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(“Meet Mariama Sonko, Senegal” – Nobel Women’s Initiative, 1° dicembre 2017. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

Mariama Sonko

Contadina e organizzatrice per le donne rurali, Mariama è la coordinatrice nazionale di “Nous sommes la solution” (Noi siamo la soluzione) in Senegal, un movimento di agricoltrici per la sovranità alimentare che si sta diffondendo anche in Burkina Faso, Mali, Ghana e Guinea. Tramite le pratiche agro-ecologiche, Mariana e il suo movimento lavorano con le donne rurali per prendere il controllo dei propri mezzi di sussistenza e creare una forte rete di sostegno l’una per l’altra.

Puoi dirci qualcosa del tuo lavoro?

Il nostro movimento è nato dai dialoghi fra le organizzazioni degli agricoltori e la società civile su come resistere alle politiche agricole imposte dalle corporazioni multinazionali. Questo movimento è afro-centrato e propone l’agro-ecologia come alternativa per sostenere una maggior sicurezza alimentare in Africa.

Le donne giocano un ruolo indiscutibile in agricoltura: nella produzione, nella commercializzazione delle coltivazioni domestiche, nel consumo. Il nostro movimento è radicato nella visione di un’Africa in cui le donne rurali sono coinvolte in ogni processo decisionale e coltivano, vendono e consumano i prodotti delle loro fattorie di famiglia.

Come si è diffuso il vostro movimento sino a ora?

Abbiamo avuto un bel po’ di successo, principalmente perché siamo state capaci di rinforzare le capacità delle donne leader di esporre il valore del movimento proprio dal suo inizio. Ciò ci ha permesso di organizzarci con le donne coinvolte a livello di base e ora abbiamo una piattaforma di circa 100 associazioni locali.

Lavoriamo anche con i media, giornali e radio, per diffondere il nostro messaggio. Sebbene il movimento sia stato creato dalle donne ci siamo espanse e abbiamo incluso uomini, gioventù, politici e altre persone che credono nel nostro lavoro. Oggi abbiamo una fattoria modello diretta da donne rurali e un negozio dove vendiamo i nostri prodotti. Sta tutto nel trasformare le parole in azione.

Facciamo molto a livello locale, ma crediamo sempre di più che sia cruciale avere anche reti a livello internazionale, per dare maggiore visibilità al movimento. Questa può essere una risorsa potente per il nostro attivismo.

Quale ritieni essere la sfida maggiore che avete davanti?

Le donne sono le persone chiave, ma il loro lavoro non è compreso e neppure compensato. Perciò, questo è il motivo per cui dobbiamo continuare a costruire l’abilità delle donne di comunicare le nostre opinioni e di entrare in relazione con altri, di modo che sappiamo che cosa stiamo chiedendo e cosa dobbiamo fare.

Quale azione diresti essenziale per l’attivismo?

E’ essenziale essere collegati con altri movimenti in altri paesi, per sapere meglio cosa stanno difendendo e per cosa stanno lavorando e vedere come i legami d’alleanza possono essere più forti. Non possiamo limitarci a quel che facciamo noi. Dobbiamo conoscere cosa altri fanno per ricevere o dare lezioni che ci conducano a uno sviluppo più armonioso.

Cosa significa la parola “femminismo” per te?

Femminismo significa semplicemente giustizia sociale nella nostra comunità. L’ingiustizia verso le donne è stata presente sin dai giorni dei nostri antenati. Il femminismo corregge questa ingiustizia a livello locale, nazionale e internazionale. E questo è ciò che ci sprona a essere e lavorare nel movimento femminista globale, il tentare davvero di risolvere questa ingiustizia, di dare valore al ruolo che le donne svolgono e al loro posto nella nostra comunità.

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fatoumata diawara

“Da bambina ero una combina-guai.”, racconta la giovane donna ridendo sommessamente, “E avevo una star: ero la star di me stessa.” Guardo l’intervista televisiva a Fatoumata Diawara, intervallata da brani di performance ora intense e vibranti, ora scatenate e piene di un’energia irresistibile, e penso che è un’artista straordinaria. Ha imparato a suonare la chitarra da sé e di quando compone dice: “Ci siamo solo io, la mia voce, e un piccolo angelo che mi sussurra all’orecchio.”

Fatoumata Diawara ha trent’anni ed è del Mali, un paese in cui sta infuriando una guerra e in cui la paura cresce: “Avevamo sentito del nuovo gruppo islamista in Mali, ma penso che solo ora stiamo comprendendo quanto seria sia la situazione. Le cose sono davvero cambiate, l’energia delle persone a Bamako (la capitale, nda.) è cambiata. E poiché in Africa gli uomini se la passano comunque meglio delle donne, la mia preoccupazione è che gli uomini non affrontino questa situazione e permettano al gruppo islamista di separare il nord del paese, perché le cose che questo gruppo vuole non avranno un grosso impatto sugli uomini, ma ne avranno uno terribile sulle donne.”

In un’altra intervista (“Fatoumata Diawara Sings for Peace and the Emancipation of Women in Mali”, di Marco Werman per The World, 15.1.2013), Fatoumata spiega che con un sistema politico quasi completamente collassato, agli abitanti del Mali non si propone alcun modello di società che non sia militarizzata. Per questo molti di essi stanno guardando ai musicisti come guide: “Il popolo del Mali guarda a noi. Hanno perso completamente fiducia nella politica. Ma la musica ha sempre portato speranza nel nostro paese, è sempre stata forte e spirituale, ed ha un ruolo molto importante. Perciò, nella situazione attuale, la gente guarda ai musicisti per ritrovare un senso, una direzione.”

Il mese scorso, Fatoumata ha deciso di rispondere a questa richiesta e assieme ad alcuni dei migliori musicisti del Mali ha registrato a Bamako una nuova canzone. “Maliko”, così si chiama il pezzo, ha messo insieme artisti come il suonatore di kora Toumani Diabate, il chitarrista e cantautore Habib Koite e la leggendaria cantante Oumou Sangare. “Maliko” fa due richieste: la pace e l’emancipazione delle donne del Mali. “Perché – ribadisce Fatoumata – se c’è una jihad nel nostro paese, gli uomini saranno sempre in grado di fare compromessi con altri uomini, ma le condizioni di vita per le donne diventeranno durissime.” E’ difficile prevedere che impatto possa avere una canzone, ma Fatoumata Diawara crede possa essere d’aiuto.

Non ho mai visto una tale desolazione. – dice fra l’altro il testo di “Maliko” – Vogliono imporre la sharia su di noi. Dite al nord che il nostro Mali è un’unica nazione, indivisibile.

Maria G. Di Rienzo

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Il 6 ottobre 2012 centinaia di donne hanno manifestato a Timbuktu, in Mali, contro le nuove regole imposte dai fondamentalisti islamici armati (“Ansar Dine”, collegati a AQMI – Al-Qaida au Maghreb islamique) che in questo momento hanno il controllo della zona. La dimostrazione è stata dispersa a colpi di mitragliatrice. I fondamentalisti non si sono limitati a bandire la musica, il calcio e la televisione, a distruggere antichi edifici e a bruciare documenti medievali. Stanno frustando, lapidando, mutilando e uccidendo chi non si conforma alla loro distorta visione del mondo. Stanno compilando liste di madri nubili per poterle “punirle” adeguatamente.

Rifugiata del Mali in un campo profughi nigeriano.

E, com’è ovvio, hanno deciso che le donne del Mali devono vestire alla saudita. “Siamo stanche.”, ha detto una della manifestanti, Cisse Toure, “Ci hanno imposto i veli e adesso ci danno la caccia come se fossimo criminali perché non li portiamo.” Il cosiddetto “codice di abbigliamento islamico” è del tutto estraneo alla loro cultura: ma avete sentito qualcuno ergersi in difesa del loro diritto di preservare il loro modo tradizionale di vestirsi, per esempio quelli/e che parlano della “libertà” di indossare un burqa, eccetera?

Come nota l’iraniana Maryam Namazie: “Quando ci vorrà alla sinistra europea ed alle organizzazioni pro diritti umani per difendere le persone coraggiose che si oppongono ai fondamentalisti a rischio delle loro vite, anziché i loro oppressori ed assassini? Perché si dà per scontato che un’estrema destra religiosa e neo-fascista rappresenti il “vero Islam”? Perché si dà per scontato che coloro che si oppongono ad essa sono “rinnegati anti-islamici” e perciò, se sono uccisi, meritavano di morire? Perchè la sinistra europea continua ad usare la terminologia che i fondamentalisti stessi hanno creato: “sharia – legge islamica”, “islamofobia”, “fatwa”… una terminologia che i laici hanno persistentemente denunciato e decostruito? Nemmeno una resistenza al fondamentalismo durata dieci anni, in Algeria, e le sue 200.000 vittime, sono riuscite a cambiare il modo in cui la sinistra e le organizzazioni pro diritti umani vedono il fondamentalismo.” (da “Honour the Dissenters” – http://freethoughtblogs.com/maryamnamazie/2012/10/10/honour-the-dissenters/ ) Maria G. Di Rienzo

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Lo scorso 7 settembre 2012 una scuola femminile è stata fatta saltare in aria nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, Pakistan del nord. Due giorni più tardi, sempre nel nord, alla distanza di circa 160 Km., ne è stata bombardata un’altra. Nel 2011 i “militanti” islamisti (talebani) ne hanno fatte fuori 440, di scuole, in maggioranza femminili. Ma non è che siano dei maleducati: prima ti avvisano. Hanno iniziato a prendere di mira le scuole private, e quasi tutte hanno chiuso i battenti, poi sono passati a quelle statali e quando i responsabili hanno rifiutato di chiuderle le hanno ridotte in macerie. Anche quelle che sono ancora accessibili non hanno più studenti: voi mandereste a scuola le vostre figlie, se c’è un’alta possibilità che tornino a casa in un sacco nero? A volte i militanti si scocciano, sapete, e fanno saltare in aria gli edifici con le bambine ancora dentro (ottobre 2010). Dal nord del Pakistan, grazie a questi signori, stanno fuggendo migliaia di persone: le donne e le bambine, in particolare, stanno scappando disperate. Camminano per giorni interi e finiscono in campi profughi sovraffollati e mancanti di tutto, oppure si uniscono a famiglie di parenti lontani che già fanno la fame.

Prendete nota: queste bambine e queste donne, le bambine e le donne di tutto il mondo, sono la mia religione.

Oggi 17 settembre 2012, in Mali, i militanti islamisti “Ansar Dine” (“I difensori della fede”) hanno distrutto il masuoleo di Cheikh El-Kebir, un santo sufi (quindi musulmano) venerato anche in Algeria, Mauritania e Niger. Due mesi fa avevano vandalizzato altre due tombe nell’antica moschea di Djingareyber a Timbuktu e fatto a pezzi la porta sacra della moschea Sidi Yahya (15° secolo). Costoro hanno dichiarato che tutto quel che non gli garba, eredità culturali del loro paese comprese, è “haram”, proibito.

Prendete ulteriormente nota: questi monumenti, come i loro simili sull’intero pianeta, fanno parte della mia religione.

Ora, che la mia religione sia minoritaria o addirittura sconosciuta non fa nessuna differenza. Nessuno dovrebbe permettersi di insultarla in questo modo, e addirittura versando del sangue, non credete? Altro che film e vignette, cari militanti. Dunque, quali ambasciate devo andare ad assaltare, io? Quelle del Qatar e dell’Arabia Saudita, che con i soldi del loro stramaledetto petrolio stanno finanziando questi ed altri gruppi di fanatici idioti? Fucili, munizioni ed esplosivi non ve li tirano dietro come buoni sconto quando fate la spesa, costano. Che dite, vado ad assalire direttamente le ambasciate del Pakistan e del Mali per la vergognosa ignavia dei loro governi? Forse posso limitarmi a dare di stomaco mentre sento i soliti noti ripetere: “è vero, hanno ucciso, però bisogna capire, è la loro religione, tradizione, cultura… e poi, cavolo, quello che hanno fatto fuori era un bastardo imperialista americano, gli sta bene.”

Allora, come la mettiamo con la mia religione, le mie tradizioni e la mia cultura? Su quelle si può tirare frammenti di tombe violate e cadaveri di bambine come se niente fosse? Ah, dite che è perché non le conoscete? Ecco qua: la mia religione è la vita, le mie tradizioni sono il femminismo e la nonviolenza, la mia cultura sono i diritti umani. Però non sono sorda alle altre fedi; da ciascuna di loro, guarda un po’, ho tirato fuori la stessa regola d’oro:

“La natura umana è buona solo quando non fa a nessun altro ciò che non è buono per sé.” Zoroastrismo, Dadistan-i-Dinik.

“Ciò che è odioso a te, non farlo ad un altro essere umano. Questa è l’intera legge, tutto il resto sono commentari.” Ebraismo, il Talmud.

“Nessuno di voi è un credente sino a che non desidera per il proprio fratello ciò che desidera per sé.”, Islam, gli Hadith.

“Questa è la somma del dovere: non fare agli altri ciò che fatto a te ti causerebbe dolore.” Induismo, il Mahabharata.

“Tutte le cose che vorresti gli altri uomini facessero a te, falle ugualmente a loro: perché ciò dicono la legge e i profeti.” Cristianesimo, il Vangelo di Matteo.

“Non ferire gli altri con quel che darebbe dolore a te.” Buddismo, Udana-Varqa.

Maria G. Di Rienzo

Bimbe pakistane lasciano la scuola bombardata.

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