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Posts Tagged ‘profughi ambientali’

want you to panic

L’installazione che vedete sopra è dell’artista Sophie Thomas. Su ambo i pannelli campeggia in rosso la frase di Greta Thunberg “Voglio che andiate in panico” e sullo sfondo si intrecciano i commenti sul cambiamento climatico di “scettici” famosi.

“Facendo le mie ricerche per creare il pezzo – ha detto Sophie alla stampa – ho esaminato alcune delle voci che durante il passato decennio abbiamo udito negare il cambiamento climatico in modo assai chiassoso: sono molto maschili.”

Attualmente l’opera fa parte della mostra organizzata a Londra presso Protein Studios dal gruppo ambientalista “Do The Green Thing” (“Fai la cosa verde”) ed è costruita sulla loro convinzione che “il cambiamento climatico sia una crisi creata dall’uomo in ogni senso, con la cultura dominata dagli uomini che alimenta i comportamenti dannosi mentre donne e bambine ne pagano sproporzionatamente il prezzo”.

“Il cambiamento climatico è sessista: colpisce molto di più le donne e le bambine proprio perché esse sono già marginalizzate nelle nostre società. – ha spiegato Ashley Johnson, membro di “Do The Green Thing” – Ci sono conseguenze di genere, ci sono cause di genere e ci sono soluzioni di genere. Volevamo esplorare questa idea e offrire all’arte una possibilità di rispondervi.”

Perché è presto detto:

* Le Nazioni Unite hanno calcolato che l’80% degli sfollati durante disastri climatici sono donne, tuttavia le donne sono una minoranza in ogni commissione del maggior gruppo decisionale NU sul clima, la Framework Convention on Climate Change. “Le donne spesso non sono affatto coinvolte nelle decisioni sulle risposte al cambiamento climatico, – ha detto alla BBC la scienziata ambientalista Diana Liverman – così il denaro relativo arriva agli uomini piuttosto che alle donne.”

E in effetti le iniziative guidate dalle donne su base comunitaria di frequente non ottengono finanziamenti perché i loro progetti sono considerati non abbastanza “grandi”: nonostante le piccole coltivatrici abbiano dimostrato che quando è garantito loro l’accesso allo stesso credito e alla stessa attrezzatura forniti agli uomini sono in grado di coltivare il 20/30% in più di cibo sullo stesso ammontare di terreno e di tagliare le emissioni di due milioni di tonnellate entro il 2050.

* Le donne muoiono in disastri “naturali” 14 volte di più degli uomini per una serie di cause legate al sessismo: ad esempio non ricevono gli avvisi e gli allarmi, giacché le informazioni sono sovente trasmesse da uomini ad altri uomini in spazi pubblici, mentre le donne sono a casa (dove la “cultura” e le “tradizioni” le vogliono), oppure non hanno imparato a nuotare non per propria volontà, ma perché sarebbe stato indecoroso per una femmina il farlo.

* Mano a mano che siccità e stagioni secche aumentano e fonti di acqua potabile scompaiono o si esauriscono, sono le donne delle comunità rurali che sono costrette a percorrere lunghe distanze per fornire acqua alle loro famiglie, mettendo a rischio la loro incolumità e la loro salute.

* Poiché le donne sono anche la maggioranza dei poveri al mondo, è per esse più difficile riprendersi dopo un disastro: sono quelle che hanno più possibilità di non riavere i propri impieghi, sono sovraccariche di responsabilità domestiche e la situazione le rende maggiormente vulnerabili a forme di schiavitù sessuale e sfruttamento.

“In un mondo patriarcale – dicono le donne di “Do The Green Thing” – il cambiamento climatico semplicemente ingigantisce le diseguaglianze esistenti nella nostra società.”

Maria G. Di Rienzo

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greta

Per quando Greta Thunberg compirà 45 anni, i profughi ambientali saranno decine di milioni: il cambiamento climatico avrà distrutto la loro possibilità di continuare a vivere sulla loro terra con temperature estreme, raccolti avvizziti, incendi di foreste ecc. E’ la sua generazione che porterà l’intero fardello creato dall’avidità, dal disinteresse e dall’ignoranza di quelle precedenti.

Ogni cosa che Greta ha detto pubblicamente finora a proposito del cambiamento climatico è scientificamente corretta: chi non credesse a me, può chiederlo a due eminenti scienziati finlandesi, Christian Breyer – docente di Economia solare all’Università di Tecnologia di Lappeenranta e Markku Ollikainen – docente di Ambiente e Risorse economiche all’Università di Helsinki, che hanno esaminato punto per punto il suo discorso del 21 febbraio 2019 a Bruxelles trovandolo del tutto attendibile, o a qualcuno degli oltre 25.000 scienziati tedeschi, svizzeri e austriaci che hanno aderito a Friday for Future. (La data del prossimo venerdì di sciopero è il 12 aprile.)

Le motivazioni di Greta e degli/delle studenti che le condividono sono semplici e cristalline:

Agli scolari si chiede di frequentare la scuola. Ma con il peggioramento della distruzione climatica questo scopo dell’andare a scuola comincia a non avere senso.

Perché studiare per il futuro, se il futuro potrebbe non esserci?

Perché mettere tanto impegno nel diventare istruiti, quando i nostri governi non ascoltano chi è istruito?

Intelligente, preparata, resistente, determinata, Greta Thunberg ha espresso le proprie preoccupazioni in modo così efficace da schiudere le voci dei suoi coetanei (e non solo) e da motivarne all’impegno ecologista, nel primo Friday for Future del 15 marzo scorso, più di un milione e seicentomila in 125 diversi paesi.

Il contesto sono le azioni che questa ragazza ha intrapreso e le ricadute delle stesse – e nessuno dei suoi detrattori è in grado di demolire le premesse scientifiche che stanno alla base di dette azioni. Perciò, continuano ad aggredire la sua persona (le sue trecce, il suo viso, la sua età, la sindrome di Asperger, i suoi genitori) e a prodursi in battute squallide del tipo “metterla sotto con la macchina”: uno scenario patetico in cui perfette/i ignoranti sbavano per un posto sotto i riflettori sgomitando la figura di Greta, che probabilmente a loro parere sta ricevendo troppa luce.

Visto lo stato del pianeta Terra, le tre cose che noi “vecchi” possiamo e dobbiamo dire, a questa 16enne come alle sue simili in tutto il mondo, giovani attiviste meno note ma non meno capaci o ostinate, sono: Scusa, grazie e sono al tuo fianco.

Una quarta è facoltativa ma personalmente, oggi, sento il bisogno di dirla: Felice Equinozio di Primavera, ti giuro che continuerò a fare del mio meglio perché la tua generazione e quelle future godano di tutte le primavere a venire.

Maria G. Di Rienzo

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ursula

“Il mio nome è Ursula Rakova. Vivo in Papua Nuova Guinea, ma sono nata nelle Isole Carteret nel Pacifico del sudovest. Le anziane e gli anziani e la mia intera comunità mi hanno affidato questo grande compito, dire al mondo cosa sta accadendo nella mia isola e come il cambiamento climatico sta distruggendo le nostre vite. Il mio lavoro comprende l’organizzare la mia gente e spostarla dall’isola compromessa alla terraferma, dove dobbiamo reinsediarci su terreno che sia sicuro in ogni senso. Siamo costretti ad abbandonare la nostra isola, la nostra antica casa, per la provincia di Bougainville in Papua Nuova Guinea, dove dobbiamo cominciare nuove vite e trovare mezzi sostenibili per produrre il nostro cibo e sopravvivere.

Io voglio assicurarmi che il mio popolo abbia vita futura per le generazioni che verranno. E voglio dire a chi non crede che il cambiamento climatico stia accadendo: se avete cuore a sufficienza per sapere di essere fatti di carne e sangue, cominciate a pensare a noi sull’isola. Quella che per voi è una scelta relativa allo stile di vita, per noi è una questione di vita o morte. Dovreste mettervi nei nostri panni, e magari fare una visita alle nostre isole. Vi invitiamo a venire a vedere con i vostri occhi.” Ursula Rakova – trad. Maria G. Di Rienzo

(Ursula – nell’immagine sopra – è la direttrice dell’ong “Tulele Peisa”, che significa “Navigare le onde da noi stessi”. Nel 2014, il suo lavoro di reinsediamento degli abitanti delle Isole Carteret, alcuni dei primi rifugiati ambientali al mondo, è stato premiato dalle Nazioni Unite con l’Equator Prize. Sulle isole, a causa dell’innalzamento del livello delle acque, la terra coltivabile è scomparsa, le zanzare degli acquitrini si sono moltiplicate esponenzialmente diffondendo la malaria, e così via. Le iniziative di successo che Ursula continua a organizzare per l’autonomia economica delle donne sono state presentate in numerosi incontri e convegni internazionali.)

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(“Dear Matafele Peinam”, di Kathy Jetnil-Kijiner. Kathy, 26enne poeta e attivista ambientalista, ha recitato questa sua poesia nel settembre 2014 come intervento al Summit sul Clima tenutosi a New York. Sua figlia Matafele, che ne è la protagonista, aveva allora sette mesi. Kathy vive nelle Isole Marshall, minuscola nazione-arcipelago del Pacifico che comprende atolli corallini. Dal 1946 al 1958 il suo paese fu teatro di 67 test nucleari statunitensi, alla fine dei quali le Isole Marshall erano il paese più contaminato da radiazioni che esistesse al mondo. Oggi è uno dei paesi maggiormente minacciati dal cambiamento climatico e soffre di continue inondazioni. “La mia poesia – dice Kathy – ha lo scopo di suscitare consapevolezza su questioni e minacce che la mia gente affronta.”)

kathy e matafele

Cara Matafele Peinam,

tu sei un’alba di sette mesi fatta di sorrisi appiccicosi.

Sei calva come un uovo, calva come il Buddha.

Sei cosce di tuono e urla di fulmine.

Così esaltata dalle banane, dagli abbracci e

dalle nostre passeggiate mattutine oltre la laguna,

quella lucida, sonnecchiante laguna che ozia contro il sole.

Alcuni uomini dicono che un giorno

la laguna ti divorerà.

Dicono che rosicchierà la spiaggia,

masticherà le radici dei tuoi alberi del pane

inghiottirà in fila le tue dighe marittime

e sgranocchierà le ossa frantumate della tua isola.

Dicono che tu, tua figlia

e pure tua nipote,

vagherete sradicate

con solo un passaporto da chiamare “casa”.

Cara Matafele Peinam,

non piangere.

La mamma ti promette

che nessuno verrà a divorarti.

Nessuna avida compagnia grande come una balena

ad imbrogliare attraverso mari politici

nessun bullismo stagnante di affari con la morale guasta

nessuna cieca burocrazia spingerà

questa madre oceano oltre l’orlo.

Nessuno annegherà, piccola.

Nessuno se ne andrà.

Nessuno perderà

la propria terra natia.

Nessuno diventerà

un rifugiato del cambiamento climatico.

O forse dovrei dire

nessun altro

agli isolani sui carretti di Papua Nuova Guinea

e agli isolani delle piante di taro delle Fiji.

Prendo questo momento

per scusarmi con te,

stiamo tracciando una linea qui

perché, piccola, noi abbiamo intenzione di lottare:

la tua mamma, papà,

Bubu, Jimma, il tuo paese e anche il Presidente.

Lotteremo tutti.

E sebbene ci siano quelli che

nascosti dietro titoli di platino

fingono che noi non esistiamo

che le Isole Marshall

Tuvalu

Kiribati

Maldive

e il tifone Haiyan nelle Filippine

e le inondazioni in Pakistan, Algeria e Colombia

e tutti gli uragani, terremoti e maremoti

non esistano

pure

ci sono coloro

che ci vedono.

Mani che si tendono all’esterno

pugni che si alzano

striscioni che si srotolano

megafoni che rimbombano

e noi siamo

le canoe che bloccano le navi del carbone

noi siamo

il fulgore dei villaggi solari

noi siamo

noi siamo

noi siamo

il ricco pulito terreno del passato dell’agricoltore

petizioni che fioriscono da punte di dita adolescenti

famiglie in bicicletta, che riciclano, riusano

ingegneri che sognano, disegnano, costruiscono

artisti che dipingono, danzano, scrivono.

Noi stiamo diffondendo il messaggio

e ci sono migliaia di persone sulle strade

che marciano reggendo cartelli

mano nella mano

cantando per il cambiamento ORA.

Stanno marciando per te, piccola,

stanno marciando per noi.

Perché noi meritiamo di più della mera

sopravvivenza.

Meritiamo

di prosperare.

Cara Matafele Peinam,

i tuoi occhi sono gravati

dal peso del sonno

perciò chiudili pure, piccola

e dormi in pace

perché noi non ti deluderemo.

Vedrai.

kathy conferenza clima

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Durante gli anni ’80, un’organizzazione non governativa implementò un progetto per provvedere acqua corrente a diversi villaggi messicani. L’organizzazione fornì le pompe ed addestrò i residenti locali all’uso ed alla manutenzione delle stesse. Un anno più tardi, una squadra andò a verificare lo stato dell’arte del progetto: la maggioranza delle pompe non funzionavano. Come mai? L’ong si era preoccupata di addestrare solo gli uomini, ma nei villaggi erano le donne ad essere responsabili per l’acqua. I tempi sono cambiati, eppure il genere resta largamente non discusso o non previsto nel discorso sull’acqua. Anche se ormai si riconosce che le donne sono le principali provveditrici d’acqua a livello domestico, la prospettiva in cui sono collocate nel discorso è quella delle vittime o dei membri di gruppi vulnerabili, invece di quella reale: a causa delle ineguaglianze di genere le donne sono le più colpite dalle crisi relative all’acqua o ai cambiamenti climatici, ed allo stesso tempo sono le più attive nel rispondervi e nell’operare cambiamenti. Lasciate che vi racconti “tre storie d’acqua”.

Veronica Nzoki, kenyota, è la presidente dell’Associazione utenti acqua di Endui. Il gruppo l’ha creato assieme ad altre donne per ottenere dal governo che l’acqua sia portata più vicina alle case e che la sua qualità sia migliorata. Veronica risiede a Endui, nel Kenya orientale, da più di cinquant’anni: “Ricordo bene come il ciclo dell’acqua fluiva quando ero bambina. Coltivavamo abbastanza e conservavamo abbastanza acqua da rispondere agevolmente alle occasionali siccità. Ma questo non è più possibile. Nelle ultime due stagioni i terreni non hanno risposto alla coltivazione ed il bestiame è morto di fame. Per la prima volta da quando è stata costruita, e cioè dal governo coloniale più di mezzo secolo fa, nel 2009 la diga Kiiya si è completamente prosciugata. Noi donne ci muoviamo verso la sorgente più vicina già alle sei del mattino. Stiamo in coda per ore ed ore. Quando abbiamo raccolto l’acqua e ci avviamo a tornare a casa è già passato mezzogiorno. Questo ci toglie ogni energia. Quelle di noi che avevano piccole attività commerciali hanno dovuto abbandonarle per provvedere l’acqua alle proprie famiglie.”

Ayibakuro Warder, madre di cinque bambini, vive nella regione del Delta del Niger. Di mestiere fa l’impiegata comunale, ma resta coinvolta nella pesca e nell’agricoltura che sono le attività principali della sua famiglia. E’ riconosciuta come leader non solo dalle donne, con cui condivide l’attivismo, ma dall’intero suo clan. Ayibakuro, come Veronica, ricorda tempi diversi: “Quando ero bambina i miei genitori ottenevano grandi raccolti e anche la pesca era proficua. L’estensione dei campi di cassava allora, per fare un esempio, non è neppure paragonabile a quella odierna. Le nostre sorgenti, i nostri laghi, i nostri ruscelli, sono stati uccisi dai continui sversamenti di petrolio. Qui nessuno ha dubbi: i raccolti più scarsi, i problemi di salute che aumentano soprattutto fra i bimbi, li dobbiamo all’estrazione del petrolio. Senza quasi più risorse economiche diventa difficile cercare aiuto medico. Troppe donne sono morte di petrolio.

Nello sversamento del 2007 le donne di Ikarma persero tutta la cassava che avevano messo a mollo nel fiume. Il petrolio distrusse anche le reti da pesca e i pesci. Allora guidai una manifestazione di donne e andammo a protestare davanti alla base logistica della Shell a Kolocreek. Ma non importa quali giustificazioni tirino fuori: che parlino di sabotaggi o di guasti, la Shell non ha mai ritenuto giusto compensare le proprie vittime. Invece, manda il suo personale militare ad intimidire le comunità affinché non parlino pubblicamente delle loro lamentele.”

Rasheda Begum, del Bangladesh, è una profuga ambientale: “Avevo una casa a mezzo chilometro dalla spiaggia, a Khudiar Tek sull’isola Kutubdia. La mia casa fu spazzata via da un ciclone nel 1991. Allora mi sono costruita una capanna tre chilometri più in là. Come le mie vicine, ero devastata da un terrore inesplicabile, quello del fuggire verso una destinazione ignota. Credo che questa paura derivasse dal fatto che, a differenza degli uomini, i nostri movimenti come donne sono sempre stati ristretti. Nel 2007 abbiamo lasciato l’isola e ci siamo trasferiti in un ghetto urbano, alla periferia di una cittadella turistica. Il posto non ha nessun servizio per chi non è un turista, come situazione è molto stressante. Mi sto organizzando con altre donne, ma ogni giorno devo pensare a come dar da mangiare alla mia famiglia. Lavoro a giornata, nel trattamento del pesce secco: è un impiego stagionale che si svolge in condizioni igieniche disastrose. E sono costantemente in ansia per le mie tre figlie più grandi, perché non ci sono leggi che proteggano i poveri, specialmente i rifugiati ambientali dei ghetti.” Maria G. Di Rienzo

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