“Sono interrogatori, ma assomigliano spesso a sfoghi, se non a sedute psicoanalitiche, dove i ruoli di omicida e pm sfumano in qualcosa di più «umano» e la pubblica accusa si accomoda e ascolta per avere spiegazioni in un delitto che appare inspiegabile.”
Come probabilmente avrete capito, la citazione da un articolo di giornale si riferisce al recente omicidio (previa tortura) di Luca Varani da parte di Marco Prato e Manuel Foffo. E’ una citazione integrale, per cui le “spiegazioni in” che sarebbero “spiegazioni su o spiegazioni di” non sono mia responsabilità. Ma è di quest’ultima che vorrei parlare un attimo.
Il termine responsabilità è, stando al vocabolario Treccani: “il fatto, la condizione e la situazione di essere responsabili” e deriva dal latino respòndere, cioè rispondere – in generale delle proprie azioni e delle loro conseguenze.
A sua volta, respòndere viene da un altro verbo, spòndere, che era usato nel diritto romano arcaico (e solo per i cittadini romani) per i cosiddetti “giuramenti promissori”: “Ti impegni a fare / a non fare questo?” “Spòndeo” – “Lo giuro solennemente.”
Non occorre essere filosofe/i per capire che l’assetto in cui si verbalizzano i concetti succitati è un contesto sociale. Sentirsi responsabili delle proprie azioni (esserlo non è in discussione) è possibile solo quando si sia consci di appartenere a una comunità umana (nel bene e nel male: “Sono un uomo: nulla che sia umano mi è estraneo”, Terenzio, Heautontimorumenos), da cui dipendiamo per la sopravvivenza e in cui le nostre azioni si danno. Tolte le poche cose che possiamo fare in totale solitudine, la comunità umana e l’ecosistema che la sostiene costituiscono lo scenario indispensabile per la realizzazione dei nostri desideri e ambizioni e per il raggiungimento delle nostre gratificazioni. La comunità umana, come gli esseri che la compongono, non è – e non può essere – “perfetta”, ma di sicuro è migliorabile: almeno, così pensavano, pensano e penseranno tutti gli individui coinvolti in movimenti per il cambiamento sociale, rivoluzioni e correnti di pensiero tese al mutamento dello status quo.
Ciò detto, che Marco Prato e Manuel Foffo siano responsabili di sevizie e omicidio nei confronti di un’altra persona non c’è dubbio. L’evidenza probatoria è inconfutabile, sono rei confessi e hanno spiegato le loro azioni con la volontà di provare “il piacere di uccidere” per sentirsi “superiori a tutto e a tutti”. Che si sentano responsabili, stante il tenore di queste dichiarazioni, appare assai improbabile. Avessero avuto il concetto di responsabilità in mente si sarebbero mossi, durante tutto l’arco delle loro vite, in modi differenti. Ma da almeno una trentina d’anni il concetto è di fatto assente nella cultura italiana (e ciò comprende politica, amministrazione pubblica, contenuti dei media, scuole, ambiti lavorativi, modalità relazionali). Prato, Foffo e la loro vittima Varani sono abbastanza giovani per essere nati e cresciuti in un contesto che esalta l’individualismo estremo, per cui ogni interesse è accentrato su di sé e si ignorano e trascurano interessi e problemi altrui: praticamente la definizione generale che il dizionario dà alla voce “solipsismo”.
L‘Italia attuale ha come cittadini parecchi milioni di individui convinti di essere il centro dell’universo, difesi a spada tratta dai loro genitori / parenti / amici – e da sedicenti giornalisti – quando fanno i bulli, molestano, stuprano o uccidono, tesi all’immediato godimento di qualsiasi desiderio senza la minima riflessione su cosa la realizzazione di quest’ultimo possa comportare per altre persone, legittimati da migliaia di messaggi quotidiani che dicono loro “non c’è futuro, c’è solo il presente in cui ti prendi quello che vuoi, subito, frega e non farti fregare, non c’è niente oltre a questo”.
Naturalmente poi entrano in gioco le nostre differenze individuali, per cui non tutti/e reagiamo allo stesso modo di fronte agli stessi stimoli, e l’influenza che esercitano le persone a noi più “vicine” (per legami di parentela o amicizia, o perché le ammiriamo ecc.), di modo che molte/i di noi sono in grado e hanno la precisa volontà di mettere in discussione gli stimoli che ricevono, ma i risultati di questo stato di cose sono visibili ogni giorno in cronaca: nepotismo politico-economico, corruzione, brogli, truffe, denaro pubblico che diventa privato, impiegati che timbrano in mutande e poi invece di andare al lavoro vanno a spasso: perché non dovrebbero mentre i loro superiori smistano mazzette con la velocità di un croupier?, suicidi di adolescenti “bullizzati”, violenze di ogni tipo contro qualsiasi individuo o gruppo percepito come marginalizzato / inferiore (anziani, malati, bambini, donne), omicidi. Ridurre il problema a una condizione psicotica di pochi, anche nei casi in cui le azioni sono effettivamente “carburate” da alcolici e droghe pesanti, è chiudere gli occhi di fronte alla realtà e distogliere lo sguardo non è un metodo che risolva qualcosa. Per esempio, andare in televisione a magnificare l’eccellenza di un figlio che ha appena massacrato un suo simile, minacciando di querele chiunque oserà dire il contrario, non aiuta.
Il giornalismo nostrano, che quando si definisce “d’indagine” misura le camicie dei premier e prende nota del colore dei calzini dei giudici, è perfettamente in accordo all’andazzo generale: egoismo santificato e “estetica”, immagine e lacrime di coccodrillo, sensazionalismo, ricerca spasmodica di qualcosa che giustifichi l’offensore qualsiasi sia il reato da costui commesso.

(Bambino viziato: “Uaaah! Perché devo pulire la mia stanza? Altri bambini hanno camere in disordine! A chi fa male? Pulirò più tardi!” Frigna…
Uomo inquinatore: “Uaaah! Perché devo pulire le mie emissioni? Altra gente produce emissioni tossiche! A chi fa male? Pulirò più tardi!” Frigna…)
Marco Prato, definito “Il bel ragazzo gay, 29 anni, pr di feste nel giro omosessuale che conta nella capitale.” o “Il bel pr”, manifesterebbe per esempio “disagio e angoscia”: “Famiglia borghese, laurea in Scienze politiche alla Luiss e un master di marketing a Parigi”. Patimenti unici, che sicuramente lo hanno spinto a torturare e uccidere. Quando io terminai le scuole medie chiesi di poter frequentare il liceo linguistico (all’epoca era privato) ma i miei genitori risposero che PER ME quei soldi non c’erano: era mio fratello che ne aveva bisogno per studiare e infatti non si è mai laureato… Risultato? Stranamente, non ho mai seviziato o assassinato nessuno e sono una formatrice alla nonviolenza.
La stampa ci informa, inoltre, che Prato “soffriva terribilmente per la sua condizione omosessuale, tanto da desiderare ardentemente di operarsi per diventare una donna. Un sogno mai realizzato perché osteggiato dalla famiglia.” Sono del tutto consapevole dei travagli affrontati dalle persone transessuali (la condizione non è intercambiabile con l’omosessualità, tra l’altro), ho solo alcune piccole perplessità: 1) Prato era maggiorenne e non necessitava di permessi dai familiari per intraprendere il percorso relativo al cambio di sesso, se era davvero questo che desiderava; 2) trovo difficoltoso immaginare uno che “soffre terribilmente” far di mestiere l’organizzatore di feste per gay ricchi, spararsi in due giorni 1.000 euro di cocaina insieme con l’amico e premeditare un omicidio “per provare il brivido”.
Poi abbiamo Manuel Foffo, 30 anni, studente di Giurisprudenza fuoricorso, attualmente impegnato in modo ossessivo a dichiarare la propria non-omosessualità agli inquirenti, nonostante il video che lo ritrae durante una sessione di sesso orale con Prato e “i giochi a tre fatti al decimo piano di via Iginio Giordani.” Secondo il suo avvocato difensore, nonché amico di famiglia, nelle sue deposizioni “Manuel ha delineato un rapporto molto doloroso, difficile, conflittuale con (il) padre.”
“Volevo uccidere mio padre, forse per questo ho combinato tutto questo, volevo vendicarmi di lui.”, è una delle frasi che Foffo ha detto e su cui si basa il giudizio suddetto. Ma quali atti paterni meritavano, secondo il figlio, vendetta e morte? Eccoli qua: “A 18 anni ha regalato a un altro il mio motorino che ho amato tanto. Poi volevo una Yaris, ma lui mi diceva che era poco resistente. Ho un forte risentimento verso di lui perché entrambi vogliamo avere ragione.” A me, più che dolore, sembrano le rimostranze di un marmocchio viziato.
Fra i miei venti e trent’anni mia madre ha dato via, pezzo dopo pezzo, tutto quel che avevo conservato della mia infanzia senza il mio consenso: libri, giocattoli, persino l’anello che era il regalo della prima comunione. “Tanto a te non serve.”, era il suo ritornello: dovete sapere che nel 1980 e nel 1983 erano nate le bambine del suo adorato figlio maschio che venivano, in virtù di tale adorazione, omaggiate un giorno sì e l’altro anche di brandelli della mia storia (l’anello andò invece a una cugina a cui i miei genitori dovevano fare un regalo, così risparmiarono fatica e soldi). Persino una dei miei gattini fu regalata, sempre senza il mio consenso, a una nipote troppo piccola per averne cura e come risultato quella creatura che io amavo finì sotto un’automobile un paio di settimane dopo. Quanto a chiedere qualcosa (non una Yaris, figuriamoci, l’automobile è stata comprata a mio fratello come “dote” per il suo matrimonio…) ho imparato in tenera età che la risposta era nel 99% dei casi NO con aggiunta colpevolizzazione, per cui ho smesso di chiedere molto presto. Sospetto che anche il mio rifiuto di essere allattata quando avevo cinque mesi avesse a che fare con il rigetto che percepivo provenire da mia madre.
Ciò che mio padre – e mia madre come vittima/carnefice – hanno fatto della mia famiglia d’origine è un po’ troppo lungo, violento e repellente per essere narrato qui, ma posso dire con cognizione di causa che un “forte risentimento” per entrambi da parte mia sarebbe pienamente giustificato. Tuttavia, non ho mai vagheggiato di ucciderli, ne’ di uccidere terzi per “vendicarmi” di loro. Non sono più buona di Manuel Foffo. Non ero più buona di lui alla sua età: ma l’epoca in cui sono stata giovane aveva un contesto culturale del tutto differente in cui esistevano spazi che mi hanno incoraggiata alla consapevolezza e quindi alla responsabilità, che hanno preso per mano il mio desiderio di un mondo migliore per tutti e quindi anche per me, che hanno incanalato e trasformato rabbia e angoscia nell’impegno politico e sociale.
Qualcuno dei sedicenti giornalisti summenzionati ha scritto che Prato e Foffo con il loro omicidio organizzato volevano “sfidare il male”. No, mi dispiace. Il “male” lo stanno sfidando altri esseri umani, uomini e donne, che non si arrendono di fronte all’ingiustizia, alla miseria, alla menzogna e alla violenza: ne conosco un bel po’ e sono, nel mio piccolo, una di loro. Maria G. Di Rienzo
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