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La notizia in sé – presente sulla stampa estera il 20 giugno u.s. – non ha niente di clamoroso o di speciale: si potrebbe riassumere come sessismo e aggressione sessuale normalizzati. Tuttavia, si presta a un minimo di riflessione.

Siamo a Brisbane, Eaton Hill Hotel, durante lo spettacolo finale del tour australiano del rapper YG (statunitense, 27enne, al secolo Keenon Daequan Ray Jackson). A un certo punto, lui e i suoi compari “musicisti” cominciano un coro diretto alle femmine presenti: “Mostrate loro (agli uomini) le tettine”.

YG prende di mira in special modo le ragazze che per vedere meglio lui e la sua band sono a cavalcioni sulle spalle di maschi. “Vedo che delle signore stanno su spalle altrui. Non sedete su quelle spalle se non mostrate loro le tette.”

Una lo fa. E il rapper le urla: “Baby, baby, baby, sembra che tu abbia punture di zanzara, è meglio se tiri giù quel culo (e cioè che scendi, perché le tue tette non sono abbastanza “belle”).” Il lancio simbolico di merda sulla fan che ha obbedito alla richiesta è salutato con ululati di gioia e risate dal pubblico.

A questo punto, un membro del suo personale di scena lo avvisa che ci sono minori presenti fra il pubblico. “Oh cazzo, siete tutte minorenni. – si lamenta YG dal suo microfono – Non posso scopare con voi tutte.”

Immagino che dovremmo prenderla sul ridere, vero? Questo stronzo misogino dall’ego pompato e i suoi sodali stavano solo scherzando. L’audience ha semplicemente colto il loro finissimo umorismo, accordandosi a esso. Il fatto che una marea di uomini non riescano a divertirsi se non degradando l’altra metà del genere umano è qualcosa che sperimentiamo ogni singolo dannato giorno, ci basta accendere il computer o la televisione, ci basta sfogliare un giornale o prendere l’autobus o andare al cinema o andare al lavoro. Molte donne tentano di ballare a questa musica: vogliamo essere lasciate in pace, vogliamo non essere escluse, vogliamo rispondere al persistente comando sociale che ci impone di essere gradevoli, piacevoli, “belle” (scopabili) ecc. e siamo persino in grado di fare salti mortali di logica restando immerse nella melma di insulti in cui ci invischiano: E’ stata una libera scelta – Mi sono divertita – So stare allo scherzo – Non sono mica una di quelle noiose bacchettone femministe che non si depilano e odiano gli uomini!

Sì tesoro. Hai pianto unicamente quando eri sola. Ti sei guardata allo specchio e ti sei odiata per la centomillesima volta. Hai cercato su internet medicine, esercizi, diete, informazioni su interventi di chirurgia plastica per “migliorare”… perché quelle “tettine” non sono tue, sono del primo uomo che passa e giudica e un deficiente qualsiasi può chiederti dal palco di compiere la “libera scelta” di mostrargliele.

Glielo devi. Lo devi a tutti i maschi. Stai seduta sulle loro spalle non solo durante i concerti, sai. Sono loro che lavorano duro per mantenerti e proteggerti, pur sapendo che sei solo una zoccola e che prima o poi li tradirai e dovranno anche fare la fatica di rimetterti in riga.

Lo so, te l’hanno ripetuto sino allo sfinimento. Non c’è quasi nient’altro di diverso che tu possa sentire. Questo è il mondo in cui vivi. Ma, sorella, è sul serio il mondo in cui vuoi vivere? Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “Cleaning Out My Closet” – “Facendo piazza pulita nel mio armadio”, di Angel Haze. Trad. Maria G. Di Rienzo. Il testo è molto esplicito nella descrizione di violenze sessuali. Se pensate possa disturbarvi, non leggete oltre.)

“Ora, questo potrebbe diventare un po’ personale, o persino molto. Si consiglia la supervisione dei genitori.

Quando avevo dieci anni, merda, credevo di poter volare. Sbattevo le braccia e tentavo di incontrarmi con il cielo.

E nella mia mente mi figuravo di parlare con dio e poi di tagliargli il fottuto pugno e di picchiarlo con il mio.

Ma questa è solo una porzione della guerra nella mia testa, perciò intendo portare quegli stronzi indietro, attraverso il vortice del tempo.

Guardatemi a sette anni ai piedi delle scale. Vi giuro solennemente che questa è la verità, non c’è niente di inventato.

Vedete ero piccola, una marmocchia, e lui non era il primo a provarci ma l’ha fatto e ci è riuscito.

Mi ha portata in cantina e dopo aver spento le luci lo ha tirato fuori e mi ha sodomizzata, ha forzato il suo affare nelle mie viscere.

Vedete, era strano, perché mi sembrò di perdere il senno. E poi accadde di nuovo, e di nuovo, come se dovesse accadere milioni di volte.

E giuro di averlo voluto dire, ma sapevo che non mi avrebbero creduto.

Ma questo è niente, perché lui disse ad un amico quel che faceva e ci si misero insieme, io diventai un buffet per due.

E questo accadde in una casa dove tutti sapevano e non fecero un beato cazzo ma diedero la colpa alla giovinezza.

Mi dispiace, mamma, ma io in realtà davo la colpa a te, anche se persino tu allora non sapevi cosa fare.

E la cosa era ormai così usuale che lui voleva variazioni. Io ero sempre più terrorizzata e con il cuore che andava a mille.

Una notte venne a casa e io ero sveglia nel mio letto. Lui si arrampicò su di me e a forza si mise fra le mie gambe.

Mi disse: “Ehi, ho visto che ti piacciono i leccalecca, perciò metti la bocca sul mio affare e manda giù.”

Io ero confusa e avevo paura e feci quello che mi diceva. Non sapevo che effetto aveva sulla mia testa.

Immaginate di essere una bambina di sette anni con dello sperma sulla biancheria intima. E so che è schifoso, ma spesso sanguinavo dal didietro.

Adesso lasciate che la sensazione vi risuoni dentro. Io ho pensato di farla finita, ho pensato di uccidere questi tizi.

Volevo prendere un maledetto mattone e mandare i loro denti a conficcarsi nel fegato.

Volevo fare a pezzi l’intero fottuto mondo e bruciare quel che ne avanzava.

Volevo strapparmi il cuore dal petto e calpestarlo.

Poi sono cresciuta e non ero più alla portata di questi uomini. Ma avevo paura di me stessa, non avevo amore per me stessa.

Ho tentato di uccidermi, ho tentato di nascondermi, ho tentato di fuggire da me stessa. Mi sono affamata sin quasi a morire, ho rovinato la mia salute. Non volevo piacere a nessun altro.

Ma c’è una dannata ragione dietro ad ogni cicatrice. Io non sono più la stessa, voglio dire che sono sana di mente e quando non lo sono non è alla stessa maniera di prima.

Ho dovuto maneggiare questa merda, ho dovuto guardare la verità. Per capire, per crescere, devi vedere le tue radici. Io ho tagliato quelle morte, mi sono data dell’orgoglio.

E adesso sono in piedi, vivo, respiro. Guardatemi adesso, ho attraversato tutto. Vi ho fatto sembrare dei clown, perché io sono grande, non me frega nemmeno di odiarvi, tizi, guardate quel che sono ora.

Ho dovuto aprire le mie ferite, ho dovuto farle sanguinare e poi arginarle. Grazie a chi è rimasto con me mentre ripulivo il mio armadio.”

Angel Haze, l’autrice di questo pezzo rap, ha 21 anni ed il suo vero nome è Raykeea Wilson. Immagino quanto sia stato faticoso per lei scriverlo, perché solo tradurlo in parte mi ha lasciata in un bagno di sudore nervoso. Quel che segue è quanto Angel ha detto alla stampa sulle motivazioni che stanno dietro a questa composizione.

Cleaning Out My Closet è una delle canzoni più oneste che io abbia mai scritto e proprio perciò ero estremamente agitata nel renderla pubblica. (E’ uscita il 24 ottobre, ndt.) Sono ansiosa, perché non so quale sarà il responso. Non so quanto potrà sembrare folle. Ho letteralmente denudato la mia anima. E’ un grande passo per me, e spero aiuti altre persone. Il mio scopo ultimo era lasciar andare tutto, liberarmi delle cose mi hanno tormentata. So che è importante essere onesti, come musicisti, rispetto a quel che si è, perché questo mondo è pieno di ragazzine perdute che passano quel che ho passato io e che finiscono per suicidarsi o drogarsi. Non sanno di essere forti abbastanza per attraversarlo, nessuno glielo dice, non hanno esempi. Troppe persone hanno timore di dire: Questo è ciò che mi è successo e guarda cosa sono riuscita a farne.

Ha senso che Angel usi la sua terrificante esperienza come un gradino dal quale cominciare a salire: farlo ridimensiona l’incubo, lo depotenzia, e ti permette di guardare a te stessa senza vergogna. E’ bello che pensi al suo racconto come ad una mano tesa verso altre ragazze che subiscono violenza, ed è segno di guarigione il suo dichiarare agli stupratori che non perde più nemmeno tempo ad odiarli. L’unica cosa che aggiungerei, per evitare il rischio di “normalizzare” l’abuso tramite il messaggio che è possibile sopravvivere ad esso, è l’invito a denunciare le violenze, a non tacerle comunque, anche quando sai – o pensi di sapere – “che non mi avrebbero creduto”. Naturalmente è difficile figurarsi una bambina di 7 o 10 anni che se ne va da sola dalla polizia (anche se ci sono quelle che lo hanno fatto e lo fanno), ma sarebbe importante ribadire, ad esempio: se pensi che non ti credano in famiglia, perché sono confortevolmente ciechi o addirittura complici, parlane con altri adulti, insegnanti, parenti, conoscenti, continua a parlarne. Non hai nessuna colpa di quel che ti sta accadendo, ma quel che ti sta accadendo cesserà solo se non sarà coperto dal silenzio. Maria G. Di Rienzo

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(di Surekha Kadapa-Bose per Women’s Feature Service – http://www.wfsnews.org

17.8.2011. Trad. Maria G. Di Rienzo. Surekha Kadapa-Bose è una giornalista indipendente di Mumbai, India.)

 

Una donna gira un film sulle sopravvissute al traffico di esseri umani in Nepal che ora  cercano attivamente i trafficanti per assicurarli alla giustizia. Una donna crea gioielli con le pallottole esplose. Queste ed altre hanno ricevuto il riconoscimento di “Freedom to Create” un’organizzazione che si concentra sul potere dell’arte di guarire e cambiare.

Quando la giornalista indipendente australiana Wendy Champagne si imbatté in una sedicenne sfuggita alla prostituzione forzata, il suo percorso per creare il film “Bas! Beyond Red Light” cominciò. Il film narra le storie di giovani donne nepalesi che sono scappate dai bordelli e che stanno lottando per fermare il traffico di donne nepalesi in India. Champagne è stata ispirata da Geeta, una ragazza identificata solo con il primo nome, che ha mostrato una straordinaria resistenza. “La maggior parte delle sopravvissute preferisce dimenticare ciò di cui ha fatto esperienza.”, dice Wendy Champagne, “Geeta era diversa. Dopo che fu soccorsa e rimandata a Kathmandu la sua determinazione era portare chi l’aveva trafficata in tribunale.”

Geeta ha vissuto per un anno in un rifugio gestito da un’ong chiamata “Maiti Nepal”. Dopo aver lasciato il rifugio, si è messa a cercare i trafficanti. “Dopo un anno ne ha rintracciato uno ed ha subito informato la polizia.”, racconta ancora Champagne, “Più tardi è riuscita a rintracciare gli altri due ed ha fatto il giro dei tribunali per assicurarli alla giustizia. Infine è tornata a Mumbai, ha trovato lavoro presso la Rescue Foundation, un’organizzazione che soccorre le ragazze vendute ai bordelli, ed ha rintracciato il tenutario di quello in cui era stata portata, e che l’aveva sfruttata crudelmente.”

Il film ha fatto parte dell’evento multimediale che ha incluso pellicole, video, musica, dipinti, e che si è tenuto dal 19 maggio al 2 giugno u.s. qui a Mumbai, organizzato da “Freedom to Create”, organizzazione con base a Singapore.

I travagli di Geeta ebbero inizio a Kathmandu, Nepal, quando aveva 13 anni e lavorava presso una scuola cattolica prendendosi cura dei bambini piccoli. Qui conobbe due uomini amichevoli che le presentarono le loro “sorelle”. Una di esse chiese aiuto a Geeta per la cura dei suoi due bambini e quando ebbe la ragazzina in casa le somministrò della droga. Qualche giorno più tardi Geeta riprese piena coscienza a Nuova Delhi, dove venne poi venduta ad un bordello di Mumbai. Ci sarebbero voluti due anni prima che fosse soccorsa. Per completare il film Wendy Champagne ci ha messo più di quattro anni. E’ ora usato per istruire, informare e raccogliere fondi a beneficio delle sopravvissute al traffico di esseri umani. Champagne dice che il più grosso ostacolo sono stati i trafficanti e i proprietari di bordelli nei distretti a luce rossa, che proprio non gradivano la sua videocamera. “Era pericoloso. A volte abbiamo dovuto chiedere aiuto ai politici locali. Ma il mio interesse come regista era che le ragazze potessero raccontare le loro storie, piuttosto che illustrare la sordida vita dei bordelli.”

Il lavoro di Laura Boushnak, fotografa palestinese nata in Kuwait, ha pure fatto parte dell’esposizione. Le sue istantanee ritraggono donne egiziane che seguono corsi di alfabetizzazione nei sobborghi de Il Cairo. Laura ha lavorato con un’ong ed il beneplacito del Ministero per l’Istruzione per disegnare il programma diretto a donne fra i 15 e i 45 anni.

“L’Egitto è fra i numerosi paesi che hanno firmato gli Obiettivi del Millennio delle Nazioni Unite.”, dice la fotografa, riferendosi alle promesse globali che le nazioni hanno fatto per migliorare lo standard di vita in alcuni dei paesi più poveri del mondo, “Uno degli obiettivi è lo sradicamento dell’analfabetismo.” Laura Boushnak pensava che le partecipanti avrebbero mirato ad un’istruzione ancora migliore: ha scoperto invece che le donne volevano aiuto dall’alfabetizzazione per le difficoltà delle loro vite quotidiane. “Come la donna che si era persa nel labirinto dei trasporti pubblici e voleva essere in grado di leggere i cartelli stradali. O la donna che voleva imparare a contare il danaro per non essere più imbrogliata al mercato. E un’altra voleva leggere le prescrizioni del medico, per essere sicura di dare le medicine giuste a suo figlio.” Laura Boushnak dice che queste donne cresceranno i loro figli in modo migliore dopo aver partecipato ai corsi: “Tutte erano d’accordo su una cosa, e cioè che i loro bambini sarebbero andati regolarmente a scuola.” La fotografa non ha mai incontrato gli uomini che condividono l’esistenza di queste donne, ma ne ha percepito tutto il potere: “Prima che io potessi scattare una foto, la maggior parte delle donne doveva chiedere il permesso ad un membro maschio della famiglia, il marito o il padre. Alcuni membri delle loro famiglie le
hanno estraniate, perché vedono la loro alfabetizzazione come una minaccia.”

Un’altra fotografa presente all’evento era la giornalista statunitense Lynsey Addario. Non c’è nulla che possa preparare chi guarda le sue immagini, allo stesso tempo commoventi e spaventose, di donne che si sono date fuoco per sfuggire alle loro terribili esistenze. Rilasciata da una prigione libica nel marzo scorso, assieme a tre colleghi del New York Times, Addario ha vinto il Premio Pulitzer per il suo lavoro in Afghanistan ed altri paesi dilaniati dalla guerra: “Centinaia e centinaia di donne in Afghanistan si danno fuoco nel tentativo di sfuggire a mariti violenti o agli abusi quotidiani.”, dice Addario, “Numerose giovani donne non vedono altra via d’uscita da ciò che subiscono.” La giornalista ha anche incontrato e ritratto i medici ed personale sanitario dei centri per ustionati, che lavorano intensamente per salvare queste donne.

Altra donna sotto le luci dei riflettori è stata Salomè, una rapper iraniana. Salomè non vuole la compassione di nessuno. Nel catalogo di “Freedom to Create” scrive: “Non intendo lamentarmi su quanto è dura la vita per una rapper in Iran. Voglio essere conosciuta per le mie canzoni.” Canzoni che parlano di ingiustizia sociale, guerra, potere femminile e pace.

E poi c’era Lovetta Conto, una liberiana che è cresciuta in un campo profughi del Ghana. Lovetta ha dovuto lasciare la Liberia dopo aver perso l’intera famiglia nella lunga guerra civile del paese. Questa donna trasforma i proiettili e le schegge di bombe in gioielli. Fonde il metallo e sulle collane, gli orecchini, i bracciali che crea incide una semplice iscrizione: VITA.

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