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(“Unforgettable testimonies at court for women survivors”, di Stina Magnusson Buur per Kvinna till Kvinna, 13 maggio 2015, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

dimostrazione apertura tribunale

(Dimostrazione d’apertura del Tribunale delle Donne. Lo striscione recita: “Tribunale delle Donne – approccio femminista alla giustizia”. La foto è di Milica Mirazic.)

“Sono un’eroina.”, ha detto una delle più giovani donne che ha reso testimonianza. E’ sopravvissuta ad un lungo periodo di abusi, stupri e tortura, mentre era adolescente, in un “campo di stupro”, è sopravvissuta ad un matrimonio forzato e violento, al divorzio: “Si sono portati via la maggior parte della mia infanzia. Si sono portati via la mia gioventù. Ma il presente, e il futuro, sono miei.”

Durante il fine settimana dal 7 al 10 maggio 2015, il Tribunale delle Donne a Sarajevo ha radunato circa 500 donne provenienti da Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Kosovo, Macedonia, Montenegro, Slovenia e Serbia, affinché testimoniassero e ascoltassero personali storie di vita su quel che accadde durante le guerre balcaniche negli anni ’90 e successivi – e come questo ebbe ed ha ancora un impatto sulle vite delle donne oggi.

La cosa più “potente” del Tribunale è che ha messo le sopravvissute e le loro testimonianze al centro. Erano i soggetti che prendevano il potere dello spazio e delle loro stesse storie. Il resto di noi ascoltava, offriva la propria solidarietà e ovazioni in piedi come tributo al loro coraggio.

Il processo che ha portato alla presenza del Tribunale ha preso parecchi anni. Per quanto ne so io, l’idea fu lanciata la prima volta nel 2001 e l’impegno si è intensificato durante il 2010. Un enorme ammontare di lavoro è stato svolto durante gli ultimi cinque anni in ogni paese menzionato così come a livello regionale.

E non è stato facile. Ci sono differenti narrazioni della guerra in differenti aree dei Balcani, ci sono stati sviluppi politici come l’avanzare del nazionalismo, i processi del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia sono andati avanti in parallelo – con troppi criminali lasciati liberi e molti altri sviluppi ed eventi che hanno influenzato la cosa. Ad un certo punto, le donne in Serbia non riuscivano a trovare nessuno disposto a lasciar usare loro degli spazi per tenere incontri che riguardavano il Tribunale delle Donne o la riconciliazione. Io lavoravo in Serbia per Kvinna till Kvinna durante il periodo 2011-2013, perciò ho seguito la faccenda da vicino.

Ora, torniamo al maggio 2015. Penso che tutte abbiamo sentito storie delle guerre nei Balcani negli anni ’90: i “campi di stupro”, la pulizia etnica, il genocidio. Le guerre – e le testimonianze che abbiamo udito – contenevano alcune delle cose più orribili e indescrivibili che un essere umano possa fare ad un’altra anima vivente, ed ascoltarle direttamente dalle donne sopravvissute mi ha distrutta. E io vedo la questione da fuori.

Ci sono state anche testimonianze di madri e mogli di soldati, donne che hanno tentato di impedire ai loro mariti e figli di andare in guerra e donne che hanno tentato disperatamente di recuperare membri delle loro famiglie dopo che questi erano stati arruolati di forza, persino minorenni. Nonostante tutto, i sentimenti che la maggior parte delle donne proiettavano all’esterno erano determinazione ad ottenere pace e desiderio di giustizia – non vendetta: per la riparazione, per la sicurezza, per un buon futuro per loro e i loro figli, in solidarietà con tutte le altre donne, oltre ogni possibile confine.

Dare potere alle sopravvissute potrebbe sembrare in contrasto con un tribunale penale, come il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia dove è il perpetratore ad essere al centro della scena e le testimonianze sono udite in relazione al perpetratore. Perciò, i testimoni risponderanno a domande e non saranno in grado di raccontare la loro intera storia. Entrambi i processi sono necessari, per quanto diversi.

Dopo aver ascoltato più di 30 testimonianze individuali, moltissime immagini e frasi sono rimaste con me. Una donna terminò il suo intervento dicendo: “Noi tutte viviamo le conseguenze della guerra.” Questo è vero per la donna che sta ancora cercando i resti del suo figlio maggiore, la donna che sta ancora lottando per riavere la propria casa, la donna che è stata licenziata a causa della sua etnia ed oggi non ha pensione, la donna Rom i cui diritti sono ancora non garantiti.

E non riesco a smettere di pensare che chiunque io abbia incontrato per le strade assolate di Sarajevo ha la sua storia personale di quel che gli è accaduto durante le guerre e di quel che ha fatto. E che chiunque sta vivendo le conseguenze. Un’altra frase che non dimenticherò mai è venuta da una donna a cui sono stati strappati i bambini dalle braccia: “Io posso perdonarli per tutto. Posso perdonarli per averci portato via tutto. Ma non posso perdonarli per aver portato via i nostri figli.” Una donna ha detto: “Alla fine ho dovuto schierarmi anch’io, sono diventata parte di noi e loro.”

Ma ci sono state anche molte storie di resistenza e di umanità, di vicini di casa che si sono aiutati l’un l’altro nonostante i rischi personali, di estranei che hanno aiutato persone mai viste prima. Penso al guidatore di autobus che ha salvato l’intero carico dei suoi passeggeri, donne e bambini, dicendo al soldato che era salito sul mezzo per ucciderli: “Sì, moriranno, ma non sarai tu a farlo. Mi occuperò io della cosa, perciò ora esci di qui!” E come ha testimoniato una delle passeggere, li portò fuori da quella zona e li salvò tutti.

Dopo che ogni gruppo di testimoni aveva parlato, alcuni accademici, attivisti e altri condividevano analisi sui retroscena, sulle strutture della guerra e su ciò che era accaduto che fornivano una cornice per le storie individuali. Per esempio, è diventato ovvio il modo in cui le strutture di genere erano state cementate. Praticamente nessun uomo nelle storie delle donne è sopravvissuto. I bambini e la loro sopravvivenza (e la loro salute fisica e mentale) erano diventati intera responsabilità delle donne, sia perché donne ed uomini erano separati, sia perché le donne la presero su se stesse.

L’impunità è davvero diffusa. Numerose donne hanno testimoniato sui perpetratori ancora liberi: camminano per le strade delle loro stesse città o hanno persino posizioni politiche.

Ci sarebbe così tanto da dire e per di più non si riesce ad esprimerlo a parole… Il lavoro incessante delle difensore dei diritti umani delle donne e delle organizzazioni delle donne nei Balcani continua. E io credo che questa solidarietà fra donne sia più forte e molto più potente delle strutture della criminalità e della violenza. Per noi che non siamo parte del movimento delle donne nei Balcani, ma siamo parte della solidarietà fra donne, resta da decidere – nel dialogo – come continuare a sostenere al meglio questi sforzi per la riconciliazione.

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Per più di quindici anni, “Women for Women International” ha condotto programmi diretti alle sopravvissute di guerra bosniache: ad oggi, più di 7.000 donne hanno ricevuto istruzione professionale, aiuto finanziario ed educazione scolastica. Due membri dell’organizzazione, Laura e Teisha, raccontano di seguito le loro esperienze. (10.6.2010, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo)

"Raggiungimi sul ponte", Sarajevo, iniziativa per l'8 marzo di WFWI

 

Srebrenica, Teisha.

Nel luglio 1995, più di 8.000 uomini e ragazzi bosniaci furono uccisi in quello che divenne poi noto come “Il massacro di Srebrenica”. Inoltre, fra i 25.000 ed i 30.000 rifugiati nell’area di Srebrenica furono soggetti a “pulizia etnica”. Oggi nella città vi sono molte donne che partecipano ai programmi di “Women for Women International”, in maggioranza vedove di guerra o donne che hanno perso i loro figli in guerra.

La loro ultima idea è stata quella di rendere la città più fruibile ai turisti, perché ad esempio c’è un forte che molti vanno a visitare ma non ci sono ristoranti, o posti dove stare. Dopo uno dei nostri seminari, si sono riunite ed hanno deciso di intraprendere una prima azione che avrebbe lasciato un segno nella città ed allo stesso tempo sarebbe stata di sostegno alle loro famiglie.

C’è un Festival delle Ciliegie che si tiene ogni anno in città, ma che non ha mai portato guadagni a Srebrenica. Le donne si sono presentate al Consiglio comunale ed hanno chiesto di avere il controllo sulla festa. Il Consiglio, composto unicamente da uomini, si mostrò abbastanza scettico ma diede loro il permesso richiesto.

Per la prima volta il Festival è stato un successo. Le donne hanno fatto pubblicità, hanno venduto cibo, hanno guadagnato dei soldi, si sono organizzate tra loro per dividersi le responsabilità, ed era la prima volta che lavoravano insieme al di fuori del nostro programma, ma anche la prima volta in cui parecchie di loro hanno avuto occasione di incontrare i propri vicini, perché a parte gli incontri con noi non escono praticamente di casa.

Le loro case sono il solo posto dove andavano una volta uscite dai seminari. I loro mariti fanno la spesa, fanno qualsiasi cosa richieda l’uscire di casa, e le donne erano veramente rinchiuse fra quattro mura precedentemente a questa vicenda. Prima che io lasciassi la Bosnia, stavano discutendo i prossimi passi da intraprendere, fra cui l’eleggere una donna al Consiglio comunale: se ci riescono, sarà la prima volta nella storia della città.

Sarajevo, Laura.

Sugli edifici ci sono ancora i segni lasciati dalle pallottole e da altri proiettili. I bosniaci hanno ricostruito davvero molto, ma alcuni danni sono tuttora visibili. C’è questo stridente contrasto, perché è un paese davvero bello, in una campagna collinosa, ma ad esempio, in una vecchia parte della città dove ci fu un’esplosione, il cratere è stato riempito di asfalto rosso e sui pendii delle colline ci sono croci bianche sin dove puoi spingere l’occhio.

Le tensioni etniche esistono ancora, il paese è diviso. Non sapevo questo, prima di arrivare là e constatarlo di persona. Quando ero in Ruanda non c’era così tanta evidenza del genocidio e la gente non era propensa a parlarne. In Bosnia, le persone sono più disposte a parlare delle tensioni che persistono nel loro paese, ed ancor di più dei problemi che lo stesso fronteggia. Il conflitto in Bosnia non è stato risolto bene: si è fermato, ed è tutto.

La gente probabilmente pensa che la Bosnia sia uno dei posti più tranquilli in cui noi lavoriamo, perché dalla guerra è passato abbastanza tempo. Ma ciò che è accaduto durante la guerra è ancora parte delle vite delle donne, e l’economia distrutta dalla guerra non ha avuto una ripresa sufficiente, così le donne hanno ancora un gran bisogno di aiuto.

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