“Dimenticate le streghe, vi raccontiamo le nuove femministe – Tecnologiche, pragmatiche e con un nuovo alleato: gli uomini, anche loro “imprigionati dagli stereotipi di genere”.
Così “La Stampa” del 5 marzo u.s. Ho scorso l’articolo. E’ fatto di Taylor Swift – Beyoncé – Emma Watson e poco altro (campagne ad alta visibilità ma senza i nomi di chi le ha ideate) raccolto dal web. Cioè, le autrici non ci hanno raccontato niente che non fosse relativo alle “celebrità” come se il femminismo consistesse di donne famose che dichiarano di essere “femministe”, di solito con varie precisazioni e distinguo: moderna, che non odia gli uomini, trasgressiva, che cura la propria bellezza ecc.
“Sono giovani donne ironiche e superconnesse, non bruciano reggiseni e si depilano le gambe. Spesso non hanno letto Il secondo sesso di Simone de Beauvoir e schivano il lessico del femminismo teorico.”
Io sono una donna di mezza età, femminista dall’età di anni 14, sono connessa dal 1996, credo di riuscire a essere ironica e persino spiritosa di quando in quando, non ho mai bruciato reggiseni (con quello che costano!) e occasionalmente rado la parte inferiore delle mie gambe quando i peli, diventando troppo lunghi, mi causano prurito. Non sono un’eccezione. Nessuna nei circoli femministi a cui ho partecipato ha mai stigmatizzato una sola di queste mie attitudini e moltissime le condividevano.
Di Simone de Beauvoir, che è la santa fondatrice del femminismo solo per chi della materia non sa una beata fava, ho letto unicamente citazioni e estratti; non è mai stato obbligatorio leggere i suoi testi per essere una femminista e inoltre sono schifiltosa in fatto di prosa e purtroppo quella di de Beauvoir mi annoia anche quando dice cose giuste, rivelatrici e sensatissime.
In compenso, assieme alle mie sodali, leggevo e leggo molte altre autrici femministe. Dagli anni ’70 agli anni ’90 dello scorso secolo ho letto testi di Kate Millett, Germaine Greer, Carla Lonzi, Gloria Steinem, Angela Davis, bell hooks (le minuscole sono una sua scelta), Judith Butler, Gerda Lerner, Donna Haraway, Adriana Cavarero, Luisa Muraro, Rosi Braidotti, Luce Irigaray, Vandana Shiva, Robin Morgan, Evelyn Fox Keller… non ho fiato per nominarle tutte, ci vorrebbe un’enciclopedia. Con alcune sono pienamente d’accordo, da altre dissento poco o molto. Cosa sia il “femminismo teorico” ancora però lo ignoro: persino le filosofe, nella lista precedente, elaborano teorie da esperienze concrete e corporee e costruiscono pratiche in base a esse. Perciò, ignoro anche quale lessico le “nuove femministe” stiano schivando, a meno che non sia la propensione a non ascoltare nulla di quel che una donna più anziana di loro può dire.
Anche quello che “vogliono” secondo l’articolo è basato su una contrapposizione simile:
1. “Pensano (…) che per cambiare le cose si debba lottare insieme agli uomini – e molti loro coetanei sono d’accordo. (…) Per molte delle nuove femministe dei problemi degli uomini non si è parlato abbastanza, ed è ora di farlo.” (Sorry, girls, è: INSIEME CON, se non credete a me aprite un vocabolario.)
Infatti, da Mary Wollstonecraft (1759 – 1797) a Gualberta Alaide Beccari (1842 – 1906) a Anna Maria Mozzoni (1837 – 1920) non abbiamo MAI lottato con gli uomini, avuto uomini sostenitori o uomini alleati. E non abbiamo MAI prestato attenzione ai loro problemi:
Rosa Rossi, “Le parole delle donne”, 1978 Ed. Riuniti – Roma, pag. 71:
“Anche diventare “uomo”, nel senso dell’acquisizione di qualità “virili” come separate e opposte a quelle “femminili”, è infatti un progetto sempre costruito su categorie metafisiche (scisse cioè dall’empiricità dei maschi reali) (…) E’ a questo punto della riflessione che si profila il collegamento tra la condizione femminile (…) e il processo generale dei conflitti e dei progetti umani. La possibilità – per tutti – di un minimo o di un massimo di libertà (…) come può essere conquistata fuori di una progettazione comune della vita associata?”
Cettina Militello, “Donna e chiesa alle soglie del terzo millennio”, 1996, Stampa Alternativa – Roma, pagg. 26/27: “(…) occorre che le peculiarità maschili e femminili, quali che siano, si incontrino per dar vita a una riflessione di fede inedita e nuova. Una teologia inclusiva, capace di elaborare nuovi paradigmi, (…) che oltrepassi la dicotomia logos/soma (che iscrive) il maschio nella “ragione” sempre vincolando la donna nella rete di una “corporeità” che non può che essergli sottomessa. (…) Si tratta di riflettere da donne e con le donne, ma anche con ogni uomo di buona volontà, per sottoporre a vaglio e soprattutto espungere i pregiudizi residui.”
2. “Vogliono camminare per strada di notte senza essere molestate ed essere prese sul serio per quello che sono, senza dover rinunciare alla loro femminilità.”
Per quanto mi impegni, non credo di riuscire a “rinunciare” alla mia femminilità: sono femmina e non intendo cambiare sesso. A meno che con femminilità non si intenda la sovrastruttura sociale di genere che comprende principesse, concorsi di bellezza, codice di abbigliamento, pettegolezzi sulle celebrità, sono brutta sono grassa puzzo ho la vagina larga e le tette piccole non piaccio agli uomini non valgo nulla è meglio se muoio. Se qualcuna la trova soddisfacente sono meramente fatti suoi – e non femminismo, però – ma rinunciarvi NON HAI MAI EVITATO MOLESTIE E STUPRI E VIOLENZA DOMESTICA a nessuna, ne’ ha mai fatto prendere una donna “più sul serio” di un’altra. Fosse vero, saremmo entrate in massa nei luoghi decisionali grattandoci il coccige mentre camminiamo a gambe (pelose) larghe e sputando per terra il mozzicone di sigaro, ma non è successo. Non veniamo prese sul serio perché sulla nostra carta d’identità sta scritto “F” e come ci vestiamo non incide un fico secco sui millenni di odio buttati su quella “F” da ideologie, religioni, filosofie, legislazioni, tradizioni, costumi, storiografie, biografie, lezioni scolastiche, eccetera.
3. “Le nuove streghe sono anche pronte a prendersi poco sul serio o a farsi una risata su una battuta un po’ sessista, purché sia – e resti – solo una battuta.”
Oh già, non è che le battute (un po’ o tanto) sessiste fanno pena è che le femministe (vecchie) sono per antonomasia prive di senso dell’umorismo. “Alle cagne il male piace”, per esempio, è una frase divertente da morire, è solo una battuta e purché resti tale (e come si fa a saperlo? Com’è possibile controllare se chi l’ha detta/scritta non è solito pestare la sua ragazza-cagna, convinto che le se la goda a prenderle?) e soprattutto se è un uomo a dirla abbiamo il dovere di ridere come se ci fossimo sparate un bidone di elio su per il naso. Inoltre, ridendo obbedienti normalizziamo quotidianamente la degradazione del nostro genere: è bene prendersi poco sul serio, perché tanto – come abbiamo visto da paragrafo precedente – abbiamo difficoltà a essere prese sul serio da altri. Mi pare che la ricetta trabocchi di perfezione, ma non di femminismo: visto che non posso essere presa sul serio perché le donne sono tutte xyz (leggi “sterco”) e io sono una donna, dimostrerò che sono diversa dalle altre xyz che non ridono quando dicono loro xyz e l’uomo che ha appena detto xyz per questo mi stimerà e mi prenderà sul serio. Proprio. Non funziona, non ha mai funzionato e non funzionerà mai perché avvalora e non discute i pregiudizi e gli stereotipi su cui la “battuta” è costruita. Ridicolizzare le donne è qualcosa in cui la nostra società è già impegnata con tonnellate di commentatori, giornalisti, opinionisti, programmi televisivi, film, pubblicità ecc. 24 ore su 24, non c’è bisogno che le donne stesse diano una mano. Come diceva l’attivista femminista Florynce Kennedy: “Piscia sugli alti papaveri, non sulle altre donne”.
4. “All’approccio teorico e militante delle loro precorritrici preferiscono un’attitudine pragmatica, che guarda alla vita di tutti i giorni più che ai massimi sistemi.”
Difatti, dagli anni ’60 a oggi le precorritrici – che a meno di passaggio a miglior vita, vorrei ricordare, stanno ancora correndo – si sono fatte pere su pere di teoria e militanza e il quotidiano non sapevano che fosse. E’ per questo che, solo per produrre gli esempi più eclatanti, nel 1970 hanno ottenuto la legge sul divorzio, nel 1975 quella che istituisce i consultori familiari e la riforma della legge di famiglia (rimozione del crimine di adulterio, rimozione della discriminazione che colpiva i bambini nati fuori dal vincolo coniugale, maschio/femmina considerati eguali all’interno del matrimonio), nel 1978 quella sull’interruzione volontaria di gravidanza. Sono cose, egregie autrici di un pezzo a mio parere inutile e superficiale, che con la vita di tutti i giorni, la vostra, la mia, le vite delle innominate “nuove femministe”, quelle delle italiane del futuro, hanno molto, molto, molto a che fare. Sono conquiste che hanno comportato lavoro, fatica, persino sangue: Giorgiana Masi, nata nel 1958, fu uccisa nel 1977 a Roma prima di poter compiere 19 anni, mentre partecipava a una manifestazione femminista a sostegno della legalizzazione dell’aborto. Il suo assassino non è mai stato trovato.
Infine. “(…) nonostante la definizione apparentemente univoca del dizionario, secondo cui il femminismo è la «convinzione che uomini e donne debbano avere pari diritti e opportunità», non esiste – e non è mai esistito – un solo modo di essere femministe.”
Certamente. Sin dall’inizio, checché sembriate pensarne voi che avete scoperto il “femminismo intersezionale” grazie a Emma Watson (massimo rispetto, ma la teoria-pratica è in giro da dieci anni prima che lei aprisse bocca), abbiamo avuto separatiste – il sistema si può solo abbattere e riformiste – entriamoci e cambiamo dall’interno e utilitariste – diversi approcci a seconda dei diversi casi, e le persone LGBT hanno avuto sempre sin dall’inizio l’attenzione del movimento femminista, se non altro perché moltissime lesbiche ne hanno fatto / ne fanno parte. Così come l’intersezione dei vari strati dell’oppressione (razza, classe, abilità corporea, età) era qualcosa di cui discutevamo quando io ero un’adolescente, quarant’anni fa.
Adesso, rileggete la vostra affermazione (che suona, mi dispiace, come un pararsi il didietro dal dissenso) sulla “definizione apparentemente univoca” del femminismo e provate a riscriverla:
“(…) nonostante la definizione apparentemente univoca del dizionario, secondo cui il razzismo è una “concezione fondata sul presupposto che esistano razze umane biologicamente e storicamente superiori ad altre razze” non esiste – e non è mai esistito – un solo modo di essere razzisti.”
Oppure:
“(…) nonostante la definizione apparentemente univoca del dizionario, secondo cui il comunismo è una “dottrina politica, economica e sociale fondata sulla proprietà non individuale ma comune dei beni esistenti e dei mezzi di produzione” non esiste – e non è mai esistito – un solo modo di essere comunisti.”
Il presupposto per cui esisterebbero razze umane biologicamente e storicamente superiori ad altre razze costituisce la pietra miliare del razzismo. Senza tale presupposto non di razzismo si tratta, ma di qualcosa d’altro – e badate che l’alterità non sta comportando giudizi di merito.
Il presupposto per cui il comunismo è fondato sulla proprietà non individuale ma comune dei beni esistenti e dei mezzi di produzione è parimenti la sua pietra miliare. Senza tale presupposto non di comunismo di tratta, ma di qualcosa d’altro (come sopra per l’alterità).
Se non si è convinte che uomini e donne debbano avere pari diritti e opportunità, idea che è la pietra miliare del femminismo, non si sta facendo femminismo – femminismo è fare, non appiccicarsi un’etichetta in fronte – ma qualcosa d’altro. E per quanto resti valido che il discorso sull’alterità non sta implicando giudizi di merito, quando il fare altro mira a demolire, cancellare, travestire, banalizzare, annacquare il femminismo io ho tutto il diritto (e il dovere) di incazzarmi. Maria G. Di Rienzo

E di restare strega, perché mi va.
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