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breonna

Ieri Breonna Taylor avrebbe compiuto 27 anni. Il 13 marzo scorso, mentre dormiva, un gruppo di poliziotti in abiti civili le ha sfondato la porta di casa con un ariete, è entrato e ha aperto il fuoco: almeno otto colpi sono stati mortali per la giovane donna.

I poliziotti hanno detto che cercavano due spacciatori di droga, i quali però erano soliti “lavorare” nei pressi di una casa situata a più di dieci miglia da quella di Breonna – e uno dei due si trovava già in carcere al momento dell’irruzione.

Il ragazzo di Breonna, giacché gli agenti non si sono identificati, li ha presi per delinquenti e ha ferito la gamba di uno di loro: è stato accusato di tentato omicidio (l’accusa è stata lasciata cadere all’inizio di questo mese) ma non un singolo poliziotto è sotto accusa per l’assassinio di Breonna.

Solo in questi giorni, dopo due mesi, il governatore del Kentucky – il fatto è accaduto a Louisville – ha chiesto sia aperta un’inchiesta.

Quello che segue è un brano di “Unanswered Questions from Black Women Protestors Against Police Violence” – “Domande senza risposta fatte dalle dimostranti nere contro la violenza poliziesca”, che Shannon Malone Gonzalez ha scritto per Ms. Magazine il 4 giugno scorso.

Quanti altri? (Ndt: è una domanda ricorrente scritta sui cartelli)

Uno o un migliaio

prima che vi fermaste

Due o due migliaia

prima che guardaste

Tre o tre migliaia

prima che chiedeste

Quattro o quattro migliaia

prima che ascoltaste

Cinque o cinque migliaia

prima che ve ne importasse

Sei o sei migliaia

prima che ne parlaste pubblicamente

Sette o sette migliaia

prima che camminaste con noi

Otto o otto migliaia

prima che capiste

per cosa stavamo davvero marciando

Nove o nove migliaia

prima che comprendeste

che neppure voi eravate liberi

Quante migliaia di noi devono morire

prima del vostro risveglio

Maria G. Di Rienzo

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breathing

Una confessione. Può sembrare una vanteria, ma non lo è – davvero la morte non mi spaventa. Sono terrorizzata, invece, da un unico scenario relativo al “come”: il soffocamento. Sarà perché in quel modo, almeno una volta, sono già “morta” (strozzata dal cordone ombelicale). Sarà perché al respiro è associato il mio elemento preferito, l’aria (sono una Gemelli). Sarà perché simbolicamente per me il respiro è musica e senso di appartenenza e misura di sollievo e significato. “Nessuno tesse lodi al respiro, ma oh!, esserne privi!”, fa dire lo scrittore di sf Roger Zelazny a Yama, uno dei personaggi di Signore della Luce (1967).

L’assassinio di George Floyd ha quindi per me i connotati dell’incubo a più di un livello. C’è l’orrore dell’atto in sé, quel ginocchio premuto sul collo, quelle parole – Non riesco a respirare – cadute nel vuoto della morte. C’è la tragica, tagliente consapevolezza che per un passo avanti sulla strada della civiltà, molti esseri umani sono più che volonterosi nel farne due indietro.

C’è la paura di essere definitivamente in ritardo: posso accettare di non vedere di persona la sconfitta definitiva delle fobie su cui si regge il dominio (razzismo, sessismo, omofobia, svergognamenti dei “non allineati” di qualsiasi tipo), ma mi angoscia l’idea che non la sperimentino mai le generazioni più giovani.

Derek Chauvin, l’ex poliziotto di Minneapolis che si vede nel video schiacciare il collo di Floyd con il ginocchio, è stato arrestato con l’accusa di omicidio colposo.

Un’ora fa, un ragazzo di 19 anni è stato ucciso (i dettagli non sono ancora chiari) a Detroit da proiettili sparati da un Suv sui dimostranti. Stava chiedendo giustizia per George Floyd, per se stesso e per noi tutti/e.

Quando impareremo a respirare insieme?

Maria G. Di Rienzo

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