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(brano tratto da: “The pitfalls of trying to get in with the male left”, di Meghan Murphy per Feminist Current, 12 luglio 2017, trad. Maria G. Di Rienzo.)

“La sinistra ha abbandonato gli interessi delle donne sistematicamente sin dall’alba del femminismo.

Andando indietro al 1830, le donne della classe lavoratrice che in Francia erano parte del movimento socialista di Saint-Simon rinunciarono a cercare di lavorare con i loro compagni maschi e organizzarono un movimento separatista. Alla metà del 1800, gli abolizionisti maschi sistematicamente scoraggiarono e persino impedirono in modo esplicito che le donne nel movimento abolizionista parlassero apertamente dei diritti delle donne, dichiarando che ciò era una distrazione.

Il movimento femminista radicale americano annunciò il suo abbandono della Nuova Sinistra con un chiaro e diretto “vaffanculo”, avendo appreso che per quanto sostenessero le lotte guidate dagli uomini, le donne avrebbero continuato a essere trattate come oggetti sessuali, mogli e segretarie.

Questa non è una lezione nuova.

Noi tentiamo di allearci con la sinistra e i nostri sforzi falliscono di continuo, perché gli uomini di sinistra ci hanno mostrato per secoli che i nostri interessi non sono importanti – che noi non siamo importanti. In altre parole, le femministe radicali non hanno abbandonato la lotta contro il capitalismo, hanno abbandonato gli uomini che hanno dimostrato, ancora e ancora, come il loro interesse per la rivoluzione non si estenda al di là dei loro piselli.

Per almeno 150 anni le donne hanno messo la loro energia, il loro tempo, i loro cuori e i loro spiriti nei movimenti degli uomini. Le donne hanno creduto anche che la solidarietà era possibile e che se lavoravano con gli uomini a metter fine a cose come il capitalismo e il razzismo, gli uomini avrebbero tornato loro il favore, e si sarebbero uniti alle donne nel combattere cose come stupro, abuso domestico, prostituzione e oggettivazione sessuale. Ma non lo hanno fatto.”

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Domani e dopodomani, al Teatro Melico Salazar di San José, Costa Rica, Guadalupe Urbina intende esporre in musica il viaggio della propria vita: “Dalla Guadalupe che lasciò la provincia di Guanacaste cantando canzoni di protesta sulla proprietà della terra e la segregazione razziale, alla Guadalupe urbana che “prese possesso” della capitale. La Guadalupe di oggi non può più fare sempre quel che le piace. Questa donna è un poco stanca e il suo corpo richiede attenzione.” L’ultima frase si riferisce ai tre cicli di trattamento medico che la cantautrice ha già affrontato per combattere la presenza di tumori.

guadalupe

Nata nel 1959 da una famiglia contadina (il padre era migrato in Costa Rica dal Nicaragua), ultima di 10 figli, ha vissuto in Europa e viaggiato in Africa. Ha due figli, Antonio e Angela. Attualmente dirige la Fondazione “Voz Propia” che appoggia i/le giovani con aspirazioni artistiche e fa parte della comunità autogestita Longo Mai.

Il movimento che porta questo nome ha origini in Austria, Svizzera, Germania e Francia: giovani della “generazione del ’68” fondarono la prima comunità autogestita in Francia nel 1973 – “Longo maï” in provenzale significa “Possa durare a lungo”. Nel 1979, quando molti nicaraguensi fuggivano dal regime del terrore di Somoza, decisero di comprare terra in Costa Rica per renderla disponibile ai rifugiati, di modo che essi vivessero in modo indipendente e dignitoso. Longo Mai oggi comprende circa 2.200 acri, metà dei quali costituiti da foresta pluviale protetta.

Guadalupe ha ricevuto vari premi internazionali per il suo talento e le sue ricerche sulla musica popolare e la narrazione orale. Dalle tradizioni mesoamericane ha derivato quel che potremmo definire il suo “sentiero spirituale”, che segue le molte dimensioni dell’archetipo femminile. Pittrice, scrittrice, poeta, autrice teatrale, il suo ultimo album in studio – con 11 brani originali – è del 2016: “Cantos Simples del Amor de la Tierra”.

“L’arte ci permette di muoverci, di essere commossi, connessi e rinnovati. – dice Guadalupe – La metafora è il linguaggio che ci permette di entrare in relazione con la soggettività. L’arte, usando linguaggio metaforico, può esprimere in maniera più completa l’esperienza, la conoscenza e la rivitalizzazione delle risonanze che è così cruciale nel rompere l’isolamento per costruire movimenti. La canzone ha un potere unico; è il potere di muovere il tuo corpo e i tuoi sentimenti, di trasportarti inevitabilmente in un luogo che ti dà autorità perché evoca, raccoglie e soprattutto libera ciò che tu hai necessità di liberare.” Maria G. Di Rienzo

madremonte

(Madremonte, dipinto di Guadalupe Urbina)

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roma-26-nov-2016-2

Mie care, grazie. Anche se Roma è troppo distante – per le mie tasche – e non ho potuto godere della vostra compagnia. Ho notato, non da sola, che la copertura giornalistica/televisiva di una manifestazione così grande e riuscita è andata per la maggior parte dall’insufficiente al patetico, passando per il banale.

Qualcuno è riuscito persino a non accorgersi proprio del tutto che si trattava di una manifestazione organizzata da donne e composta principalmente da donne:

La Stampa 26 novembre: A Roma migliaia in piazza contro la violenza sulle donne.

Sono centomila, secondo gli organizzatori i partecipanti al corteo contro la violenza sulle donne partito da piazza della Repubblica a Roma e che sta percorrendo via Cavour. A fornire il dato ai cronisti è Tatiana Montella, della Rete «Io decido», che insieme alla Dire (Nda: sarebbe D.i.Re, giusto?) associazione che raccoglie i 77 centri antiviolenza italiani e all’Udi, Unione donne d’Italia (Nda: Unione Donne in Italia, dall’ultimo statuto, sempre se non sbaglio) ha organizzato la manifestazione dal titolo «Non una di meno».” C’è persino, pensate, “Un richiamo anche al movimento femminista: «Siamo femministe, siamo sempre quelle, siamo milioni di forza ribelle».”

Le femministe – scorie di un lontano passato – passavano di là, insomma, e si sono aggregate all’ultimo momento agli organizzatori (maschi) e ai partecipanti (maschi).

Ma non importa, avete vinto per voi stesse e per tutte noi una splendida giornata. Godiamoci questo momento perché da domani, lo sapete meglio di me, il lavoro continua ed è duro come sempre.

Maria G. Di Rienzo

roma-26-nov-2016

P.S.: Ho rubato le immagini della manifestazione a http://comune-info.net/

ma so che mi perdonano a priori, anche perché adesso colgo l’occasione di fare un po’ di pubblicità a questo loro lavoro:

un-movimento-a-pedali

L’idea di andare verso la libertà in bicicletta – e della libertà che la bicicletta costruisce in molti modi – merita una vostra occhiata:

http://comune-info.net/2016/11/un-movimento-pedali

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(“Algeria – Citizen Barakat Movement for Democracy”, intervista a Amira Bouraoui, co-fondatrice del movimento Barakat (Basta), di Karima Bennoune per Open Democracy, 2 aprile 2014, trad. Maria G. Di Rienzo)

amira bouraoui

Karima Bennoune (KB): Puoi spiegare gli scopi del movimento Barakat e la storia recente che gli ha dato forma?
Amira Bouraoui (AB): Lo scopo del movimento Barakat è stabilire la democrazia in Algeria. Per troppo tempo il popolo algerino è stato soggetto alle leggi di un regime che non applica le regole della democrazia. In effetti, l’Algeria ha attraversato tempi molto difficili. Ci fu già una sorta di movimento Barakat nel 1988 quando, motivata dall’ingiustizia sociale, la gioventù scese in strada per esprimersi. Successivamente, poiché le persone non potevano esprimere se stesse, parte della società cercò rifugio fra le braccia di dio. Alcuni si unirono ad un partito politico (il Fronte di salvezza islamico, FSI) che tentò di monopolizzare la religione. Ma, ciò che appartiene a tutti – perché la maggioranza degli algerini sono musulmani – non può appartenere ad un partito politico. Nel frattempo, il partito al governo (Fronte di liberazione nazionale, FLN) tentò di monopolizzare la storia algerina. Anche la storia appartiene a tutti, e non può essere di proprietà di un singolo partito politico. Quel che vogliamo oggi è una democrazia che ci ripari dai rischi di tutti questi eccessi.
KB: Che cosa, negli atti del Presidente Bouteflika, ha ispirato la vostra protesta?
AB: Il signor Abdelaziz Bouteflika andò al potere nel 1999 – 15 anni fa. La Costituzione algerina era stata emendata alcuni anni prima, e uno dei risultati fu che il suo Art. 74 limitava i mandati presidenziali a due. Nel 2008, Bouteflika aumentò i salari dei legislatori. In tal modo influenzò i deputati a violare la Costituzione emendandola senza referendum, senza che le opinioni del popolo fossero espresse, e così fu “rubato” il terzo mandato.
Eravamo molto affezionati, per così dire, all’Art. 74, perché anche se Bouteflika era stato “eletto” in condizioni non molto trasparenti, la gente diceva: “Resterà solo due mandati, e poi se andrà.” Quando un Presidente ha limiti di mandato – come in molti paesi democratici – sa che dovrà andarsene, un giorno, e sa che un giorno dovrà dare un resoconto di quel che ha fatto. Quando sai che dovrai rispondere delle tue azioni lavori intensamente e cerchi di non fare errori. Ma quando decidi che resterai al potere sino alla morte, come un dittatore o un monarca, puoi fare quel che ti pare. Pensi che la Repubblica appartenga a te, e non è proprio il caso.
Se andiamo indietro al discorso del Presidente Bouteflika nel maggio 2012, lui dice “la mia generazione è finita”. Dice che un uomo deve conoscere i propri limiti. Lo dice in arabo. Ci sentimmo rassicurati, nel maggio 2012, quando disse “dobbiamo passare la fiaccola – una fiaccola preferibilmente accesa e non spenta”. Nonostante il terzo mandato di straforo, pensammo che avremmo avuto finalmente delle elezioni e che esse avrebbero riportato speranza.
Ogni generazione ha bisogno di speranza. Un Presidente che resta al potere per più di dieci anni, per più di due mandati, vede passare una transizione generazionale. E la nuova generazione non è più connessa a un Presidente che resta così a lungo in carica. Nondimeno, quest’anno abbiamo visto politici chiedere al Presidente di presentarsi per un quarto mandato, anche se è molto malato, è stato al potere per 15 anni, la Costituzione è stata violata e non lo vediamo apparire in pubblico da due anni. Da due anni non fa neppure un discorso. Fisicamente e mentalmente, non è nelle condizioni di governare. Perciò, abbiamo deciso con gli amici attivisti di scendere in strada e dire “No”, “Basta”. Non ci aspettavamo la popolarità che Barakat ha rapidamente guadagnato: il movimento è stato creato il 1° di marzo.
KB: Cosa rende un quarto mandato così inaccettabile?
AB: Prima che la candidatura del Presidente Bouteflika fosse annunciata, moltissimi algerini – nelle università, nei caffè, negli uffici, negli ospedali – dicevano: “No, non oserà tentare un quarto mandato.” E’ improponibile. Il quarto mandato è semplicemente il simbolo di un regime e di un sistema arcaici. Questo regime e questo sistema disprezzano il popolo, lo giudicano immaturo. Pensano che la gente sia stupida. Ma non capiscono che le persone sono così consapevoli della situazione che hanno smesso di votare. Non hanno il diritto a una scelta vera.
Noi stiamo testimoniando una mascherata elettorale, un processo mirato ad imporre Abdelaziz Bouteflika per il quarto mandato. Invece, noi chiediamo che il popolo sia davvero consultato sulla scelta del leader.
KB: La minaccia dell’instabilità è spesso usata per ridurre al silenzio le proteste in Algeria, dati i terribili eventi della decade degli anni ’90. Come rispondi a questo argomento?
AB: La nostra rabbia, il nostro rigetto, hanno avuto inizio quando il Presidente Bouteflika ha violato la Costituzione. All’epoca, scrivemmo e firmammo petizioni. Tentammo di protestare, anche se eravamo appena usciti dal decennio dell’orrore.
I cittadini algerini avevano paura: paura di destabilizzare il paese, paura di cadere di nuovo in un ciclo che ci aveva ferito così tanto in passato. Ma abbiamo scoperto che questa “stabilità sotto ricatto” che il regime ora ci offre, dicendoci di chiudere il becco perché altrimenti destabilizziamo l’Algeria, è inaccettabile. Non giocheremo a questo gioco. E’ come se ci dicessero: “Lasciateci governare il paese in maniera non trasparente. Fate quel che vogliamo noi. E, in cambio, potete avere stabilità”. Noi pensiamo che a destabilizzare effettivamente Tunisia, Libia e Siria, e i paesi della “Primavera Araba”, siano stati proprio i dittatori che non sapevano quando era il momento di andarsene.
KB: Qual è la vostra strategia da oggi alle elezioni del 17 aprile prossimo? E, forse ancora più importante, quale sarà la vostra strategia dopo le elezioni?
AB: Da oggi al 17 aprile continueremo ad organizzare azioni per fare pressione su un regime sordo, e tenteremo di fargli ascoltare qualche ragione. Il regime tenta di giustificare ciò che è ingiustificabile. Difende l’indifendibile. Chi è al potere deve capire che sta correndo diritto verso un muro. Dopo il 17, continueremo a lottare, e continueremo ad essere presenti sul territorio, per rigettare questo presidente illegittimamente eletto. La maggioranza degli algerini non hanno una tessera di voto, non l’hanno mai avuta, e non hanno in programma di votare perché il risultato è già deciso.

Basta bugie - Amira sit in Algeri 24 marzo 2014

KB: Il movimento Barakat ha detto più volte che è un movimento composto da cittadini, che è un movimento politico ma non fa riferimento ai partiti. Cosa significa esattamente?
AB: Siamo un movimento composto da cittadini algerini che non erano già tutti attivisti politici. Lavoriamo per la democrazia e l’acquisizione di cittadinanza. Se non hai scelto il tuo Presidente non sei più di un progetto pilota come cittadino. Non sei un cittadino effettivo.
Direi che al momento Barakat è “supra-politico”, perché per permettere ai partiti politici di prendere parte alla democrazia devi avere regole del gioco chiare, trasparenti e rispettate. Il movimento dei cittadini aspira a creare tali regole. Non siamo un partito e non vogliamo diventarlo.
KB: Tu ricevuto un grande sostegno (penso ai 3.000 “like” sulla tua pagina FB in un mese) ma sei anche stata aspramente criticata in quello che sembra un modo organizzato. Come mai è accaduto questo, quando il movimento è così giovane?
AB: Il governo non si aspettava una società civile così vigile. Pensavano: “Abbiamo avuto il terzo mandato, perciò adesso avremo il quarto e tutti staranno zitti”. Pensavano che in qualche modo fossimo morti, ma eravamo solo convalescenti. Stavamo imparando di nuovo a camminare, e presto saremo capaci di correre, e perciò di proteggere la Repubblica e la democrazia.
Il governo ha usato ogni tipo di propaganda per danneggiare la reputazione del nostro movimento. Hanno inventato così tante bugie, e ci hanno chiamati con tutti i nomi possibili, solo perché aspiriamo ad essere davvero cittadini e a difendere la democrazia. Ma non ci fermeremo. Loro hanno la capacità di infliggere danni con la propaganda perché hanno televisione e giornali a disposizione. Stanno tentando di alienarci l’opinione pubblica. Hanno detto che siamo gli “attrezzi degli stranieri”, che siamo sionisti. Hanno detto allo stesso tempo che siamo sostenitori del FSI e che siamo “sradicatori” (termine denigratorio per gli oppositori dei fondamentalismi) – tutto fa brodo per dare di noi una cattiva immagine. Ad ogni modo, terremo duro.
KB: Barakat è principalmente un movimento algerino che parla ad un pubblico algerino, ma avete un messaggio per la comunità internazionale?
AB: Siamo per la libertà di ogni popolazione e vorremmo che l’Algeria lavorasse con altri paesi, occidentali e no. Ma, vorremmo questo in un contesto in cui entrambi si vince, non in una situazione in cui dev’esserci un perdente.
Abbiamo sentore, ora, che il governo tenti di comprare il silenzio della comunità internazionale aprendo le valvole del petrolio. A noi piacerebbe che la libertà di un popolo non avesse il cartellino del prezzo. L’Algeria non è sola al mondo, aspira al lavoro con altri, ma questo deve andare a beneficio di tutti. E non vogliamo che alla nostra gioventù non resti altro sogno che un visto d’ingresso per fuggire in qualche El Dorado – paesi che spesso attualmente sono anche loro in crisi economica. Vogliamo giustizia e democrazia, e non c’è altro che possa portare alla pace fra i popoli.
KB: Come è stato il primo mese di Barakat per te, che sei una delle rappresentanti più visibili del movimento?
AB: Ho dovuto prendere 15 giorni di ferie al lavoro (sono una medica) perché sono stata malmenata durante i miei primi arresti. E’ stato duro per me perché ho avuto un’operazione chirurgica alla schiena, in passato. Torno al lavoro domani. Amo il mio lavoro.
Io penso che gli esseri umani non siano nati semplicemente per mangiare e dormire. Siamo nati per sognare la libertà, per rendere reali i nostri sogni, per difendere le nostre idee, per pensare. In Algeria vogliono impedirci di pensare e di esprimerci.
Per questo, io sono stata arrestata cinque volte. Sono stata arrestata anche nel 2011, e prima ancora, perché non è la prima volta che sono attiva contro questo governo. Non mi piace l’ingiustizia. Mi fa provare dolore, chiunque ne sia vittima. Immagino che sia un tratto del mio carattere.
Come vivo quel che sta accadendo? Non mi aspettavo tutta questa attenzione da parte dei media. In genere preferisco essere discreta, per cui è stato davvero difficile. Mi sono sentita sotto pressione, e anche i membri della mia famiglia sono stati sotto pressione.
Ma, se la la mia voce e la mia immagine aiutano la causa, allora ne vale la pena.

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