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Posts Tagged ‘olocausto’

Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche entrarono ad Auschwitz. Trovarono alcune migliaia di sopravvissuti in condizioni allucinanti, centinaia di migliaia di abiti ammucchiati e diverse tonnellate di capelli umani.

In poco più di quattro anni e mezzo dalla sua entrata in funzione, Auschwitz uccise un milione e centomila persone: circa un milione erano ebrei, 75.000 erano civili polacchi, 15.000 prigionieri di guerra russi, 25.000 rom e sinti e poi un numero imprecisato di omosessuali e prigionieri politici e “devianti” di ogni tipo. Morirono nelle camere a gas, di fame, di lavoro coatto e di esperimenti medici.

In occasione dell’anniversario, l’organizzazione ebraica Centropa ha intervistato quest’anno 1.200 anziani nell’Europa centrale e dell’est: le tre brevi storie che seguono provengono da questo lavoro, riportato da BBC News.

anuta

Estera Sava: “Questa è mia sorella, Anuta Martinet” – Romania.

“Il sogno di mia sorella era sempre stato diventare una dottoressa. Dopo essersi diplomata alle superiori con il massimo dei voti si trasferì a Iasi, per passare l’esame di ammissione alla Scuola di Medicina. Ma a Iasi erano già presenti i movimenti antisemitici. Le dissero “Tu jidanii (giudea) vattene a casa. Non abbiamo bisogno di medici ebrei!”

Allora decise di studiare all’estero e andò a Padova, in Italia. Nel giugno 1939 diede gli esami e di nuovo li passò con il massimo dei voti! Però disse a nostro padre: “Non intendo tornare. Non c’è una buona qualità di vita là (in Romania). Andrò in Francia.” Avevamo un parente in Francia, perciò lei andò a Montpellier, dove studiò, sposò un uomo cattolico ed era prossima a laurearsi.

Fu tutto inutile. I tedeschi la presero e ci è stato detto che cercò di aiutare altri in vari campi di concentramento, persino ad Auschwitz. Poi la uccisero.”

Bala e Giga

Julian Gringras: “Questa è una fotografia della mia sorella minore Bala e di mia nipote Giga. E’ stata scattata nel 1938 a Kielce” – Polonia.

“Bala aveva quasi 18 anni all’epoca. Le volevo molto bene, era una ragazza assai vivace e intelligente, attiva, molto carina secondo me. Aveva begli occhi e le fossette.

Le ragazze lavoravano nello studio fotografico; avevano passato del tempo a imparare come correggere le fotografie. Entrambe furono mandate al campo di Birkenau (parte del complesso di Auschwitz). Furono liquidate dai tedeschi molto velocemente.”

Rozsi

Erno Schwarz: “Questa è la mia figlioletta, Rozsi Schwarz, a Pesterzsebet nel 1939” – Ungheria.

“Ho incontrato mia moglie quando lavoravo alla fabbrica Rebenwurzl. Il matrimonio si tenne nella sinagoga Kazinczy. Fu affollato, entrambi i piani erano pieni di spettatori e molti restarono all’ingresso perché non riuscirono ad entrare.

Mia moglie fu portata via con i nostri due bambini. Era l’ultimo trasporto, nessuno è tornato da esso.

Non sono in grado di ricordare esattamente quando ho saputo che la mia famiglia era stata mandata ad Auschwitz. All’epoca ero ai lavori forzati.”

Maria G. Di Rienzo

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“Daniele Martinelli (ex responsabile comunicazione per il Movimento 5 stelle alla Camera dei Deputati…), non ci siamo. Ti avevo dato un tema libero sperando che tu lo svolgessi abbastanza bene da rimediare una sufficienza ed essere promosso, anche se per il rotto della cuffia.

Guarda qua quel che hai scritto il 9 novembre 2019, in calce all’immagine dell’On. Liliana Segre:

Che buffonata esibire la scorta personale in Galleria Vittorio Emanuele a Milano, il salotto della città.

Danielino, i due uomini della scorta sono in borghese, quindi non riconoscibili e non “esibiti”.

Inoltre: a) come scorta, non possono stare a venti metri di distanza dalla persona che devono proteggere; b) per percorrere la citata Galleria milanese non è obbligatorio esibire il 740 o avere un titolo nobiliare: infatti, ci passa chiunque.

Tutto questo presunto odio per la vecchina Liliana Segre, mi dà tanto di pantomima.

Primo, l’odio non è “presunto”, è documentato al punto tale che Liliana Segre ha appunto una scorta e non gliel’hanno data ne’ il Parlamento ne’ tuo zio, ma il Prefetto.

Secondo, si dice “mi sa tanto di…”, oppure bisogna riformulare la frase attorno all’espressione “se tanto mi dà tanto”. Errore da matita rossa.

Terzo, “vecchina” (nonostante la tua età) sembra essere la tua materia cerebrale e certamente lo è la tua attitudine superficiale e complottista.

Gli ebrei sono stati i creatori delle banche e gl’inventori dell’usura.

Balle, Danielino. Se la pratica di prestare denaro dietro interesse può essere fatta risalire ai Babilonesi, il concetto moderno di banca è nato nelle città italiane del Rinascimento e l’istituto del genere più antico è il Monte dei Paschi di Siena. O mi vuoi dire, ad esempio, che Giovanni “di Bicci” de’ Medici (Firenze, 1360 – 1429), fondatore del Banco Medici, era ebreo?

“Gl’inventori” come italiano fa proprio pena, anche se turandosi il naso l’Accademia della Crusca lo accetta. Errore da matita blu, più di forma che di sostanza.

Riconoscere i propri lati opachi, come quando si ammette un errore, può contribuire a migliorarne l’immagine. Soprattutto agli occhi della povertà mostruosa che popola il mondo.

Figliolo, il soggetto della prima frase qual è e dov’è? Chi ha i “lati opachi” e “migliorarne” a chi si riferisce? Di nuovo un errore da matita rossa.

La seconda frase ha come soggetto “la povertà”: che essendo la condizione di chi è povero non può avere occhi. E qui devo usare ambo i lati della matita, perché è un errore sia di forma sia di sostanza.

Capisci bene che non ti posso promuovere, vero? Tu hai dormito o giocato a battaglia navale non solo durante le lezioni di italiano, ma anche durante quelle di educazione civica. E se a casa hanno cercato di insegnarti la normale educazione, quella che prevede il rispetto per gli altri, tu hai dormito pure là.

Come dite acidi voi teorici dei complotti… svegliati, tesoro!

La tua maestra delle elementari.”

Maria G. Di Rienzo

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8 novembre 2019: “Si sono visti nel pomeriggio, a Milano, Liliana Segre e Matteo Salvini. A casa della senatrice a vita. E non erano presenti altri esponenti politici né delle istituzioni. Il leader leghista si è presentato con la figlia.” (perché usare i bambini è roba da Bibbiano, mica da padri leghisti, ultracattolici, sovranisti, ballisti e pregiudicati… che peraltro non esistono, perché – parole di Salvini – “In Italia non esistono fascisti.”) (1)

Ricapitoliamo:

1. Liliana Segre propone l’istituzione di una Commissione parlamentare di indirizzo e controllo sui fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza, il Senato la approva con 151 voti favorevoli e le 98 astensioni di Lega Nord, Fratelli d’Italia e Forza Italia. “Se ci si fosse limitati all’antisemitismo non avrei avuto problemi – sempre Salvini – Le commissioni etiche le lascio all’Unione Sovietica.”

2. Il 7 novembre scorso, valutando la gravità delle minacce rivolte a Liliana Segre tramite internet, il prefetto di Milano Renato Saccone le assegna una scorta. Salvini, sempre al centro dell’universo: “Anche io ricevo tante minacce.” Quelle che seguono sono illuminate opinioni dell’Italia che assai presumibilmente vota Salvini e gli altri astenuti e non le ho corrette perché possiate assaporarne tutta l’intelligenza:

Questa ebrea di m. si chiama Liliana Segre, chiedetevi che cazzo a fatto per diventare senatrice a vita stipendiata da noi ed è pro invasione?”

“Forse era meglio se rimaneva a fare la nonna Un’altra da mantenere!!!”

“Ebrea ti odio”

“X le sue cazzate ora paghiamo noi, come al solito, xché non se la paga lei la scorta? O se ne sta a casa a fare la calza, come tutte le ottantenni”

“Hitler non ai fatto bene il tuo mestiere”

“Più che altro se questa signora di 89 anni se ne stesse tranquilla con la sua famiglia non graverebbe su di noi per la scorta oltre che per lo spropositato stipendio pensionistico. Non ha già fatto abbastanza?”

“Scusate eh, ma per il web non c’è la polizia postale?”

“io non ho mai letto nulla di offensivo e di odio nei confronti della senatrice a vita,eppure di tempo sui social né passo!Se dovessi azzardare un’ipotesi direi che è la sinistra che ha organizzato tutta questa messa in scena,ha bisogno di odio per legittimare le solite nefandezze sugli avversari.”

“Si è fatta usare dal PD….se si teneva fuori non aveva bisogno della scorta, come la stragrande maggioranza degli ebrei in Italia! CHI E’ CAUSA DEL SUO MAL PIANGA SE STESSO/A”

“200 insulti e minacce AL GIORNO ? Io ho i miei dubbi. Mi sembrano di gran lunga trroppi, soprattutto tenendo presente che fino a questa storia della commissione la Segre non se la filava nessuno manco per caso.”

“mi chiedo perché non sia crepata con tutti gli altri”

Se lo chiedono tutti i sopravvissuti, infatti, e Liliana Segre è una dei venticinque ex bambini italiani deportati nei campi di concentramento che sopravvissero. Venticinque. In complesso, provenienti dall’intera Europa, ne sono morti un milione e mezzo. Non c’è un perché. C’è solo il “come” delle leggi razziali fasciste del 1938, dei rastrellamenti e delle deportazioni, il “come” del lavoro forzato, degli esperimenti eugenetici e delle camere a gas. Il “come” dell’odio, che è quanto la Commissione parlamentare voluta da Segre si propone di contrastare.

Łódź - campo concentramento bimbi

(Bambini del ghetto di Łódź avviati al campo di sterminio di Chełmno)

Ma naturalmente dobbiamo anche domandarci “che cazzo a fatto” questa donna, a paragone dell’idolo delle masse Matteo Salvini a cui, fedele al suo essere umana e coerente con le convinzioni che professa, ieri ha aperto la porta.

Liliana Segre ha ricevuto il numero di matricola 75190, tatuato sull’avambraccio, ad Auschwitz, all’età di 13 anni. Il resto dei deportati della sua famiglia è morto. E’ stata costretta a fabbricare munizioni per un anno. Nel gennaio 1945, dopo l’evacuazione del campo, ha affrontato la “marcia della morte” diretta in Germania ed è sopravvissuta. Il 1° maggio 1945 l’Armata Rossa ha raggiunto il campo di Malchow – Ravensbrück dove la ragazzina si trovava e liberato i detenuti.

La sua vita da adulta è stata per la maggior parte un intenso impegno pubblico affinché la memoria di ciò non andasse perduta e la sua storia non dovesse mai più ripetersi e, almeno a livello istituzionale, per ciò ha ricevuto riconoscimento:

2004 – riceve per iniziativa del Presidente della Repubblica (allora Carlo Azeglio Ciampi) l’Ordine al merito della Repubblica italiana;

2005 – riceve la Medaglia d’oro della riconoscenza della Provincia di Milano;

2008 – riceve la Laurea Honoris Causa in Giurisprudenza dall’Università di Trieste;

2010 – riceve la Laurea Honoris Causa in Scienze Pedagogiche dall’Università di Verona;

2018 – è nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella;

poi ci sono una valanga di premi, due cittadinanze onorarie (Palermo e Varese) e così via.

Adesso chiediamoci però “che cazzo a fatto” l’uomo che vuole pieni poteri e ci informa ogni giorno sulle sue abitudini alimentari. Pesco a caso:

1999 – coordina il coro “Prefetto italiano, via da Milano!” nell’aula del consiglio comunale; si rifiuta di stringere la mano al Presidente della Repubblica (che a suo dire non lo rappresenta); è condannato per oltraggio a pubblico ufficiale a 30 giorni di reclusione (con la condizionale): aveva lanciato uova all’allora Presidente del Consiglio Massimo D’Alema;

2009 – propone di riservare vagoni della metropolitana ai milanesi e “alle donne che non possono sentirsi sicure per l’invadenza e la maleducazione di molti extracomunitari”;

2013 – va a Bruxelles a manifestare contro l’Unione Europea e le sue “regole assassine”;

2014 – propone un referendum in Lombardia per chiederne l’indipendenza dalla Repubblica Italiana;

2016 – denunciato per vilipendio delle istituzioni costituzionali (la bambola gonfiabile paragonata a Laura Boldrini, allora Presidente della Camera dei Deputati) e vilipendio della magistratura (da lui definita “una schifezza”): quest’ultimo procedimento continua a slittare per i “legittimi impedimenti” del sig. Salvini; inoltre, dichiara pubblicamente la necessità di “ripulire le città dagli immigrati” dando a tale scopo “mano libera a Carabinieri e Polizia”;

2018 – indagato per sequestro di persona (caso nave Diciotti) e dopo sei mesi di tira e molla salvato dal Senato che nega l’autorizzazione a procedere nel 2019;

2019 – condannato per violazione di copyright dal Tribunale di Francoforte per aver utilizzato senza permesso la foto di un giornalista tedesco; denunciato per diffamazione da Carola Rackete; indagato per uso illegittimo dei voli di Stato; Russiagate

Liliana Segre è in Senato da un anno e qualcosa e gli individui che ho citato sopra sono assai preoccupati dal “costo” della sua presenza: però continuare a mantenere Salvini (da vent’anni almeno) sta loro benissimo – i suoi contributi a una società incivile sono, com’è visibile, davvero impareggiabili.

Maria G. Di Rienzo

(1) Doveroso update sulla vicenda, in poche ore abbiamo avuto:

Marcia indietro – Caso Segre, Salvini a sorpresa non conferma l’incontro con la senatrice: “La vedrò più avanti”

Vittimismo e sotteso paragone insultante – “A me è appena arrivato un altro proiettile ma io non piango”

Mistificazione grottesca di un episodio banale (un uomo per strada grida in dialetto a Salvini “Sei la vergogna d’Italia”) – “Napoli: sventata aggressione a Salvini dalla sua scorta”

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brain

Logica elementare: il predicato è l’attestazione di un giudizio – vero o falso – su un soggetto. Tertium non datur. Per esempio, io vivo in Italia (e ultimamente me dispiaccio troppo spesso, purtroppo) e ciò è vero. Il fatto non può essere contestato, negato, sottoposto a opinione o rubricato come tale, reso parziale da convinzioni altrui sull’esistenza mia e dell’Italia.

Sessismo, omofobia e razzismo sono espressioni di paura e odio i cui dettagli come definizioni si possono trovare su qualsiasi dizionario della lingua italiana. Le definizioni in questione non sono parimenti opinabili: quel che un individuo qualsiasi può pensare al proposito non le rende fluide e incerte o sospese per aria in attesa di chiarimento.

Considerare ogni dato fattuale una mera opinione, d’altronde, è attualmente la forma più comune di giustificazione della violenza relativa a sessismo, omofobia e razzismo.

1. Torino, “Aggredita perché lesbica”. La denuncia di una quindicenne presa a pugni all’uscita dalla stazione”.

La vicenda è accaduta il 31 ottobre u.s. La ragazzina stava andando a scuola. Il farabutto adulto (25/30 anni) che le ha tirato, a freddo, un pugno in faccia e calci sul costato le ha nel contempo fornito questa opinione come spiegazione della propria condotta: una femmina non deve andare in giro conciata come un uomo. Nessuno dei presenti, probabilmente tutti molto rispettosi delle opinioni altrui, è intervenuto.

La madre della quindicenne ha dichiarato alla stampa che la figlia è bersaglio di ingiurie sin da piccola, perché giudicata “troppo mascolina”: “Già alle medie era stata bullizzata dai ragazzini, se non sei la classica ragazza carina e fashion i maschietti di oggi te lo fanno notare e sono feroci. (…) Mia figlia ci ha messo degli anni per accettare questa sua scelta, ora che è stata aggredita si sente umiliata e impaurita. (…) Ai genitori che vivono la mia stessa situazione consiglio di stare vicino ai propri figli, di ascoltarli e di avere il coraggio di affidarsi a chi ha gli strumenti giusti e può dare il supporto psicologico adeguato.”

Tutto sensato da parte della madre e, per me che ho lavorato sovente nell’ambito identità / discriminazione con le persone lgbt, tutto il resto molto noto. Ci sono solo alcuni aspetti da delucidare: a) l’essere maschi o femmine è un dato biologico, non un set di abiti e accessori – indossare pantaloni o minigonna, truccarsi o no, avere al braccio una borsetta con lustrini o uno zaino in spalla non determina il sesso di nessuno; b) i tratti di comportamento sociale attribuiti e prescritti ai due sessi della specie umana sono in larga parte arbitrari, soggetti a variazioni – che ne danno di volta in volta descrizioni anche diametralmente opposte – influenzate da epoche storiche, ambiti culturali, religioni ecc. Questa è la differenza fra “sesso” e “genere”; c) l’omosessualità non è una scelta: non ci si sveglia una mattina pensando “Ma sì, scelgo di essere lesbica (o gay).” Ci si accorge pian piano, ma di solito molto presto, di provare determinati sentimenti e stante l’ostracismo sociale che gli stessi incontrano sì, si lotta per anni con se stesse/i e con la sofferenza derivata dal rifiuto e dal disprezzo altrui.

Con buona probabilità, il tizio che ha assalito la quindicenne e ha usato “lesbica” come insulto considera l’omosessualità una scelta, ritenendosi legittimato a sanzionarla in quanto maschio eterosessuale, ma ciò per cui ha menato pugni e calci è l’altra unica e vera scelta che una persona omosessuale può fare: dirlo ed essere se stessa o tacerlo e fingere. La ragazza è stata “punita” per essersi sottratta ai diktat del genere – quelli che la vogliono in tacchi e pizzi e scollature e strizzatine d’occhio per la soddisfazione dello sguardo maschile giudicante.

2. “Liliana Segre nonnetta mai eletta”: si dimette il coordinatore della Lega di Lecce dopo gli insulti alla senatrice.

Dell’astensione di Lega e centrodestra tutto sulla Commissione Segre e dello strascico di polemiche conseguente siete di certo già edotti. Il coordinatore in questione è l’avvocato Riccardo Rodelli. L’altro giorno non aveva niente di meglio con cui occupare il proprio tempo e ha mandato in giro un comunicato stampa che fa dubitare sia presente a se stesso (il testo è uno sproloquio zeppo di complottismo e vittimismo, scollegato dalla realtà) e suscita forti perplessità su come abbia ottenuto la laurea (usa la lingua italiana in modo scorretto nonché assai spericolato nel tentativo di apparire profondo e filosofico).

Estratto esplicativo, dove soggetti e verbi non concordano ma si svela il tristo sotterraneo maneggio contro il perseguitato politico Salvini (qualche anno fa il perseguitato si chiamava Berlusconi), candidato all’esilio coatto se si costituisce una commissione parlamentare:

“Le rivoluzioni si inaugurano con le nuove parole, le dittature con l’abrogazione, la proibizione, la mutazione delle parole. Ovvio che corra ai rimedi, ovviamente ammantati dei più santi e venerabili principi provvisori che contraddistinguono la loro etica imputridita di doppiopesismo e doppia e magari tripla morale. Usando come avanguardia e maschera un personaggio che non possa essere “attaccato”: una vecchietta ben educata, reduce dai campi di concentramento, mai eletta. La Mrs. Doubtfire di palazzo Madama. Ed ecco servito il ricatto, l’estorsione perfetta.

L’avvertimento minaccioso e sinistro col quale ti tapperanno la bocca: perché non puoi dire più niente, devi chinare la testa, tacere, accettare di bere sino in fondo il calice dell’amarezza. E allora che significa “Commissione sull’Antirazzismo e l’odio”? La verità è nelle ultime inquietanti parole che la nonnetta, a nome del PD che l’ha redatta, dove per odio, razzismo e intolleranza si intende “ogni forma” di “nazionalismo”, “etnocentrismo” e similia. In pratica: il “prima gli italiani” e solo quello. E’ Salvini e i salviniani l’unico scopo. Come è Salvini il solo scopo di questo governo. Il suo internamento in un solitario campo di concentramento, dove attenti agli altri, molti potrebbero andare a fargli compagnia per un commento su fb.”

Poi c’è la solita manfrina, che vi risparmio, sulla “dittatura del politicamente corretto”. Anche il sig. Rodelli appare convinto che le apologie di reato (e poi magari i reati veri e propri, perché le parole alimentano le azioni) siano opinioni, ma non “mere” opinioni: costituirebbero addirittura il bastione contro il totalitarismo. Peccato che, cito a caso, “sporca ebrea” o “gli ebrei stanno bene nei forni”, così come “troia lesbica” e “negro di merda”, siano proprio le espressioni che preparano e sostengono le dittature. Il totalitarismo ha bisogno di nemici, interni ed esterni, per creare una coesione sociale basata sulla paura e attribuire ad essi la responsabilità di ogni problema nazionale e di ogni proprio fallimento. Le minoranze, in questo senso, si prestano perfettamente allo scopo. E qui arriviamo al

3. Il capo ultrà del Verona: “Balotelli mai del tutto italiano, ha fatto una pagliacciata”

“Balotelli è italiano perché ha la cittadinanza italiana ma non potrà mai essere del tutto italiano. Ci sono problemi a dire la parola negro? Mi viene a prendere la Commissione Segre perché chiamo uno negro? Mi vengono a suonare il campanello?”, dice il “capo” menzionato nel titolo, tale Luca Castellini di Forza Nuova, che già in passato aveva spiegato come “l’inneggiare a Hitler” sia semplice “goliardia”.

Anche qui sapete già dei cori della tifoseria avversaria contro il giocatore, della reazione dello stesso che calcia il pallone in curva e delle ciance leghiste / di destra: di nuovo vittimismo e rovesciamento della realtà (“vergognosa gogna mediatica contro Verona e i suoi tifosi” – Lorenzo Fontana, ex ministro leghista), entrambi enunciati con disdegno per la lingua italiana (“Non può esistere che da un presupposto che non esiste, perché allo stadio non ci sono stati cori razzisti, venga messa alla gogna una tifoseria e una città.” – Federico Sboarina, sindaco di Verona) e conditi dal consueto benaltrismo: “Vale più un operaio dell’Ilva che dieci Balotelli. Il razzismo va condannato ma non abbiamo bisogno di fenomeni.” – Matteo Salvini, futuro martire della libertà di parola che sulla commissione parlamentare già citata si è chiesto meditabondo “chi” possa giudicare “cosa è razzista e cosa no”, cos’è odio e cos’è opinione.

Se per ventura mi leggesse, il primo paragrafo di questo pezzo dovrebbe essere sufficiente a dissipare i suoi dubbi ed eventualmente quelli dei suoi sodali. Informo tutti costoro che il dizionario Treccani è online.

C’è anche un mezzo diretto – e davvero efficace – per accertarsi delle differenze: chiedere alla ragazza di Torino se il pestaggio che ha subito derivi da odio (omofobia, sessismo) o da una stimata e tutelabile opinione; chiedere a Liliana Segre se quando le hanno tatuato il numero sul braccio in campo di concentramento ha pensato “Be’, questa è l’opinione dei nazisti, devo rispettarla o finiremo sotto la dittatura del politicamente corretto!”; chiedere a Balotelli perché si incazza quando si vede a occhio nudo che è uno sporco negro, diamine, e prendersi una pallonata negli zebedei – infine, chiedere a quella cima di Luca Castellini se può dettagliare i centimetri, i grammi, il numero dei capelli, o quant’altro difetti al giocatore per essere “tutto italiano”. Sappiamo già che a lui non manca nulla per essere un razzista.

Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “My Revenge: The Holocaust and Our Family Legacy”, di Sophie Unterman, 10 settembre 2015, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Lo scorso aprile, Nonna ha raccontato la sua storia pubblicamente per quella che, lei dice, è l’ultima volta. E’ una storia che è stata narrata a classi scolastiche, conferenze interfede, gruppi per la tolleranza ed estranei a caso per 45 anni; una storia sterilizzata e ristretta a venti minuti per gli irrequieti scolaretti di 5^ elementare e ricca di dettagli per i gruppi delle chiese, con pause drammatiche dove il pubblico può annaspare e asciugarsi le lacrime.

E’ la storia di come lei è sopravvissuta all’Olocausto da bambina – il ghetto di Lodz, Auschwitz, Stutthof, il bombardamento di Dresda mentre era una schiava-lavoratrice in una fabbrica di munizioni, una “marcia della morte” e la liberazione a Terezin, seguita dal trasferimento a Ludwigsburg, in Germania, dove lei e i suoi genitori cominciarono a ricostruire le proprie vite.

Mentre si avvicinava alla fine del racconto, quella sera, fatto per il programma “Oklahoma Yom Hashoah” alla folla di una stanza in cui c’era ormai solo posto in piedi, alla sinagoga Tulsa’s B’nai Emunah, ha accennato alla seconda fila di banchi, dove io sedevo accanto a mia sorella Phoebe.

La gente spesso mi chiede se voglio vendetta per quel che è accaduto alla mia famiglia durante la Shoah.”, disse. I suoi capelli tinti di castano si rizzarono un po’ sulla nuca, mentre si chinava per essere più vicina al microfono: “Io rispondo loro che ho già avuto la mia vendetta. Mio figlio Steve e sua moglie Ellen e le loro due ragazze, Sophie e Phoebe. E mia figlia Michelle, con suo marito David e il loro figlio Jacob.”

Ci ha fatto segno di alzarci. L’intera congregazione ha girato la testa e noi sette ci siamo messi in piedi, un po’ riluttanti.

La mia famiglia”, disse la Nonna, con la voce che si spezzava per la prima volta dall’inizio del racconto, “è la mia vendetta.”

marcia della morte

11 maggio 1945. Civili tedeschi sono costretti a passare accanto ai cadaveri di 30 donne ebree uccise da fame e fatica durante una “marcia della morte” di 500 chilometri.

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restate umani

La foto ritrae la signora Hedy Epstein, novantenne, mentre è tratta in arresto il 18 agosto u.s., durante le dimostrazioni di protesta per l’uccisione del giovane Michael Brown da parte di un poliziotto. L’accusa è di aver bloccato assieme ad altre otto persone l’ingresso ad un edificio.

Hedy, ebrea originaria della Germania, è una sopravvissuta all’Olocausto che ha partecipato come assistente dei legali ai processi di Norimberga. La maggior parte della sua famiglia è deceduta nei campi di sterminio nazisti. Quando emigrò negli Usa, nel 1948, le restavano solo una zia e uno zio che vi si erano trasferiti dieci anni prima.

Fondatrice del gruppo di Donne in Nero della sua città, St. Louis, e attivista per la pace in Palestina, dal 2003 ad oggi Hedy è andata nella Striscia di Gaza cinque volte.

La scritta sulla maglietta che indossa nella fotografia dice: RESTATE UMANI.

Sapete, un po’ mi vergogno che il mondo continui a chiedere a Hedy di lottare per questo. Maria G. Di Rienzo

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Andiamo al cinema? Sì, va bene, però non voglio vedere ne’ “Vacanze squallide”, ne’ “L’amore guarisce tutto, anche il cancro”, ne’ “Smembramenti selvaggi III”, ne’ “O’ vampiro ‘nnammurato”… Vero, esclusi questi generi mi resta ben poco da scegliere. Ma andrei al cinema, molto volentieri, a vedere uno dei seguenti film:

“Black Butterflies” (Farfalle Nere) – Regista: Paula van der Oest, Cast: Carice van Houten, Rutger Hauer, Liam Cunningham.

E’ la storia (vera) di Ingrid Jonker, la scrittrice sudafricana la cui poesia “Il bimbo morto di Nyanga” fu letta da Nelson Mandela in occasione del suo primo discorso al Parlamento sudafricano. Ingrid visse a Cape Town negli anni ’60 dello scorso secolo, in pieno apartheid e avendo per padre un funzionario di governo addetto alla censura. Il trailer mostra una scena stupenda – per me, ovvio – in cui il padre di Ingrid fa a pezzi un foglio su cui è scritta una sua poesia, proprio davanti a lei. La giovane donna, nonostante abbia gli occhi pieni di lacrime, risponde: “Fa’ pure.”, e indicandosi la testa aggiunge, “Tanto quelle parole sono tutte qui dentro.” Tra l’altro, il film potrebbe riconciliarmi con il “replicante” Rutger Hauer dopo la sua discutibile performance padana…

“Circumstance” (Circostanza) – Regista Maryam Keshavarz, Cast: Sarah Kazemy, Nikohl Boosheri, Reza Sixo Safai.

Le immagini, sebbene io le veda nella piccola finestra del trailer online, sono di una bellezza incantevole. Posso solo sbavare leggermente al pensiero di come devono risultare sul grande schermo… Il film è stato bandito dal governo iraniano (tanto per cambiare) e narra la storia di due ragazze sedicenni di Teheran, dell’amore che le lega, del loro viaggiare fra il mondo di “circostanza” (la scuola, il codice di abbigliamento coatto, ecc.), il mondo dei loro desideri (“Se potessi essere in qualsiasi posto al mondo, ora, dove vorresti essere?”) e quello ribelle della vita notturna nei club segreti della città.

“Pariah” – Regista: Dee Rees, Cast: Adepero Oduye, Pernell Walker, Aasha Davis, Charles Parnell, Sahra Mellesse, Kim Wayans.

Sempre in tema di adolescenti “fuori posto”, il film è la storia di Alike, ragazza afroamericana 17enne di Brooklyn. Come accade molto spesso, Alike deve lottare non con la propria identità omosessuale, che riconosce ed accetta con grazia ed umorismo, ma con la percezione che la sua famiglia e i suoi conoscenti hanno di essa. Grazie alla propria tenacia ed all’aiuto dell’amica del cuore, la giovane “pariah” è però intenzionata ad affrontare tutte le sfide.

“Oranges and Sunshine” (Arance e luce del sole – per metafora: Arance e bel tempo) – Regista: Jim Loach, Cast: Emily Watson, David Wenham, Hugo Weaving.

Storia (vera) di Margaret Humphrey, una comune donna inglese che – senza sostegno alcuno – costrinse le autorità del suo paese a rivelare la deportazione di massa di 130.000 bambini dagli orfanotrofi britannici all’Australia, dove furono vittime di abusi sessuali e fisici. Come risultato del suo lavoro, molti di questi bimbi furono soccorsi e tornarono in patria.

“The Naked Option” (L’opzione nudità), documentario – Regista: Candace Schermerhorn.

Narra la vicenda delle donne del Delta del Niger, di come dal 2002 denunciarono i disastri ambientali causati dalle compagnie petrolifere, di come occuparono i siti d’estrazione (uno per dieci giorni di seguito) – “armate” di grandi foglie con cui danzavano – e di come minacciarono di violare il tabù ultimo della loro comunità restando senza vestiti. E’ costume che quando tutto il resto, negoziazioni e discussioni, fallisce, le donne si spogliano: la loro nudità è una “maledizione” per chi vi è esposto, non per loro.

“The Lady” (La signora) – Regista Luc Besson, Cast: Michelle Yeoh, David Thewlis, Jonathan Ragget.

Forse, dato il nome del regista, sarà l’unico film della lista che riuscirò a vedere nei nostri cinema. E’ la storia della leader politica birmana, nonché Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi. La pellicola intreccia le vicende pubbliche a quelle intime e familiari della protagonista, e mi pare riesca a mostrare cosa una lotta per i diritti umani comporta davvero. Sono particolarmente felice della scelta di Michelle Yeoh per il ruolo principale, perché spesso questa grande attrice non ha l’occasione di recitare, ma solo di mostrare le sue (straordinarie) qualità in scene d’azione e combattimento.

“The Rescuers” (I soccorritori), documentario – Regista: Michael King.

Documenta l’amicizia fra lo storico dell’Olocausto Sir Martin Gilbert e l’attivista ruandese contro il genocidio Stephanie Nyombayire. Questi due, un anziano signore ed una giovane donna, hanno viaggiato insieme in tre continenti per raccogliere testimonianze dei sopravvissuti ed onorare i coraggiosi “soccorritori” che hanno salvato migliaia di vite durante l’Olocausto e in Africa. Nel trailer si vede Stephanie portare fiori sulle tombe della sua famiglia (interamente sterminata) mentre riattesta la sua fiducia nella vita e negli esseri umani. E’ una di quelle persone che mi piacerebbe abbracciare, ma visto che non succederà potreste almeno, esimi cinematografari, farmi vedere il film? Maria G. Di Rienzo

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(“Can we end rape as tool of war?”, di Gloria Steinem e Lauren Wolfe per CNN, 8.2.2012, trad. Maria G. Di Rienzo)


Dapprima avevamo pensato di cominciare questo pezzo con la storia di Saleha Begum, una sopravvissuta alla guerra in Bangladesh del 1971 nella quale, dicono alcuni rapporti, almeno 400.000 donne sono state stuprate. Begum fu legata ad un banano, ripetutamente stuprata da un gruppo e bruciata con sigarette per mesi, sino a che le spararono e la lasciarono per morta in una pila di altre donne. Tuttavia lei non morì, e fu in grado di tornare a casa, devastata ed incinta di cinque mesi. Come ci arrivò, a casa, fu marchiata come “sgualdrina”.

Avevamo anche pensato di cominciare con la storia di Ester Abeja, una donna dell’Uganda che fu tenuta forzatamente come “moglie della foresta” dal Lord’s Resistance Army (“Esercito della resistenza del Signore”). L’essere continuamente stuprata con oggetti ha distrutto i suoi organi interni. I suoi catturatori l’hanno anche costretta ad uccidere la propria figlioletta di un anno sfasciando la testa della bimba su un albero.

Ci siamo imbattute in dozzine di storie di donne come Begum e Abeja ed infine abbiamo capito che era troppo difficile trovare quella giusta, e cioè la storia che avrebbe espresso esattamente come e in che modi la violenza sessualizzata è usata come arma di guerra per devastare le donne e distruggere comunità in tutto il mondo, conflitto dopo conflitto, dalla Libia alla Repubblica democratica del Congo. E’ a causa di questa complessità che dobbiamo capire come viene usata la violenza sessualizzata. Dobbiamo capire per poterla fermare: proprio come quando si cerca di disinnescare una bomba è cruciale conoscere i suoi componenti.

Sia l’Organizzazione mondiale per la sanità sia il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite hanno riconosciuto che manca ricerca sulla natura e l’estensione della violenza sessualizzata nei conflitti, nonostante vi sia una crescente richiesta di migliori analisi da parte dei corpi delle NU, dei donatori e di altri per poter lavorare alla prevenzione ed alla guarigione. E’ per tutto ciò che abbiamo dato inizio ad un nuovo progetto a Women’s Media Center che sistematizza le specificità della violenza sessualizzzata in aree quali le sue motivazioni ed i suoi schemi, le sue ricadute, e le attitudini di genere e culturali che hanno condotto ad essa. Abbiamo chiamato il nostro progetto “Donne sotto assedio”, perché quando si stuprano quattro donne al minuto solo in Congo, possiamo dire che non è nulla di meno di un assedio continuato. Ed è ora che cominciamo a metterci fine.

La violenza sessualizzata può essere la sola forma di violenza nella quale si biasima la vittima o si dice persino che la vittima ha invitato la violenza stessa. In guerra, lo stupro diventa la vergogna di donne, uomini, bambini, intere società. Lo stigma imposto su tutti coloro che sono toccati da tale violenza rende quest’arma incredibilmente efficace come mezzo di distruzione del nemico.

Ma è fondamentale ricordare che non è sempre stato così, che così dev’essere. La violenza sessualizzata non è parte “naturale” di un conflitto. Per il primo 90% e più della storia umana, femmine e maschi hanno assunto ruoli bilanciati e flessibili. Le nostre posizioni sociali non erano basate sulla dominazione delle femmine da parte dei maschi. Esseri umani e natura, donne ed uomini, erano connessi piuttosto che sistemati in ranghi. Il cerchio, non la gerarchia, fu il principio organizzatore del nostro pensiero.

Analizzando come la violenza sessualizzata è stata usata come pulizia etnica, come in Bosnia; per forzare gravidanze che avrebbero letteralmente cambiato volto alla generazione successiva; o, come in Egitto, per arrestare il dissenso, possiamo guardare al futuro e possibilmente prevenire che ciò riaccada. Per generazioni abbiamo ignorato o negato di aver conoscenza della violenza sessualizzata di massa inflitta alle donne ebree durante l’Olocausto. Le donne che sono sopravvissute ad aggressioni brutali sono state accusate di collaborazionismo per la propria sopravvivenza, proprio come, per esempio, una donna stuprata in Congo può non venire mai più riaccettata nel villaggio o in famiglia perché considerata colpevole.

Lo scorso anno, un libro dal titolo “Violenza sessuale contro le donne ebree durante l’Olocausto” ha gettato luce su come i nazisti perpetrarono stupro ed umiliazioni sessuali su scala enorme. Pure, nulla di tutto questo è stato discusso o processato a Norimberga. Se lo avessimo saputo prima, ciò avrebbe aiutato a prevenire i campi di stupro nell’ex Jugoslavia? O lo stupro come arma di genocidio in Congo?

Nominare la violenza sessualizzata come arma di guerra la rende visibile – ed una volta che sia visibile, perseguibile. Ciò che è accaduto agli uomini nel passato era politico, ma ciò che è accaduto alle donne era culturale. Il politico era pubblico, e poteva essere cambiato; l’altro era privato, persino sacro, e non poteva o persino non doveva essere cambiato. Chiarire che la violenza sessualizzata è politica e pubblica rompe questo muro. Riconosce che la violenza sessualizzata non è destinata a succedere. Quando la mascolinità non è più definita dal possesso e dal dominio di donne, quando la femminilità non è più definita dall’assenza di esperienze sessuali o dall’essere possedute, allora si ha un inizio. Ma prima, dobbiamo smettere di dire che la violenza sessualizzata è inevitabile, e smettere di permettere che le vittime vengano biasimate.

Dobbiamo immaginare il cambiamento, prima di poterlo creare.

(Gloria Steinem è scrittrice, editrice ed attivista femminista. Ha co-fondato Ms. Magazine e Women’s Media Center. Lauren Wolfe, giornalista, è la direttrice del progetto “Donne sotto assedio”)

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(di Joanna Robertson, corrispondente da Berlino per BBC News, 31.5.2010, trad. M.G. Di Rienzo)

Si comincia davvero a capire un luogo quando si percepisce il suo passato. E la storia di una nazione non è fatta solo di campi di battaglia e rovine di castelli. Si trova anche nelle ossa della sua cultura: nelle sue poesie, nella sua musica, e nelle storie che i vicini di casa possono raccontarti.

Le maniglie, nel mio appartamento nella vecchia Berlino, sono bellissime. Ottone, art nouveau, incise con fiori levigati da 100 anni di mani: le mani di coloro che hanno vissuto qui in precedenza.

C’è una stanza con un tappeto blu. E’ stata una cucina per circa un secolo, ora è la stanza del pianoforte. Ma tutti noi abbiamo smesso di suonarlo. Non ci piace la stanza blu. In effetti, ne siamo un po’ spaventati.

Mia figlia Miranda mi racconta della “famiglia di fantasmi con grandi occhi scuri” che vive lì. E’ pietrificata. Quando, sentendomi stupida, confido questo alla sua insegnante dell’asilo, la risposta è immediata. Mi dà un biglietto da visita: “Probabilmente avete ebrei in casa. Chiami questo tizio. E’ fenomenale.” Guardo il biglietto e la sua promessa di “cambio d’energia in casa o sul posto di lavoro”. E’ un problema diffuso?, chiedo all’insegnante. “Oh sì, certo.”, replica lei, “Succede di continuo. E non c’è da stupirsi se si pensa a cos’è accaduto qui durante la guerra.”

Nelle strade pavimentate di Berlino c’è ottone. Qua e là, piccoli inserti cubici. Sono un po’ consumati, come le deliziose maniglie di casa nostra, ma dal vento e dalla pioggia anziché dalle mani. E invece che essere incisi con i fiori, ognuno di essi porta il nome di una persona, la data della sua nascita e la data della sua morte. Spesso insieme c’è anche la parola ermordet (assassinato), oppure Flucht in den Tod (ucciso mentre tentava di fuggire), o Freitod (suicidio).

Questi piccoli blocchi d’ottone si chiamano “Stolpersteine” e sono fatti a mano dallo scultore Gunter Demnig che da 14 anni, su commissione, li posiziona davanti alle porte d’ingresso in tutta l’Europa continentale: contrassegnano l’ultimo indirizzo di migliaia di persone assassinate dai nazisti. Ce ne sono circa 800 solo in questo distretto di Berlino. Molte sono nella piccola strada dove io vivo, incluse quattro fuori dalla porta del vicino: una volta, quella era la casa della famiglia Manasse.

Con la mente, riesco a vederli partire. Lo hanno fatto proprio 71 anni fa, in maggio. Non erano sotto la minaccia dei fucili, come molti degli altri, ma portavano cappelli, valigie, documenti in ordine, biglietti in mano. Herbert Manasse aveva comprato un passaggio su una nave di linea transatlantica per sé, la sua anziana madre Ida, sua moglie Emmy ed il loro figlio decenne Wolfgang. La “St. Louis” salpò da Amburgo il 13 maggio 1939, diretta a Cuba. Quasi tutti i 937 passeggeri erano ebrei che stavano fuggendo dalla Germania nazista. Costretti a lasciarsi alle spalle la maggior parte del loro denaro e delle loro proprietà, avevano ben poco tranne il sollievo, visti d’ingresso per Cuba e la speranza di essere magari accolti dagli USA.

Le due settimane di viaggio in apparenza passarono piacevolmente; si poteva giocare a palla sul ponte e ballare sottocoperta dopo cena, ma parecchi dei passeggeri erano comunque nervosi. Alcuni erano già passati da campi di concentramento. E mentre i giorni sul mare scivolavano via, funzionari cubani corrotti cancellarono tutti i visti d’ingresso. Quando la nave approdò all’Avana, solo a sette passeggeri fu concesso lo sbarco: uno di essi si era tagliato i polsi e si era letteralmente gettato nel porto. La “St. Louis” fu forzata a tornare in Europa, ma grazie ai valorosi sforzi del suo Capitano nessuno dei passeggeri tornò in Germania. Tutti trovarono asilo in altri paesi europei.

Herbert e la sua famiglia finirono in Francia. Poche settimane più tardi la guerra fu dichiarata. Nel 1943, dopo molte peripezie, la famiglia Manasse fu deportata dalla Francia ad Auschwitz, dove tutti perirono.

In un caldo giorno di primavera del 2010, mi muovo verso la Berlino orientale, per vedere Gunter Demnig che posiziona tre “Stolpersteine”. La metropolitana ondeggia gentilmente attraverso la città, il suono dei suoi freni idraulici marca ogni stazione. Truppe di scolaretti salgono e scendono. Ci sono donne e uomini, cani, sporte della spesa, biciclette, tutti stretti gli uni contro gli altri, sudando un po’ in questo caldo inaspettato. Lascio il trano e cammino lungo una strada tranquilla, oltrepassando giardini pieni di fiori, alberi su cui cominciano a spuntare le foglie. Tutto è silenzio, se si eccettua il canto degli uccelli.

Quando finalmente arrivo all’esterno della piccola e linda casetta, è troppo tardi per vedere Gunter. Se n’è già andato, ma ha lasciato dietro di sé tre nuovi blocchi di ottone scintillanti e tre rose. Due bianche, una per la madre ed una per il padre, e una rosa per la loro figlioletta di quattro anni. Le iscrizioni dicono: “Deportati il 17 maggio 1943. Assassinati ad Auschwitz”.

Torno indietro a prendere mia figlia (anche lei ha quattro anni) all’asilo, le compro un gelato rosa e andiamo sulle altalene. Avevo preso un appuntamento con la gente che “cambia l’energia”, quelli che si occupano di case in cui c’è una strana atmosfera, ma penso di disdirlo.

Qualsiasi cosa sia accaduta, o non sia accaduta, in casa nostra, se ci sono degli spiriti spero solo che riposino in pace.

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