanto. E questo vale per tutto il resto.”

Dall’Argentina, grazie alla regista Nadia Benedicto, viene invece “Como una guerrera”. E’ la storia di Laura, la cameriera di una famiglia ricca il cui unico eloquio permesso nell’ambiente è “Sì, signora/ sì, signore/ sì, signorina” mentre sfacchina con addosso il classico (e orripilante) vestitino nero con grembiulino e crestina bianchi. Ma Laura sogna. Sogna di cavalcare uno splendido destriero fra deserti e foreste, e nel sogno il suo abbigliamento è quello di una guerriera e il suo viso non esprime che fierezza. Nella realtà, la vediamo andare a casa dal lavoro con un uomo violento e scalmanato, e tornare il giorno dopo ferita fisicamente ed emotivamente distrutta. Tuttavia, Laura continua a sognare, e il sogno si fa via via più nitido e pressante, sino a che la donna decide di diventare davvero quella “guerriera” e denuncia alla polizia il suo aggressore. La questione della violenza domestica è chiarita in quello splendido passaggio in cui noi spettatori non la vediamo direttamente: perché in effetti è un abuso nascosto, a meno che noi si decida di riconoscerne l’esistenza e di affrontarlo. Nadia Benedicto ha detto nelle interviste: “La verità è che io sono nata e cresciuta in una famiglia dove le donne erano disprezzate e tutte le decisioni erano prese dagli uomini. Penso che “Como una guerrera” sia il primo passo che ho fatto per recuperare quella voce, la mia propria, e la voce di tutte le donne che vivono in situazioni in cui non sono in grado di far valere i propri diritti.”

Il terzo breve, anzi brevissimo (sono poco più di due minuti), chiamato “Seating Code”, potete vederlo all’indirizzo: http://vimeo.com/30182700

La regista Hong Yane Wang esamina in esso una rispettabile tradizione cinese, a cui ovviamente dobbiamo il massimo rispetto nel nome del multiculturalismo, che consiste nel non permettere alle donne di sedersi sulle custodie metalliche che si usano nell’industria cinematografica. Potete ridere, ma il risultato è che in tutta la Cina, in omaggio a questa “tradizione”, c’è una sola “camerawoman”. Il cinema non esiste da abbastanza tempo per far risalire tale idiozia alla dinastia Qing e nessuna delle persone che ne parlano nel film è in grado di dire con esattezza quando e come sia nata, ma una tradizione è una tradizione, diamine, per cui va seguita senza farsi troppe domande… La regista, di diverso avviso, le fa. E le risposte sono allucinanti: “E’ perché non è pulito.”, spiega un uomo. Un secondo uomo esplicita: “Le donne hanno le mestruazioni, potrebbe accadere un sanguinoso disastro.” Un terzo reagisce seccato: “E’ maleducato che una donna si sieda su una di quelle custodie. Gli uomini stanno lavorando duro, le donne non lavorano: perché dovrebbero sedersi?”

E poi, continuano: “In Cina non si abbandonano le tradizioni, perché dovremmo farlo? Non è una cosa ingiusta, siamo già molto civilizzati.” Con un sorrisino delizioso, una ragazza aggiunge: “Credono che se una femmina si siede su qualcosa di fallico questo qualcosa si affloscerà. Il focus della ripresa diventerà blando.” Okay, non sono un’esperta di anatomia umana, e forse è questo il motivo per cui non riesco a comprendere cos’hanno a che fare le custodie metalliche (cubi e parallelepipedi) con i genitali maschili cinesi. L’unica cosa che capisco è questa: qualsiasi mezzo per ricordare alle donne che sono inferiori e sporche è buono, non importa quanto stupido sia e quanto stupido renda chi lo usa.

Tutt’altro paio di maniche con il documentario “Sari Stories”, dove la camera da presa è uno strumento di liberazione e conoscenza per le donne che la usano. (http://www.aljazeera.com/programmes/witness/2009/08/200981914759478896.html )

Un’associazione umanitaria, i “Video Volunteers”, ha messo in mano le cineprese a donne comuni di Andhra Pradesh, nell’India del sudest e ha detto loro: raccontate ciò che vi sta più a cuore. E le donne hanno prodotto un documentario sui loro matrimoni forzati. Notate bene: tutte sono state date in mogli da bambine. Latha, una delle protagoniste, ci racconta di essere stata venduta a suo marito a 12 anni. “Una volta mi ha picchiata tanto che non si credeva sarei sopravvissuta. Se è di cattivo umore mi costringe a mangiare sterco di mucca.” Per quanto i volontari benefattori cerchino di mettere una pezza “tradizionale” su tutta la violenza che emerge, con frasi del tipo “Le differenze volute da dio fra uomini e donne…”, la chiarezza della verità non ne viene offuscata. La verità è che di tutte queste donne si è abusato, che tutte hanno patito flagranti violazioni dei loro diritti umani, e che tutte ne sono consapevoli. Una di loro dice nel film: “Qualche volta penso di divorziare. Ma mio marito non farebbe che risposarsi. Un’altra donna sarebbe venduta. Un’altra donna soffrirebbe.” Il documentario ha comunque avuto un impatto positivo su chi ha partecipato al progetto e su chi ha visto il risultato finale. In parecchie assicurano che “Sari Stories” ha cambiato le loro vite.

Il London Feminist Film Festival si terrà anche il prossimo anno. Mano alla camera, ragazze, e sedetevi dove vi pare. Maria G. Di Rienzo

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(“Women mechanics at Senegal garage put brakes on gender bias”, di George Fominyen per TrustLaw, 14.2.2012, trad. Maria G. Di Rienzo)

DAKAR, Senegal. In passato, i familiari e gli amici di Ndeye Coumba Mbengue erano soliti prenderla in giro perché lavorava come meccanica. La sua famiglia pensava che un simile “lavoro sporco” non fosse adatto ad una donna, e che lei sarebbe stata meglio lavorando come sarta, parrucchiera o segretaria. “Mi sentivo ferita, piangevo.”, ricorda Mbengue, che vive nella capitale del Senegal, Dakar, “Ma continuavo a ripetermi che il lavoro mi piaceva e che avrei resistito sino alla fine.”

Ha infatti continuato a lavorare in diversi garage per 16 anni, sino a che non ha aperto il proprio – Garage Femme Auto – nel 2006 con i suoi risparmi equivalenti a circa 10.000 dollari. Garage Femme Auto è uno dei due soli garage in tutto il paese di proprietà di una donna. Ma è unico perché è il solo garage in tutto il paese che assume sia uomini sia donne.

Mbengue notava che i garage non assumevano in posizioni da meccanico giovani donne qualificate, diplomate alle scuole tecniche, perché il lavoro era visto come “un lavoro da uomini”. Perciò ha cominciato ad assumere meccaniche. “Volevo mostrare al mondo che le donne potevano fare questo mestiere.”

Fra i venti meccanici in forza al garage, dove i lavoratori si sdraiano sotto le automobili per ispezionare e cambiare parti, e si sporcano le mani con olio da macchine, ci sono al momento otto donne. Durante gli anni, la professionalità delle lavoratici di Garage Femme Auto ha vinto l’iniziale diffidenza degli uomini, che trovavano difficile dare le chiavi delle loro automobili a delle donne affinché le riparassero, dice ancora Mbengue.

La gente che porta qui i propri mezzi vuole che siano riparati dalle donne. E’ per questo che vengono.”, spiega Marieme Seck, una delle meccaniche di Garage Femme Auto. Quando gli uomini, in special modo gli impiegati che costituiscono la maggioranza della clientela, dicono a Mbengue che preferiscono affidare la propria auto ad una donna, perché le donne sono più concentrate e diligenti, è come se suonassero musica alle sue orecchie. Ma un’espressione triste le si dipinge in volto quando nota che c’è stata ben poca imitazione del suo esempio in Senegal. Spera che il governo voglia promuovere simili iniziative per le donne: “Sarei felice di veder più donne coinvolte in questo settore. E’ la mia speranza ed il mio desiderio.”

Mbengue riconosce che la lotta contro le diseguaglianze di genere è lungi dall’essere vinta. Molte donne abbandonano la professione quando si sposano o quando hanno figli, o perché il lavoro di meccanico non rende abbastanza, o ancora perché i mariti non sono loro di sostegno. Ma Anna Gueye Bangoura, una delle meccaniche di Femme Auto, è sposata e madre di un bimbo di quattro anni, e continua a lavorare. “Non penso proprio che lavorare come meccanica sia un problema per qualsiasi famiglia.”, dice Bangoura, che esercita il mestiere dal 1997, “Mio marito ha persino pagato per il mio addestramento professionale.”

Garage Femme Auto è simile alla maggior parte delle officine in Senegal: un posto piccolo, dove i lavoratori usano un equipaggiamento abbastanza rudimentale da scoraggiare la carriera di meccanico per molte persone. Ma questo non ha avuto effetto sulla passione delle giovani donne che lavorano qui. Si vedono come pioniere che incoraggiano le altre ad osare. “A quelle donne che pensano che la meccanica non sia un lavoro da donne io dico che lo è.”, conclude Bangoura.

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