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confused

La grammatica, dicono i dizionari, è il complesso di principi (fonologia, morfologia, sintassi ecc.) che costituiscono il modo di essere e di funzionare di una lingua. Naturalmente gli idiomi evolvono accordandosi nel tempo ai cambiamenti sociali e culturali, perciò termini, modi di dire e le stesse norme si aggiustano man mano – tuttavia la necessità della struttura non scompare. La lingua parlata e scritta costituisce “l’attrezzo” principale tramite cui comunichiamo fra esseri umani e usarlo in modo corretto è fondamentale per farsi capire: non c’è nessuna coercizione, nessun insulto, nessuna prevaricazione nel pretendere l’uso corretto della lingua da chi interagisce con noi.

Se siete andati in ambulatorio con la tosse e il medico vi piazza lo stetoscopio sulle natiche anziché sulla schiena e alle vostre rimostranze vi dà del “Medical Nazi”, non diventa qualcosa di diverso da un incompetente non in grado di diagnosticare il vostro stato di salute.

Perché il problema è questo: la confusione e l’approssimazione linguistica nell’esporre una tesi, un concetto, un’opinione segnalano disordine di pensiero e superficialità non solo grammaticale ma assai spesso anche sostanziale rispetto alla materia trattata.

Per me è assurdo e non accettabile prendersela con chi non ha avuto modo, o persino voglia, di studiare e sbaglia congiuntivi e accenti; chi non tollero al proposito, oltre ovviamente a coloro che della lingua fanno professione come giornalisti e docenti, sono i “politici” – laureati o meno – che hanno, hanno avuto o desiderano avere in futuro potere decisionale sulla cosa pubblica, perché quest’ultima riguarda circa 60 milioni di cittadini (me compresa), i loro diritti e la loro libertà, il loro lavoro, la loro salute.

Poiché questi istituzionali analfabeti (l’ordine dei termini non è casuale) sono incapaci di assorbire e articolare una struttura linguistica, che è loro per nascita e comunità, che ascoltano e leggono tutti i giorni, è lecito dubitare delle loro capacità di comprendere un testo, di approfondire un argomento, di vedere e ascoltare quel che hanno sotto gli occhi e a portata d’orecchio.

8 giugno 2020, Danilo Toninelli, ex ministro, senatore:

“Pure il Tar boccia le scelte del governo lombardo sulla sanità. Stavolta sui test seriologici. Questi politici sono dei disastri!”

I test sono sierologici e però bisogna farli seriamente, dai, era una sinergia… Affidereste la cura di un semplice cactus a questa persona? Io no. Figuriamoci se la reputo adatta a stare in Parlamento.

9 giugno 2020, Emanuele Filiberto di Savoia annuncia la sua “discesa in campo per il futuro dell’Italia” con un “think tank composto da politici, imprenditori, intellettuali” (è dal 2005 che “scende”, si è presentato alle elezioni nel 2008 e nel 2009 e il precedente “pensatoio” era composto da evasori, truffatori e mafiosi). Intervista:

“Lei è tra coloro che sono convinti di una sudditanza dell’Italia nei confronti dell’Europa?” Risposta del nobil signore: “Ce l’abbiamo cercata noi.” Ma resta a casa tua a Monte Carlo (lingua ufficiale: francese), per carità, non disturbarti a continuare a scendere in Italia.

Maria G. Di Rienzo

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deborah levy

“Dà speranza quando i bambini creano una lingua che nessuno, tranne i loro compagni, può capire. E’ sperimentale, arguto, un po’ folle – il che è una buona cosa. Al minimo, i bimbi della nostra nazione hanno realizzato un’innovazione collettiva. Sì, lascia ben sperare che il linguaggio possa essere smontato e rimesso insieme in modo differente. E’ qualcosa di cui tutti dovrebbero far pratica.

Dà speranza che la lingua del patriarcato, che attualmente sta avendo il suo ultimo rantolo nel distruggere la Terra, sia stata smascherata dal movimento femminista globale, il che ha fornito a ciascuno un altro tipo di linguaggio. A un certo livello intuitivo, tutti sappiamo che il personale è politico.

Quando gli uomini si eccitano nell’insultare studenti di sesso femminile perché ci hanno dato informazioni scientifiche corrette sul clima, noi capiamo che le donne e i bambini nelle loro vite non sono al sicuro. Lascia davvero ben sperare che più gente al mondo sappia questo, piuttosto che non lo sappia.”

Deborah Levy – poeta, scrittrice, drammaturga inglese nata nel 1959 – dal suo libro “The Man Who Saw Everything” (2019), trad. Maria G. Di Rienzo.

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La vicenda di Erika, a cui fa riferimento il pezzo di ieri, è a questo punto: ha cancellato i suoi spazi social e ha dichiarato in un messaggio affidato a terzi di aver scattato la foto con intenzioni diverse da quelle che le sono state attribuite. In tale testo spiega di aver ricevuto “insulti pesanti, minacce di morte, intimidazioni varie e materiale pornografico” e conclude con “il cyberbullismo esiste e quest’oggi io ne sono stata vittima. Le parole possono fare male più di quanto crediate e questo, purtroppo, non sembra essere un parere condiviso.” La 19enne afferma inoltre di non interessarsi di politica e smentisce di essere una “sardina”.

E’ un disinteresse che troverà alimento in questa sua esperienza: per due giorni interi, dei “professionisti” pagati dall’intera nazione invece di dedicare le loro energie a politica fiscale, politica industriale (ex Ilva, Alitalia), giustizia, nomine, trattati internazionali ecc. si sono occupati di lei.

Fra post e interviste, Salvini è apparso particolarmente ossessionato: “Se fosse mio figlio due schiaffi non glieli toglierebbe nessuno quando torna a casa. A quella ragazzina l’educazione civica sui banchi di scuola servirà.”, “Speriamo di avere una vicina di volo educata” ecc., ma gli altri non sono stati da meno.

Daniela Santanché: “In che mondo siamo arrivati? Non sarà mica una sardina quella ragazza? Anche io l’ho fatto, sì, (il dito medio) ma ai centri sociali che mi urlavano contro cori a sfondo sessuale decisamente non piacevoli. Cosa c’entra con il gesto di una ragazzina? Non è certo bello a prescindere dall’appartenenza politica, condanno il dito medio e mi interrogo da madre. Salvini, che piaccia o non piaccia, è il leader di (un) partito.”

Roberta Ferrero: “Ecco a voi la coraggiosa del giorno. Fa il medio a Matteo Salvini, mentre dorme. (Poi vanno alle manifestazioni delle sardine per dire che in Italia c’è un linguaggio d’odio.)”

Maurizio Gasparri: “Il gesto di quella ragazza è vile, proprio perché rivolto a una persona che dormiva e non poteva rispondere. Sicuramente si tratta di una mentecatta che voleva dimostrare di esser coraggiosa. Lo feci anche io (sempre il dito) ma in risposta a una turba di grillini che davanti alla Camera mi insultavano e mi minacciavano addirittura di morte.”

Roberto Calderoli: “Avrei dei suggerimenti per la ragazza su dove potrebbe mettersi il dito. Viva la democrazia sempre, ma farlo a uno che dorme richiede un coraggio da leone di cartone. Io l’ho fatto più volte ma sempre rivolto a soggetti che erano in grado di rispondere. Quel gesto rivolto a una persona che dorme è di una viltà assoluta. Sarebbe dovuta esser coerente fino in fondo, magari Salvini le avrebbe risposto. Chissà, con una carezza.”

A questo punto i farabutti da tastiera si sono scatenati, sino al punto di augurarsi che la ragazza fosse “stuprata a turno” eccetera, perché gli elementi dell’aggressione erano già stati forniti dai loro idoli: 1) sicuramente Erika era un’ipocrita e vigliacca “sardina” (strumentalizzazione); 2) meritevole di schiaffi e di suggerimenti “su dove potrebbe mettersi il dito” (sdoganamento della violenza). Lo scenario immaginato da Calderoli, ove raffigura la possibile carezza di Salvini, contiene anche lo sconfinamento nel privato del corpo: l’ex ministro sarebbe autorizzato a mettere le mani addosso a una sconosciuta se questa gli rivolge un gesto qualsiasi ma ciò resta una violenza comunque lo si faccia, con carezze o ceffoni.

Per cui, gentile signora Ferrero, la risposta alla sua implicita domanda è “Sì, in Italia c’è un linguaggio d’odio assai diffuso e lo schieramento politico a cui lei appartiene lo usa troppo spesso.”

Maria G. Di Rienzo

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Più il tempo passa, più mi convinco che non avere (da oltre trent’anni) la televisione sia un’ottima idea. Non fa informazione, la manipola. Non fa intrattenimento, spara stereotipi e insulti. Non ha linee guida etiche e professionali a cui attenersi. E’ un minestrone al meglio insipido e al peggio velenoso. Conduttori e conduttrici dei programmi sono così superficiali, incapaci e sprovveduti da sembrare pescati a caso in una lotteria fra “gli amici di”, “i parenti di”, “gli/le amanti di” e “i raccomandati da” (e forse lo sono).

Cominciamo da qui:

ordine e disciplina

Lo scontro fra Massimiliano Minnocci (“Er Brasile”), la giornalista Francesca Fagnani e il vignettista Vauro Senesi, di cui molto probabilmente siete a conoscenza, è descritto dal conduttore Paolo Del Debbio (Rete 4) così:

“Tensione alle stelle in studio tra @VauroSenesi e un fascista presente in studio. Vauro a muso duro gli si pianta davanti e lo apostrofa malamente.

Che ne pensate? Ora a #DrittoeRovescio”

Messa così, con l’omissione della minaccia di Minnocci alla giornalista (“Te li faccio vedere io i film, se vieni nella mia borgata…”) che a sua volta suscita la reazione di Vauro, sembra che quest’ultimo sia un incontenibile bullo cafone. Cos’altro ne può pensare chi ha letto il tweet ma non ha visto la trasmissione?

Presentare la situazione in questo modo è “professionale” quanto “i cori fascisti negli stadi e i casi di violenza e intolleranza” che il programma dichiarava di voler esaminare… e infatti si trattava, come per moltissimi altri prodotti simili, di una dichiarazione vuota: lo scopo reale sta in quel gongolante “tensione alle stelle” che fa audience e share. Se fossero volati un paio di cazzotti sarebbe andata ancora meglio, no? Rimbalzi su prime pagine e social media, tanti likes, tante condivisioni, tanti followers ecc. ecc. – perché, non esclusivamente in televisione, le parole hanno perso senso e significato, si può dichiarare tutto e il contrario di tutto (in special modo quando degli argomenti in questione non si conosce nulla oltre i propri pregiudizi), come se quel che si dice non avesse alcuna sostanza e nessun impatto su chi ascolta. Petardi. Scintille. Fumo.

Nelle tue interazioni verbali sii pure minaccioso, insultante, sessista, misogino, razzista, omofobo, fascista, nazista. Sono solo parole, no? Anzi, meglio: sono “opinioni” e “provocazioni” o “ironia” e “goliardia”. Tutto a posto, le solo parole possono continuare ad alimentare ogni tipo di violenza con il beneplacito di chi così argomenta.

Caso n. 2:

“Vittorio Sgarbi continua a provocare (sic) in tv. Ospite di Caterina Balivo a “Vieni da Me” (…) ha risposto a una domanda della conduttrice – che gli chiedeva se sapesse «fare la lavatrice» – esclamando: «No, io non faccio nulla. Io ho una visione e ti devo dire una cosa: le donne devono stare in casa e gli uomini devono andare fuori.» Caterina Balivo, con tono ironico, ha risposto alla provocazione (sicet simpliciter): «Posso dire che hai quasi ragione? La penso come te! Noi donne a casa!». La reazione a sorpresa della conduttrice napoletana, con ogni probabilità, aveva lo scopo di distogliere l’attenzione dall’affermazione di Sgarbi, facendola passare per uno scherzo.”

Purtroppo a molte/i la provocazione e lo scherzo non sono piaciuti, così la conduttrice ha iniziato ad arrampicarsi sugli specchi:

“Quando inviti Sgarbi tutto può succedere… Come anche non essere d’accordo su alcune sue affermazioni. (…) Nelle mie parole c’era del sarcasmo che non tutti hanno colto, dovreste conoscermi ormai. Ma come si fa a pensare che parlassi seriamente? Sono una conduttrice donna che lavora da 20 anni in televisione, (…) sono sposata e ho tre figli in casa, come si fa ad immaginare che io sia contro l’autonomia delle donne?”

Sig.a Balivo, il suo pubblico non è tenuto ad immaginare niente ne’ a fare ricerche sulla sua biografia. Quel che lei dice è quel che la gente davanti alla tv sente: chi l’ha presa alla lettera non può essere accusato di “non aver colto” il suo sarcasmo. Evidentemente lei non l’ha espresso in modo inequivocabile. Quando si invita Sgarbi tutto può succedere? Faccia a meno di invitarlo. Non si tratta di “non essere d’accordo su alcune sue affermazioni”, si tratta di lasciar passare tramite media affermazioni discriminatorie. Continuare a trattarle da provocazioni e opinioni e scherzi le legittima. E lei lo sa.

Tuttavia, se voleva essere gioviale e sarcastica e immediatamente compresa come tale poteva per esempio rispondere: “E’ proprio una visione! E per di più medievale! Ma d’altronde tu sei uno storico dell’arte…”

Alla reazione negativa all’episodio, ribadisco, chi conduce il programma televisivo in cui si è dato non può chiamarsi fuori accusando il pubblico di essere idiota (non avete capito) o in mala fede: “(…) mi sembra che più di un utente abbia usato la mia frase sarcastica per avere qualche condivisione e qualche retweet in più!”

Gli utenti di cui parla avrebbero probabilmente apprezzato una sua riflessione sull’accaduto, un minimo di assunzione di responsabilità, un dubbio – persino se piccolissimo: “Forse la mia reazione doveva/poteva essere diversa”. Adesso sanno solo che lei li considera stupidi o avvoltoi: non penso ne avrà un grande ritorno, in termini di popolarità.

In merito al caso precedente, cioè “Dritto e Rovescio”, Debora Serracchiani del PD ha esortato il suo partito a non partecipare più a “trasmissioni televisive che incitano all’odio e alla violenza”. Sottrarsi è una tecnica nonviolenta rispettabilissima e spesso efficace. In termini di offerte televisive, però, gli spazi che possono essere descritti in modo diverso da “trasmissioni che incitano all’odio e alla violenza” sono davvero pochi: sia perché conduttori e conduttrici non hanno alcun interesse a renderli tali (audience, share, titoli in prima pagina), sia perché a trasformarli in luoghi tossici basta invitare Sgarbi o un neofascista dichiarato e aspirante dittatore/duce: “Nella mia borgata vige ordine e disciplina. Devi fare quello che dico io”.

Maria G. Di Rienzo

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woman soccer player - dan sproul

“Apriti cielo.”, dice l’articolo di Repubblica mostrando tutto il fastidio di chi scrive, “E alla fine il dirigente giallorosso si scusa con le donne che si sono sentite offese.” I lettori (uomini) concordano: polemiche pretestuose, dibattiti ridicoli, polemiche senza senso, politicamente corretto portato alle estreme conseguenze (???).

E’ successo che il sig. Petrachi, direttore sportivo della Roma, protestando per un gol annullato alla sua squadra – nell’occasione il difensore del Cagliari Pisacane è stato portato fuori dal campo in barella con collare e maschera d’ossigeno – abbia spiegato furibondo che “Il calcio è un gioco maschio, non è per ballerine. Altrimenti ci mettiamo tutti le scarpine e andiamo a fare danza classica no? Questo è un gioco di maschi”.

Ribadendo che epoche e società si evolvono, la ct della nazionale di calcio femminile Milena Bertolini e la capitana della stessa Sara Gama hanno detto al proposito la stessa cosa che ripetiamo in tantissime da anni e anni e anni: “Quando si parla si deve stare attenti, le parole sono importanti e danno significato ai nostri pensieri.” (Bertolini) – “Il linguaggio plasma la realtà (…) è importante e dimostra che, per quanto cerchiamo di progredire, per il cambio culturale serve tempo. (…) E’ un’uscita ampiamente infelice in un tempo ampiamente sbagliato.” (Gama)

L’articolista però non ci sente: “Carolina Morace lo difende”, fa notare e riporta la dichiarazione della stessa per cui lei direbbe le stesse cose se le sue calciatrici “giocassero in punta di piedi”, sino a ricordare loro “non siamo ne’ signorine ne’ ballerine”. A questo punto, secondo Repubblica, parlando con l’Ansa “Gianluca Petrachi, ds della Roma, ripristina la realtà storica” (sic): era arrabbiato, voleva sottolineare che il calcio è ed “è sempre stato uno sport fisico e di contatto” e “alla Roma siamo molto orgogliosi della nostra squadra femminile e di promuovere il calcio femminile”. Naturalmente, “se qualcuno si è sentito offeso” il mister si scusa.

Ecco, femministe del menga, incartate e portate a casa: avreste dovuto tenere la bocca chiusa, invece di “cercare visibilità” con questi mezzucci (come rimprovera severo un lettore).

A me si apre un cielo di disperazione in testa quando constato che l’espressione linguistica è sempre meno collegata a senso e comprensione. Seguitemi un attimo:

1. La menzione del “gioco maschio” fisico e di contatto ecc. è una giustificazione della violenza in campo e la reiterazione della violenza stessa come tratto mascolino ab origine: è quindi lecito e normale sfasciare un avversario e farlo uscire dal campo in barella.

2. La mascolinità così espressa è definita e affermata per paragone che svilisce e svaluta la femminilità. Se gli uomini sono forti e aggressivi e naturalmente violenti, le donne non possono che essere riflesse in questo specchio come deboli e passive e “signorine ballerine”.

3. Ne’ Petrachi ne’ Morace, ne’ chi ha redatto il pezzo ne’ i commentatori, hanno la più pallida idea della durezza dell’addestramento a cui si sottopongono le bambine, le ragazze e le donne che fanno danza classica. Probabilmente a volte preferirebbero tirar calci a un pallone in un campo fangoso sotto una pioggia torrenziale: per faticare un po’ di meno.

4. Asserire che dopo i mondiali femminili di calcio Bertolini e Gama abbiano bisogno di visibilità a spese del ds Petrachi (chi è, scusate?) dimostra solo un pensiero per cui gli uomini sono l’ombelico del mondo, il centro di tutto e la giusta misura per qualsiasi cosa.

5. La frase “Se qualcuno si è sentito offeso” implica che chi la dice non può aver offeso nessuno. L’onere della violenza, verbale e fisica, ricade sempre su chi la subisce – costui o costei deve provare non che sanguina (questo quando accade è evidente e non può essere negato) ma che sia davvero “violenza” l’azione che gli ha aperto la carne. Qualcuno può “sentirsi” ferito, ma se chi impugnava la lancia dice che l’ha solo scossa per farsi vento basta far seguire all’atto delle scuse insincere e inutili: quanto alla richiesta di rimettere la lancia nella rastrelliera e di sventolarsi con un ventaglio, questo no, mai, per nessuna ragione.

Ed è proprio ciò che vi stiamo chiedendo, di deporre le armi sessiste con cui infestate il linguaggio, di porre fine alla vostra guerra insensata contro le donne, di riflettere su quanta sofferenza sta dietro agli stereotipi che ci appiccicate addosso. Apriti, cielo.

Maria G. Di Rienzo

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Sui quotidiani, data odierna: “La maglietta shock del vicesindaco: “Se non puoi sedurla, puoi sedarla”. La Lega: “Non è nostro iscritto, è di Fdi”. Loris Corradi, esponente del partito di Giorgia Meloni, ha esibito la scritta sul palco della festa del paese, vicino a Verona. (Nda: Roverè) È il momento delle estrazioni per la lotteria, Loris Corradi si presenta sul palco con un maglietta rossa che ha sul davanti la scritta: “se non puoi sedurla…”. È la presentatrice della serata a svelare che sulla schiena la frase continua con “… puoi sedarla”.”

buffone

Diversi giornali, a rinforzo preventivo di quella che sarà l’ovvia risposta alle polemiche già in corso (“Era uno scherzo”, “Siete senza senso dell’umorismo” ecc.) sottolineano già negli incipit che “il pubblico” si sarebbe divertito – i distanti per area sociopolitica definiscono la reazione degli astanti “risatine”, i simpatizzanti belle e rotonde “risate” indice di pieno consenso.

Quel che il trentacinquenne sig. Corradi ha fatto è definito “atto sessista” e persino “molestia sessuale” da tutta una serie di ricerche e studi che hanno ispirato protocolli interni di istituzioni – università – imprese, leggi nazionali e convenzioni internazionali (per esempio la Convenzione di Istanbul che l’Italia ha sottoscritto).

Trattando con leggerezza (“era solo goliardia”) lo stupro, l’oggettivazione sessuale delle donne e la discriminazione delle donne, questo tipo di “umorismo” – che in molte siamo davvero felici di non avere – ha la funzione di favorire e far crescere:

1) l’accettazione dei miti sullo stupro (lui non ha potuto trattenersi, lei sotto sotto lo voleva, lei lo ha provocato ecc.) – cfr. Ryan e Kanjorski, 1998;

2) la tolleranza di accadimenti sessisti – cfr. Ford, 2000; Ford, Wentzel e Lorion, 2001;

3) la tendenza allo stupro – cfr. Romero-Sanchez, Durán, Carretero-Dios, Megías e Moya, 2010; Thomae e Viki, 2013;

4) la volontà di discriminare le donne – cfr. Ford, Boxer, Armstrong e Edel, 2008;

5) l’accettazione del sessismo nella società – cfr. Woodzicka, Triplett e Kochersberger, 2013.

Quindi, che qualcuno ci rida sopra oppure no, la maglietta del vicesindaco resta un’aggressione simbolica che legittima quelle reali.

Il linguaggio, come i politici dovrebbero sapere bene, è un attrezzo potente. Non solo ci permette di esprimerci, di conversare e di comunicare, ma crea le narrazioni tramite cui noi leggiamo e spieghiamo il mondo intero: esse possono confermarci il nostro senso di appartenenza o il nostro senso di marginalizzazione, ci dicono chi merita la nostra solidarietà o la nostra indignazione, ci suggeriscono di cosa avere paura e di cosa fidarci, hanno impatto diretto sulla nostra salute mentale e di conseguenza su quella fisica.

Il sig. vicesindaco vuole sapere che effetto ha direttamente il sessismo sulle donne?

A livello psicologico: depressione, ansia, trauma, frustrazione, paura, insicurezza, imbarazzo, vergogna, senso di colpa, senso di isolamento;

a livello fisiologico: emicranie, letargia, anoressia / bulimia, incubi, attacchi di panico, problemi sessuali;

nella vita lavorativa e scolastica: crescente insoddisfazione, assenteismo, ritiro o dimissioni, caduta dei risultati accademici o professionali a causa dello stress.

Il sig. vicesindaco vuole conoscere l’effetto sociale del sessismo?

La diffusa convinzione collettiva che ogni menzogna, stereotipo o mito sulle donne, chiunque sia a diffonderlo, sia verità assoluta, naturale o rivelata da qualche divinità. Se quel che senti da quando sei in grado di capire/usare la tua lingua è che le donne sono stupide, deboli, passive, manipolative, prive di capacità intellettuali o comunque di capacità che permettano loro di rivestire ruoli guida, meri attrezzi per il piacere sessuale maschile e semplici arene per il dispiegarsi di “fine” umorismo goliardico e ironico ecc. ecc. il primo risultato, se sei maschio, è trattare le donne di conseguenza. Inoltre, il sessismo protegge i tuoi privilegi e la tua posizione superiore, per cui colludere è pur sempre un vantaggio.

Ma c’è una seconda conseguenza logica, perché gli stessi messaggi arrivano a bambine e donne, creando misoginia e sessismo in molte di loro stesse: apprendono ad agire le menzogne e gli stereotipi sul proprio conto, a dubitare continuamente di se stesse e delle altre, a rovesciare l’ostilità che la costante aggressione sessista crea sulle loro simili… perché se la discriminazione sessista dev’essere mantenuta e passata alle prossime generazioni, tutti/e dobbiamo credere in una certa misura ai messaggi che riceviamo e dobbiamo rivestire i ruoli che essi ci assegnano. E’ quel che ha fatto la presentatrice della serata di Roverè.

Maria G. Di Rienzo

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Come ho detto (e raccontato in numerosi casi specifici) altre volte, la generazione di Greta Thunberg che lotta per salvare il pianeta dalla catastrofe climatica e di Olga Misik che lotta per ridare senso alla democrazia, comprende in tutto il mondo giovanissime attiviste ugualmente brillanti per passione, intelligenza e coraggio.

Quelle che cito oggi fanno parte di “Girl Up”, un movimento globale per l’eguaglianza di genere ispirato dalle Nazioni Unite a partire dal 2010. L’istituzione riconosce gli sforzi per il cambiamento sociale operati da queste ragazze e li sostiene, perché da qualsiasi retroscena esse provengano mostrano il potere della trasformazione di se stesse, delle loro comunità e del mondo intero che le circonda: “Eppure, le ragazze continuano ad avere scarso accesso alle opportunità. – spiega la presentazione di “Girl Up” – Ciò è sbagliato. E’ ingiusto. E, detto chiaro e tondo, non è furbo. (Ndt: è dimostrato che l’economia di una nazione ove le donne hanno eguali opportunità migliora sensibilmente.) Dobbiamo lavorare verso un mondo ove tutte le adolescenti possano andare a scuola e dal medico ed essere protette dalla violenza. Ciò è il fattore critico per ridurre la povertà e per dare spinta al cambiamento economico e sociale. Ottenere questi risultati non sarà un compito facile e non accadrà nello spazio di una notte, ma questa non è una scusa per non agire. In effetti, è la ragione per migliorare il nostro impegno collettivo, perché quando investi in una ragazza, tu stai investendo nella sua famiglia, nella sua comunità e nel nostro mondo.”

Durante l’ultimo incontro internazionale delle giovani attiviste, nel luglio scorso, sono state effettuate diverse interviste in cui le ragazze parlano della misoginia e del sessismo che incontrano nella loro vita quotidiana (il che comprende spesso l’atteggiamento dei loro stessi parenti). Tutto molto noto a noi attiviste più vecchie. Le giornaliste Luisa Torres e Susie Neilson hanno posto alle ragazze anche una domanda inconsueta e cioè qual era il termine con cui sono definite, per il loro lavoro sociale, che produce in loro maggior frustrazione. Di seguito qualche risposta:

attiviste

(da sin. Valeria Colunga e Eugenie Park)

Valeria Colunga, 18 anni, Monterrey, Messico.

Femminazista“. Valeria si dice nauseata da questo termine perché indica la mancanza di conoscenza di ciò che è il femminismo. Molte persone, sottolinea, si dicono “umaniste” anziché “femministe” per evitare l’insulto, perciò lei si prende puntualmente la briga di chiarire che si tratta di due cose differenti. “E’ faticoso. – ammette – Ma se devo spiegarlo all’infinito lo farò. Perché, se non lo faccio io, chi lo farà?”

Eugenie Park, 17, Bellevue, Washington.

Guerriera per la giustizia sociale“. “In se stesso, quando lo senti, sembra una cosa incoraggiante. – dice Eugenie – Ma nella realtà, è un termine usato per minimizzare un bel mucchio di lavoro che i giovani compiono per la giustizia sociale, facendo apparire le attiviste e gli attivisti come se stessero semplicemente facendo qualcosa di trendy.

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(Lauren Woodhouse)

Lauren Woodhouse, 18, Portland, Oregon.

Influencer“. Lauren sostiene che questo termine, riferendosi a una persona con del “potere sui social media”, riduce l’attivismo a qualcosa di individualistico e di moda anziché dare riconoscimento alla sua dimensione sociale. “Quando le corporazioni economiche ti dicono questa è l’influencer da seguire e il suo è il femminismo che vogliamo è veramente noioso e stancante. Ho chiuso con roba del genere.”

Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “Science doesn’t belong to men. Here’s the proof”, di Afua Hirsch per The Guardian, 2 ottobre 2018, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo)

cern logo

Se c’è un posto che dovrebbe essere immune dal nostro flagello planetario di bufale, pensereste che tale luogo è il regno della fisica nucleare. Il Cern – il Centro di ricerca nucleare a Ginevra, attualmente al centro di un baccano sessista – spende un miliardo di dollari l’anno cercando prove su una particella, per l’amor di dio. Questi individui maneggiano i fatti come nessun altro.

Ciò non ha impedito al fisico di sesso maschile Alessandro Strumia di usare un discorso al Centro per fare affermazioni totalmente prive di senso sulle donne che non avrebbero dato contributi alla fisica e che ora godono di così tanto sostegno per entrare nella scienza che gli uomini sono diventati vittime di discriminazione.

Posso solo pensare che Strumia stia seguendo la ben collaudata tecnica del fare qualche commento essenzialista che non ha base nei fatti e quando si è investiti dal contraccolpo – Strumia è già stato sospeso dall’Università di Pisa – diventare martiri, cadendo nobilmente sulla spada tenuta dalle mani della militanza politicamente corretta.

Solo i politicamente corretti, presumibilmente, sarebbero distratti da una storia di donne che hanno dato contributi fondamentali alla fisica, sebbene a molte sia stato negato lo stesso riconoscimento conferito ai loro contemporanei maschi perché, come Sophie Germain – una pioniera delle scoperte sull’elasticità in era napoleonica – sono state ignorate a causa del loro sesso; o, come Rosalind Franklin, che ha scoperto le strutture interne del DNA, sono morte giovani; o, come nel caso di Ipazia, sono state assassinate da zeloti maschi.

E non perdete troppo tempo con le statistiche contemporanee sulle donne nella scienza, che mostrano come lo scorso anno esse formavano poco meno di un quarto della forza lavoro scientifica nel Regno Unito. La cifra globale delle donne in ruoli di ricerca e sviluppo nella scienza ammonta a poco meno di un terzo.

Non sono sicura di quanto Strumia abbia elaborato al proposito – i suoi commenti sono stati rimossi dal sito web del Cern che, incidentalmente, è guidato da Fabiola Gianotti, una delle fisiche più prominenti. Forse è d’accordo con Tim Hunt, il fisico dell’University College di Londra che nel 2015 disse come il problema nel permette alle “ragazze” di entrare nei laboratori fosse che “ti innamori di loro, loro si innamorano di te, e quando le critichi piangono.”

Questi scienziati possono essere misogini isolati. Ma io sospetto ci sia qualcosa di più profondo che sta accadendo. Viviamo in una società guidata da credenze altamente relative ai generi sulle abilità essenziali. Gli uomini, siamo incoraggiate/i a credere – non per ultimo da una litania di libri di auto-aiuto – sono razionali, orientati al prestigio, competitivi e, è probabilmente ragionevole presumere, bravi nella fisica nucleare. Le donne sono empatiche, emotive e brave nella comunicazione e nel familiarizzare. Affermazioni per cui le donne direbbero 13.000 parole al giorno più degli uomini, sebbene regolarmente sconfessate dagli accademici, aiutano a condizionarci a credere che le donne sono veramente migliori nelle doti comunicative.

Queste idee sono sempre state problematiche in se stesse, ma sono anche caricate di un’ideologia del tutto nuova. Nel Regno Unito, per esempio, la globalizzazione ha creato maggiori opportunità di lavoro nel settore dei servizi e nella manifattura. E questi lavori, in particolare quando implicano il contatto diretto con i clienti, premiano le doti relative a linguaggio e comunicazione. I ricercatori hanno scoperto, per esempio, che i direttori dei call center hanno interiorizzato le credenze sulla superiorità di parola delle donne e favoriscono le loro assunzioni.

Il risultato è un vicolo cieco in cui perdono tutti. L’ansia della classe lavoratrice maschile può ben essere collegata alla sensazione – conscia o no – che gli uomini sono fondamentalmente mal equipaggiati per gli impieghi del futuro, mentre le donne continuano a sperimentare gli stereotipi sessisti e ad essere assiepate in ruoli dal basso salario e di basso livello.

Perché nel mentre l’avere una buona alfabetizzazione emotiva aiuta a lavorare nei call center, non è una strada per arrivare a quel tipo di ruoli guida altamente retribuiti che sono ancora dominio degli uomini. Di certo, non fa nulla per dissolvere vecchi pregiudizi sulla capacità delle donne di lavorare nella scienza e nella tecnologia.

Non posso fare a meno di chiedermi se Strumia stia eseguendo una sorta di rituale territoriale. Prendendo in prestito un altro stereotipo obsoleto sul tipico comportamento maschile: se le donne stanno andando a prendersi altri settori allora la scienza, più che mai, dovrebbe appartenere agli uomini.

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(Lo desideravo da tempo, per cui ringrazio e – nel mio piccolo – rilancio. Maria G. Di Rienzo)

Commissione Pari Opportunità della Fed. Naz. Stampa Italiana

Usigrai

Giulia Giornaliste

Sindacato Giornalisti Veneto

MANIFESTO DELLE GIORNALISTE E DEI GIORNALISTI PER IL RISPETTO E LA PARITA’ DI GENERE NELL’INFORMAZIONE CONTRO OGNI FORMA DI VIOLENZA E DISCRIMINAZIONE ATTRAVERSO PAROLE E IMMAGINI

VENEZIA 25 NOVEMBRE 2017

Sistematica, trasversale, specifica, culturalmente radicata, un fenomeno endemico: i dati lo confermano in ogni Paese, Italia compresa.

La violenza di genere è una violazione dei diritti umani tra le più diffuse al mondo: lo dichiara la Convenzione di Istanbul, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nel 2011 e recepita dall’Italia nel 2013, che condanna «ogni forma di violenza sulle donne e la violenza domestica» e riconosce come il raggiungimento dell’uguaglianza sia un elemento chiave per prevenire la violenza.

La violenza di genere non è un problema delle donne e non solo alle donne spetta occuparsene, discuterne, trovare soluzioni. Un paese minato da una continua e persistente violazione dei diritti umani non può considerarsi “civile”.

Impegno comune deve essere eliminare ogni radice culturale fonte di disparità, stereotipi e pregiudizi che, direttamente e indirettamente, producono un’asimmetria di genere nel godimento dei diritti reali.

La Convenzione di Istanbul, insiste sulla prevenzione e sull’educazione. Chiarisce quanto l’elemento culturale sia fondamentale e assegna all’informazione un ruolo specifico richiamandola alle proprie responsabilità (art.17).

Il diritto di cronaca non può trasformarsi in un abuso. “Ogni giornalista è tenuto al “rispetto della verità sostanziale dei fatti”. Non deve cadere in morbose descrizioni o indulgere in dettagli superflui, violando norme deontologiche e trasformando l’informazione in sensazionalismo.

Noi, giornaliste e giornalisti firmatari del Manifesto, ci impegniamo per una informazione attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni culturali, sociali, giuridiche. La descrizione della realtà nel suo complesso, al di fuori di stereotipi e pregiudizi, è il primo passo per un profondo cambiamento culturale della società e per il raggiungimento di una reale parità.

Pertanto riteniamo prioritario:

1.

inserire nella formazione deontologica obbligatoria quella sul linguaggio appropriato anche nei casi di violenza sulle donne e i minori;

2.

adottare un comportamento professionale consapevole per evitare stereotipi di genere e assicurare massima attenzione alla terminologia, ai contenuti e alle immagini divulgate;

3.

adottare un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche istituzionali ricoperti dalle donne e riconoscerle nella loro dimensione professionale, sociale, culturale;

4.

attuare la “par condicio di genere” nei talk show e nei programmi di informazione, ampliando quanto già raccomandato dall’Agcom;

5.

utilizzare il termine specifico “femminicidio” per i delitti compiuti sulle donne in quanto donne e superare la vecchia cultura della “sottovalutazione della violenza”: fisica, psicologica, economica, giuridica, culturale;

6.

sottrarsi a ogni tipo di strumentalizzazione per evitare che ci siano “violenze di serie A e di serie B” in relazione a chi sia la vittima e chi il carnefice;

7.

illuminare tutti i casi di violenza, anche i più trascurati come quelli nei confronti di prostitute e transessuali, utilizzando il corretto linguaggio di genere come raccomandato dalla comunità LGBT;

8.

mettere in risalto le storie positive di donne che hanno avuto il coraggio di sottrarsi alla violenza e dare la parola anche a chi opera a loro sostegno;

9.

evitare ogni forma di sfruttamento a fini “commerciali” (più copie, più clic, maggiori ascolti) della violenza sulle le donne;

10.

nel più generale obbligo di un uso corretto e consapevole del linguaggio, evitare:

a) espressioni che anche involontariamente risultino irrispettose, denigratorie, lesive o svalutative dell’identità e della dignità femminili;

b) termini fuorvianti come “amore” “raptus” “follia” “gelosia” “passione” accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento;

c) l’uso di immagini e segni stereotipati o che riducano la donna a mero richiamo sessuale” o “oggetto del desiderio”;

d) di suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e così via.

d) di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece dalla vittima nel rispetto della sua persona.

Per adesioni: cpo.fnsi@gmail.com

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Tre anni fa, dopo una campagna condotta da genitori disgustati dal contenuto sessista e stereotipato di libri quali “Attività per ragazze” e “Attività per ragazzi”, la casa editrice inglese Usborne annunciò che avrebbe smesso di pubblicare simili testi.

Il loro “Growing Up for Boys” (Crescere/La crescita per ragazzi) è del 2013 e ancora in circolazione ma ultimamente un padre, il sig. Ragnoonanan, ha chiesto pubblicamente se non ci sono cose migliori da insegnare ai propri figli maschi, a cui il libro indirizza messaggi come questo:

A cosa servono i seni? Le ragazze hanno i seni per due ragioni. Una è produrre latte per gli infanti. L’altra è far apparire la ragazza cresciuta e attraente. Virtualmente tutti i seni, al di là della taglia e della forma che finiscono per avere quando una ragazza esce dalla pubertà, possono fare entrambe le cose.

breasts

Dal messaggio dell’uomo su Twitter la protesta si è allargata sul web e soprattutto su Amazon, che il libro lo vende, ove recensori ambosessi lo hanno sepolto di stroncature.

Fen Coles, co-direttrice della Letterbox Library, una biblioteca specializzata in libri per bambini e testi per le scuole e i genitori, ha spiegato alla stampa perché lei stessa trova la faccenda problematica: “Il linguaggio usato, tenendo in mente che questo è un libro “per maschi”, suggerisce fortemente che i seni delle ragazze esistono per i ragazzi, per il loro apprezzamento, per il loro sguardo. Se vogliamo incoraggiare i nostri bambini ad avere relazioni sane gli uni con le altre e se vogliamo costruire una cultura del consenso, suggerire che parti del corpo esistono solo per il loro “uso” da parte di un’altra persona, apparentemente al di fuori del controllo da parte della persona a cui quella parte del corpo appartiene, al minimo toglie potere e al peggio è molto pericoloso. Questo è un linguaggio mal concepito, regressivo e irresponsabile, usato in ciò che è inteso come libro educativo.”

La casa editrice si è scusata, ovviamente. Metterà a posto il libro. Tanto, la sua parte di danno l’ha già fatta. Maria G. Di Rienzo

P.S. Il titolo – Insegna bene ai tuoi figli – fa riferimento a una canzone di Crosby, Stills, Nash & Young.

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