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(“Indigenous, Afro-Honduran communities join together to fight pandemic”, 11 maggio 2020, Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, trad. Maria G. Di Rienzo.)

garifuna - unfpa

Tegucigalpa, Honduras – Nel mentre le nazioni lottano con la pandemia del Covid-19, le comunità indigene e di discendenza africana sono fra le più vulnerabili con molte persone che fronteggiano povertà, scarso accesso alle cure sanitarie e informazioni limitate. In Honduras, membri di queste comunità si stanno unendo per assicurarsi che informazioni e risorse raggiungano i più esposti.

“Dobbiamo essere creativi di questi tempi.”, dice Yimene Calderón, a capo dell’Organizzazione per lo Sviluppo Etnico, che sta lavorando con la comunità Garífuna per aumentare la conoscenza delle misure di controllo dell’infezione e per fornire sostegno alle famiglie in stato di bisogno.

I Garífuna si stanno “mostrando resilienti, facendo affidamento sulla medicina e sul cibo tradizionali, e cercando aiuto e solidarietà per ricevere assistenza dal governo: non individualmente, ma collettivamente, operando come un network.”, lei dice.

Sino ad ora, più di 1.800 casi della malattia sono stati confermati in Honduras. L’esplosione è concentrata lungo la costa nord del paese, dove vive la maggioranza della popolazione Garífuna. Questa comunità ha le sue radici sia in gruppi indigeni sia in gruppi di origine africana. Molte famiglie hanno a capo donne e nonne, con uno o entrambi i genitori che lavorano all’estero per mandare soldi a casa. Come in ogni altra comunità afro-honduregna e indigena, in alcuni quartieri e case manca l’elettricità, l’accesso a internet e l’acqua corrente. L’insicurezza alimentare è comune e molti non sono in grado di accedere a cure sanitarie per la distanza o perché non se le possono permettere.

Molte fonti di reddito – incluse le rimesse, il turismo e il piccolo commercio – sono state gravemente ridimensionate. I più vulnerabili possono non essere in grado di osservare il distanziamento sociale o frequenti lavaggi delle mani e altre misure di prevenzione della malattia. Ma queste comunità si sono anche dimostrate forti e flessibili.

Comunità afro-honduregne e indigene hanno unito i loro sforzi per contenere la diffusione del Covid-19. Lavorando con il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione e con la Pan American Health Organization, hanno tradotto le informazioni sulla prevenzione dell’infezione nella lingua

Garífuna, così come nelle lingue Misquito, Tawahka e Chortí. Queste informazioni sono usate dai lavoratori della sanità, dalle reti delle radio comunitarie, da programmi televisivi e da attivisti per la gioventù al fine di promuovere comportamenti sicuri.

I membri della comunità si stanno anche facendo da soli le mascherine di stoffa. “Abbiamo coordinato numerosi gruppi di discussione con medici, infermieri e personale sanitario nella comunità.”, dice Suamy Bermúdez, un dottore Garífuna che sta lavorando con altri per sviluppare una campagna allo scopo di raggiungere case isolate con accesso limitato alle cure sanitarie.

La campagna fornirà informazioni sulla prevenzione del contagio e le medicine tradizionali, disseminate nelle chat, durante conferenze e con manuali. La campagna affronterà anche la questione dei diritti dei popoli indigeni.

“Storicamente, le popolazioni più vulnerabili dell’Honduras hanno subito segregazione e mancanza di investimento nella sanità. – dice Kenny Castillo, portavoce del Direttorato dei popoli indigeni e afro-honduregni del Ministero per lo Sviluppo e l’Inclusione Sociale – Abbiamo aperto canali per affrontare la situazione, includendovi il dialogo per affrontare non solo l’istanza Covid-19 ma lo scenario posteriore ad essa, dove le comunità dovrebbero avere una posizione forte nel richiedere investimenti su salute e istruzione.”

In aggiunta al suo sostegno all’azione comunitaria, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione sta lavorando con altri per sostenere politiche che assicurino alle donne indigene e di discendenza africana i diritti a servizi e informazioni su salute sessuale e riproduttiva, all’empowerment e alla prevenzione della violenza.

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Galina Angarova

“Come in molte altre culture indigene, il sacro femminino gioca un ruolo centrale nella visione cosmologica della mia gente, i Buryat (Buriati – Russia), ed è espresso tramite le nostre relazioni, le nostre storie e i nostri modi di vivere. Io provengo da quella che originariamente era conosciuta come società matrilineare. Eravamo le famose guerriere della foresta, riverite come eccezionali cacciatrici e combattenti. Molti di questi tratti sono ancora visibili oggi nelle donne del mio clan. Forti, indipendenti, determinate, indefesse lavoratrici – e anche, a volte, cocciute e chiassose.

Io sono cresciuta con le storie di mia nonna, che nella nostra lingua incapsulavano la saggezza dei nostri antenati. Ognuna insegnava un aspetto della vita: relazioni con le entità naturali come le piante, i fiumi e le montagne, o con esseri come animali, spiriti, antenati, o come maneggiare la condizione umana.

Oggi, viviamo in un mondo in cui maschile e femminile sono sbilanciati. Questo sbilanciamento si manifesta nel modo in cui ci rapportiamo l’un l’altra, nel modo in cui governiamo, nel modo in cui cresciamo i bambini, nel modo in cui facciamo affari. Poiché il sacro femminino è stato disprezzato, assalito e violato, stiamo fronteggiando le conseguenze dello sbilanciamento: ingiustizie, diseguaglianza di genere e etnica, povertà, cambiamento climatico.

Dobbiamo restaurare l’equilibrio fra il mascolino e il femminino. Nella visione del mondo dei Buryat il nostro pianeta, i nostri terreni e il nostro ambiente sono la manifestazione definitiva del sacro femminino. Senza un cambiamento nella nostra consapevolezza continueremo a ripetere gli stessi errori, a sfruttare e distruggere la Madre Terra senza capire che ne siamo parte. Tutti veniamo dal suo grembo, tutti veniamo dal sacro femminino ed è nostro dovere rispettarlo e proteggerlo.”

Galina Angarova (in immagine), direttrice esecutiva di Cultural Survival, organizzazione non profit che lavora per i diritti dei popoli indigeni (trad. Maria G. Di Rienzo), gennaio 2020.

Sempre suoi i seguenti brani tratti dal podcast “Why Preserving Cultural and Language Diversity is Vital to Protecting Biodiversity: An Interview with Galina Angarova”, di Kamea Chayne per Green Dreamer, 23 marzo 2020.

“La diversità di linguaggio è estremamente importante per la protezione della biodiversità, perché quei termini esistono nelle lingue native. La sapienza tradizionale sulla protezione della biodiversità esiste in quelle lingue. Se le perdiamo, la conoscenza scompare con esse.”

“La semplificazione del concetto di ricchezza ha condotto al convincimento che il danaro sia l’unica soluzione, ma vi sono molteplici soluzioni per mantenere il nostro spazio su questo pianeta essendo in relazione e in equilibrio con esso. Noi diamo valore all’avere una moltitudine di relazioni.

Questo è il motivo per cui quando preghiamo, preghiamo per tutte le nostre connessioni e relazioni nel mondo. Preghiamo non solo con gli esseri umani ma con il mondo naturale. Noi non oggettiviamo la natura: animali, pietre, uccelli e fiumi sono partecipanti in questa vita e hanno un’indiretta relazione con noi.”

“Abbiate cura di voi stessi. Ascoltate il vostro corpo e il vostro cuore. Noi, come persone, tendiamo a vivere nelle nostre teste, ma è importante affondare dalla testa al cuore e lasciare che sia il cuore a dirigere: è così che accadono i miracoli.

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(tratto da: “Translation and the Family of Things”, di Crystal Hana Kim, giovane scrittrice contemporanea, per Guernica, 2019, trad. Maria G. Di Rienzo.)

earth and sky di kathleen marver

Alle letture del mio primo romanzo, “If You Leave Me”, la gente mi ha spesso chiesto se i miei genitori erano orgogliosi di avere una scrittrice in famiglia. Ma io non ero l’unica scrittrice. Il mio posto è stato creato dalle donne che sono venute prima di me. Mia madre cominciò a scrivere poesie in coreano quando io mi stavo diplomando. Sono stata connessa al linguaggio da lei – e anche da sua madre.

Mia nonna è sempre stata una narratrice, ma era anche una donna che aveva vissuto la colonizzazione giapponese e la guerra di Corea e che non aveva mai ricevuto un’istruzione superiore. Pensava che nessuno a parte i suoi figli e i figli di costoro avrebbe desiderato ascoltare le sue storie.

Quando aveva 17 anni fu costretta ad accettare un matrimonio da una suocera che le aveva promesso un’istruzione, solo per rimangiarsi tutto al termine della cerimonia. Alla morte del primo marito rimase con un bimbo e senza un soldo. Quando implorò la sua stessa madre di tenerle il bambino così che potesse frequentare un corso per parrucchiere, fu respinta.

Questi aneddoti hanno riempito la mia infanzia. Non mi sono mai scocciata con lei nel modo in cui mi scocciavo con i miei genitori. Forse era perché siamo separate da una generazione o forse, dato che lei parla solo coreano, ho accettato il fardello della traduzione. E poi, nel maggio del 2019, la mia nonna 84enne ha pubblicato le sue prime poesie in Corea.

Due anni prima, la mia nonna si era iscritta a corsi per cittadini anziani a Hoengseong, dove vive. Si è unita a un coro, a un gruppo di suonatori d’armonica e a una classe in cui si insegna poesia. Ha cominciato a scrivere i suoi versi nel centro comunitario locale. L’insegnante, impressionata dalla qualità del suo lavoro, ha inviato le poesie a un giornale letterario. Tre sono state scelte per la pubblicazione, sorprendendo noi tutti. “Nel crepuscolo della mia vita, ho ricevuto un regalo meraviglioso.”, mi disse mia nonna.

Mia zia mi spedì la rivista letteraria non appena uscì. Ho accarezzato la copertina color verde sbiadito e poi ho trovato le poesie di mia nonna all’interno. Le ho lette una volta, due, tre. Non capivo. Quando mia nonna ed io parlavamo, stavamo sullo stesso terreno: salute, cibo, il nostro affetto reciproco, i suoi malanni. Mi ha raccontato ripetutamente le stesse storie piene di pathos. Ma le poesie erano imagiste (1), liriche e piene di metafore. Rivelavano un intelletto e un’immaginazione che non avevo mai considerato. Mi sentivo imbarazzata dalla mia stessa miopia.

Copiai le poesie della nonna in un documento Word e restai a fissare le parole. Avrei tradotto quei versi, sino a che avessi capito. Volevo che il linguaggio mi collegasse alla mia famiglia, anziché agire come una barriera. Volevo comprendere pienamente quanto poco sapevo, con che superficialità avevo immaginato le menti di mia madre e di mia nonna.

Più tentavo di tradurre le poesie, più diventavo intimidita. Volevo essere precisa e rigorosa, ma inerente alla traduzione è l’interpretazione, l’agire proprio del traduttore. Mi preoccupavo. Dovevo aderire alle parole o ai ritmi, ai suoni o ai significati? La poesia doveva risultare facile nella lingua della traduzione, o doveva conservare alcune delle indicazioni sintattiche dell’originale? (…)

Sorprendentemente, mentre lavoravo da sola alle strofe nei giorni seguenti, scoprii che mi piacevano di più quando le parole non si concatenavano chiaramente l’una con l’altra. Lo spazio sfocato tra le lingue dava la sensazione di un’apertura. Alla fine, tradussi i versi di mia nonna come:

Porta un passo al successivo, dalla Terra al Cielo,

intreccia la scala vermiglia di luce dell’autunno,

così che noi si possa testimoniare per sempre.

Vermiglia. Testimoniare. Ho fatto queste scelte basandomi sul suono, il ritmo e il tono. Ma ho anche considerato quel che sapevo di mia nonna. Lei parlava della morte ossessivamente. Ma cos’altro potrebbe riempire i tuoi pensieri se tu avessi attraversato la fame, la colonizzazione, la guerra, la povertà? Questo è il suo modo di esercitare controllo su ciò che è incontrollabile. Ma quando parla a me del morire lo fa in termini semplici: che tipo di ritratto funebre vuole, come dev’essere vestita nella bara, io che dovrei avere figli perché lei morirà presto. Pratica, utilitarista. Ma nella poesia la sua ossessione si trasforma. C’è un certo splendore nel considerare il passaggio della morte come una scala di luce vermiglia.

(1) da Imagismo, corrente letteraria dell’inizio del Novecento con centro a Londra e diffusione in Irlanda e Usa, dichiarava la necessità di immediatezza e concisione nel linguaggio poetico. Inusuale per l’epoca, le maggiori figure imagiste erano donne.

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(“Women never invented anything”, Radical Girlsss, 1.5.2019, trad. Maria G. Di Rienzo. Radical Girlsss è “un movimento multietnico, laico, femminista radicale di giovani donne e ragazze” formatosi all’interno della Rete Europea delle Donne Migranti – European Network of Migrant Women.)

RADICALGIRLSSS

Per tutte le nostre vite, come ragazze, come giovani donne, ci è stato detto di continuo che le donne non hanno mai inventato, non hanno mai creato, non sono mai esistite.

Quando eravamo bambine e abbiamo cominciato a leggere, i libri ci hanno insegnato che i maschietti potevano fare qualsiasi cosa – esplorare e conquistare, combattere l’ingiustizia, salvare altri e se stessi. Quegli stessi libri non hanno mai mostrato che le bambine erano in grado di fare lo stesso. Ci hanno fatto credere che il nostro ruolo fosse lo starcene ad aspettare che un ragazzo arrivasse a salvarci. Perché nei libri e nelle fiabe le solo donne con del potere sono le streghe e ci si dice che le streghe sono cattive. Sono destinate a essere brutte, meschine e sempre sole.

Quando eravamo bambine e siamo andate a scuola per la prima volta, ci siamo guardate attorno e tutto quel che abbiamo visto erano maschietti – che correvano in giro, occupavano lo spazio come se appartenesse a loro, esploravano e conquistavano proprio come nei libri che leggevamo. Le femminucce? Eravamo inchiodate ai lati, sempre discrete, sempre calme, perché da una bambina ci si aspetta questo, giusto? Graziose, con bei vestitini che ci impediscono di correre, belle acconciature che ci impediscono di vedere. Tenere e dolci, incapaci di difendere noi stesse quando i bambini arrivavano a sollevarci le gonne o a imporre baci, non in grado di ricevere aiuto perché gli adulti guardavano invariabilmente da un’altra parte e dicevano: “I maschi sono fatti così”.

Quando eravamo bambine e abbiamo cominciato a parlare, abbiamo imparato il francese, una lingua in cui le donne non ci sono, una lingua che ha regole del tipo “la forma maschile ha la precedenza sulla forma femminile”. Quando siamo cresciute e abbiamo imparato altre lingue abbiamo capito che non si tratta solo del francese. Nella maggior parte delle lingue le donne non esistono.

Quando eravamo bambine e amavamo andare a lezione, amavamo anche apprendere la storia e la letteratura, le scienze e le arti. Ma ci è stato detto solo quel che hanno creato gli uomini. Quel che gli uomini hanno fatto per la storia, quel che gli uomini hanno inventato… nessuno ci ha mai detto di Alice Guy, che ha inventato il cinema quale lo conosciamo oggi, ne’ di Nelly Bly che ha rivoluzionato il giornalismo contro ogni avversità, ne’ di Emmy Noether che è stata cruciale per lo sviluppo della matematica, ne’ di Mary Andersen, Maria Telkes, Grace Hopper, Stephanie Kwolek, Ann Tsukamoto…

Non abbiamo mai saputo che le donne hanno inventato zattere di salvataggio, refrigeratori, macchine per fare il gelato, sistemi per elaborazione di dati, tecnologia delle telecomunicazioni, trasmissione senza fili, video sorveglianza, seghe circolari, riscaldamento centrale, razzi di segnalazione, vetro trasparente, ponti sospesi, sottomarini…

Non abbiamo mai saputo di aver scoperto la struttura del DNA, il codice genetico dei batteri, la composizione chimica delle stelle, la terapia per il virus del papilloma umano, i cromosomi X e Y.

Non abbiamo mai saputo di Enheduanna, la prima scrittrice conosciuta, di Fatima el Fihriya che ha fondato la più antica delle università, di Trotula da Salerno che fu una delle prime a parlare di salute delle donne e ginecologia.

Non abbiamo mai imparato delle donne coraggiose e forti che lottarono contro la colonizzazione in ogni singolo continente: Fatma N’Souer in Algeria contro i francesi, Manuela Saenz in Sudamerica contro gli spagnoli, Tarenorerer in Australia contro gli inglesi.

Non abbiamo mai saputo di aver combattuto guerre e viaggiato, esplorato e scoperto, non abbiamo mai saputo di aver guidato popoli e eserciti, di aver ispirato e creato. Non abbiamo mai saputo di aver volato e navigato, di essere state pilote e pirate… non l’abbiamo mai saputo perché nessuno ce l’ha detto.

Per tutte le nostre vite, come bambine e ragazze, come giovani donne, ci è stato detto che andava così, che “le donne non hanno mai inventato nulla”. Non abbiamo mai visto esempi femminili forti e complessi nei libri di storia, in televisione, alla radio, in politica, nei musei, al cinema… non ci siamo trovate da nessuna parte.

Si dice spesso che le bambine cominciano a considerarsi inferiori ai bambini attorno ai sei anni. E perché non dovremmo, quando tutto è fatto per limitare il nostro universo? In un mondo in cui tutto è maschile, dai nomi delle nostre strade ai personaggi dei libri che amiamo, dagli dei ai presidenti, in che modo potremmo sognare noi stesse come forti, ispiratrici, complete?

Pensiamo a tutte queste donne che sono state cancellate… Tutte queste donne che a noi è impedito ammirare o aspirare a divenire. Le loro stesse esistenze sono annientate per indurci a credere che non possiamo realizzare nulla, che esistiamo solo per essere belle e prenderci cura degli altri… avremmo voluto conoscerle tutte prima, imparare i loro nomi. Tutte queste donne che hanno fatto la storia ma sono state dimenticate. Artiste, scienziate, attiviste, eroine, sopravvissute che sono scomparse dalla nostra memoria collettiva a causa del sessismo.

Come donne, crediamo di avere il dovere di raccontare le loro storie, di tutte loro. Alle nostre sorelle, alle bambine attorno a noi e al mondo. Perché parlare di loro è parlare di noi stesse. E’ riprenderci le nostre voci e i nostri posti. E’ riprenderci le nostre vite.

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C’è una scuola statale, in Gran Bretagna, che si chiama “Oxford Spires Academy”, che non ha nulla di altisonante oltre il nome e dove gli/le studenti parlano fra loro più di 30 lingue. Ci lavora la professoressa e scrittrice Kate Clanchy (in immagine sotto questo paragrafo) che ha trascorso gli ultimi dieci anni insegnando poesia a bambini e ragazzi – in maggioranza rifugiati o migranti – per aiutarli a guadagnare fiducia in se stessi e a dar forma alle loro proprie narrazioni.

teacher kate

L’anno scorso, guidati da questa donna, gli alunni e le alunne hanno pubblicato un’antologia dal titolo “Inghilterra: Poesie da una scuola”, che ha ottenuto risonanza e lodi a livello nazionale. I due migliori studenti della scuola, una femmina e un maschio, sono anche vincitori di concorsi di poesia.

“Non c’era un grande piano al proposito. – ha spiegato Clanchy – Il successo è arrivato mentre andavamo avanti. E’ il modo in cui alcune scuole diventano famose per il cricket: noi siamo molto bravi a fare poesia.”

L’insegnante racconta di essersi trovata ad avere una scolaresca fatta di “rifugiati dalla guerra e rifugiati dalla povertà”, i cui retroscena di esperienze difficili e in cui avevano sperimentato o testimoniato violenza, davano origine a una serie di memorie e narrazioni taciute, spesso intrise di vergogna. Clanchy ha pensato giustamente che le ferite non curate si infettano – perciò, ha cominciato a guarirle con la poesia: “Penso sia particolarmente importante per i migranti raccontare le loro storie e avere il controllo su di esse. Le loro storie gli sono sottratte non appena arrivano, perché entrando nel paese devono attenersi a una versione precisa e da quella non possono deviare. Molto spesso le narrano in una lingua diversa, mentre hanno paura, e le loro storie finiscono per essere distorte in diversi modi. La poesia ha un’importanza speciale in moltissime tradizioni, per esempio in Afghanistan, soprattutto per le donne: si parlano l’una con l’altra in versi, fanno giochi e gare con la poesia. Perciò, se tu dai modo a queste persone di raccontare le loro storie con la poesia permetti loro di parlare e di essere ascoltate. I miei studenti rifugiati arrivano in una scuola accogliente in cui possono parlare, in cui la poesia permette loro di parlare e l’intera istruzione che ricevono li autorizza a parlare, a essere ascoltati, ad ascoltare gli altri. La scuola è la comunità, e la scuola è l’Inghilterra.”

Nel 2013, l’insegnante creò un club di poesia per un piccolo numero di “ragazze straniere molto riservate”, appena arrivate a scuola, che si riuniva al giovedì per parlare e scrivere. Nei successivi cinque anni, il gruppo produsse lavori che sono stati inondati da premi e riconoscimenti in tutta la nazione.

Da allora, racconta Clanchy, lei ha potuto vedere le ragazze fiorire. Una è avvocata; una si è diplomata con il massimo dei voti e ora studia lingue, inglese e scrittura creativa all’università; sempre all’università ce n’è un’altra che ha vinto una borsa di studio per rifugiati e un’altra ancora che si sta laureando in scienze politiche. Le restanti due stanno studiando per diventare insegnanti.

“Non c’è bisogno che la poesia sia il loro focus e non devono necessariamente diventare scrittrici: la poesia dà solo loro un diverso tipo di fiducia in se stesse. E’ nelle loro vite e ancora la leggono e la creano, le ha aiutate ad acquisire sicurezza e cambiamento. Penso sia semplicemente qualcosa che hanno il diritto di avere.”

Maria G. Di Rienzo

Quella che segue è una composizione di Amineh Abou Kerech, che è arrivata in Gran Bretagna e alla scuola suddetta dalla Siria, nel 2014. Oggi scrive poesia nella propria lingua e in inglese: in ciò che sto per tradurvi Amineh parla al Mediterraneo.

I giorni passano, ma il passato non si muove

In passato

andavo al mare

per camminare sulla sabbia dorata

per ricevere ciò che il mare mandava dalle acque profonde, fuori nello spazio vuoto: conchiglie, ostriche, ogni cosa bella che veniva dall’interno del suo cuore abissale,

e guardare tutto come fosse un dipinto appeso al muro.

Mare, come e perché hai cominciato a mandare pezzi

da dentro di te: barche rotte, gente morta, vestiti,

scarpe, giubbotti di salvataggio lacerati e rivoltati?

Ma il Mare non ha risposto. Io ho detto:

Tu hai rubato sogni. Giù sui fondali

hai rubato bambini, come se fossi affamato, hai continuato a mangiare

senza mai dire sono sazio.

Ma il Mare ancora non ha risposto. Io ho detto:

Mare, dimmi quanto grande è la tua terra,

quanto profonda è la tua acqua, quanto vasto è il fondale che

può sistemare milioni di esseri umani morti.

E ancora il Mare non ha risposto. Io ho detto:

Mare, spero che un giorno tornerai a questo mondo

come una madre che salva il suo piccolo dal pericolo.

E il Mare non aveva nulla da dire.

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(vedi articolo precedente)

feff 2019

Il Far East Film Festival (FEFF) è sempre pieno, oltre che ovviamente di film, di occasioni, incontri e materiali – e da questo punto vista parteciparvi anche per un solo giorno è gratificante.

“Innocent Witness” non riserva grosse sorprese come trama, cosa che già sapevo prima di vederlo, ma oltre a esaltare la bravura della giovanissima attrice co-protagonista (su cui pesa l’intera struttura della storia), convoglia un messaggio di fondo sulla diversità e sul rispetto di cui non solo la società coreana da cui proviene ha bisogno.

Ci sono piccoli momenti magici che non aggiungono o tolgono nulla allo svolgimento del plot, ma che si incidono nella memoria emotiva di chi guarda:

* L’anziano padre dell’avvocato, un uomo spiritoso e ostinato che nonostante gli acciacchi trasmette un’incrollabile gioia di vivere, dopo aver sottolineato che il figlio non gli ha mai presentato una fidanzata, dice: “La gente comincia a chiedermi se ti piacciono gli uomini.” E davanti allo stupore del figlio aggiunge: “Non mi importa se porti a casa un ragazzo, purché sia gentile.”

Questo minuscolo passaggio mette con semplicità l’importanza di una relazione dove esattamente deve stare: la felicità di chi quella relazione intrattiene, che è meglio garantita se si ha a che fare con una brava persona e per essere una brava persona il sesso non conta nulla.

* L’avvocato comprende presto che la ragazzina testimone ha un’intelligenza stratosferica (come molte persone autistiche) e una personalità affettuosa e onesta. Nel mentre comincia ad affezionarsi a lei commette un errore molto comune, quello di compatirla. “Se solo non fosse autistica…”, comincia a dire alla madre della ragazza, che immediatamente lo interrompe: “Se non fosse autistica non sarebbe la stessa persona, non sarebbe la mia Ji-woo.”

Ti amo così come sei, per quello che sei. E questo è il secondo ingrediente fondamentale per far funzionare qualsiasi relazione affettiva.

Probabilmente tutto ciò è scontato per il regista Lee Han quanto lo è per me o per molti/e di voi che leggono, ma date un’occhiata in cronaca ai crimini dell’odio, alle conseguenze del bullismo, al sistematico disprezzo per chiunque non si conformi ai modelli prescritti e saprete subito perché c’è più che mai necessità di ripeterlo.

La mia valutazione complessiva sulla pellicola, compresa la prevedibilità di alcune scene e un finale con abbracci e fiocchi di neve che sa troppo di già visto, è quindi “più che sufficiente” – non altrettanto posso dire dell’organizzazione relativa alla sua proiezione:

1. Signori/e del FEFF, le vostre “maschere” devono avere istruzioni precise ma soprattutto uguali: non potete far correre gli spettatori da un piano all’altro del cinema perché uno dice “potete entrare dovunque” e l’altro “no, qui entrano solo gli abbonati” e il terzo ti fa entrare solo perché è chiaro che sei parecchio incazzato. I dieci euro di biglietto erano identici per tutti. La cosa mi ha seccato particolarmente perché sto soffrendo di una fastidiosa tendinite e i tre piani li ho fatti su e giù con il bastone.

2. In sala erano presenti il regista e gli attori Jung Woo-Sung (l’avvocato) e Lee Kyu-Hyung (il pubblico ministero) e sentire quel che avevano da dire sarebbe stato molto piacevole. Purtroppo la presentatrice ha farfugliato qualcosa in simil-inglese e ha schiaffato il microfono in mano a ciascuno di loro lasciando che si arrangiassero da soli. Non è stata in grado di porre una domanda che fosse una. Il traduttore dal coreano (il molto noto critico cinematografico statunitense Darcy Paquet) ha tradotto qualcosa in inglese a voce sussurrata e a beneficio di non si sa chi. Io ho capito mezze frasi in ambo le lingue tirando le orecchie e presumo che altre persone abbiano fatto lo stesso, ma il grosso del pubblico ha dovuto accontentarsi del “buongiorno” detto in italiano da Jung Woo-Sung (grazie, ricambiamo anche se erano le cinque del pomeriggio passate).

Per quel che riguarda il povero Lee Kyu-Hyung, poiché non condivide lo status di star del protagonista pur essendo a mio parere un attore migliore, non lo si è presentato, non si è compiuto lo sforzo di tradurne l’intervento in italiano o in inglese e non ha ricevuto neanche un applauso. Andiamo, FEFF, avete anni e anni di esperienza: si può fare di meglio.

Maria G. Di Rienzo

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Non ho visto il film di cui parlerò fra poco. Il genere (thriller/horror psicologico), con la solita “casa maledetta” come motivo conduttore, non mi interessa. Si tratta di “Inheritance”: è di quest’anno, il regista si chiama Tyler Savage e vi recitano attori statunitensi che non conosco. Il sito che lo manda in streaming sottotitolato in italiano ne descrive la trama così:

Ryan eredita una casa misteriosa dal suo padre biologico, un uomo che credeva morto da tempo. Lui e il suo fidanzato si stabiliscono nella casa con grandi progetti per il futuro, ma…

Un commentatore lo sconsiglia immediatamente (dubito che lo abbia in effetti guardato) basandosi sullo scarno riassunto – non ho corretto nulla di quel che seguirà:

“(…) sopratutto tutto questo frociume vario che infilano sempre di più in serie e film. star tek, twd , the mist, etc sono le prime che mi vengono in mente ma ormai non si contano più. figure di ubriaconi, drogati, gente che si fa di psicofarmaci, pedofili, strambi e mattoidi vari, etc….sono sempre più presenti. i copioni ormai passano nelle mani della cia sono loro che decidono cosa, quando e dove produrre. sta solo a noi essere impermeabili a simili schifezze…”

“Ti quoto al max questa e follia pura descrivere la nostra società odierna in questo modo… (ho avranno ragione?)”, gli risponde un simpatizzante che sta probabilmente ripetendo l’esame di quinta elementare da anni.

“non hanno ragione fortunatamente, – lo rassicura il primo – sono queste elite che sponsorizzano lo sfascio della famiglia, dell’idea di nazione-patria, del promuovere il gender nelle scuole, la sodomia dilagante,etc..sono loro che lo vogliono, solo loro. non certo la gente, i popoli che sempre di più stanno resistendo a queste pressioni…”

Riassumendo, misteriose (o quantomeno non nominate) élite costringono la CIA – Central Intelligence Agency – agenzia di spionaggio internazionale del governo degli Usa, a ripassare ogni singolo copione proposto a tv e cinema e a dare il marchio d’approvazione solo a quelli che palesano gli scopi succitati. Non mi stupisce che poi quanto al contrastare il terrorismo (uno degli scopi dell’agenzia) facciano spesso cilecca: sono troppo occupati a leggere montagne di sceneggiature. Cosa guadagnino i gruppi elitari da ciò e perché la CIA obbedisca loro sfugge alla nostra comprensione. I popoli (???), ci si informa per nostro sollievo, resistono.

Ripeto, io non ho visto il film. Ho però letto la recensione di E. Wood Lagonigro, uno dei curatori dell’Oaxaca Film Festival, che comincia così:

“Ryan Bowman (Chase Joliet) eredita una proprietà fronte spiaggia dal padre biologico che credeva morto da tempo. Ci si trasferisce con la sua fidanzata incinta Isi (Sara Montez) …”

A lui la storia è piaciuta: vede la casa stregata come l’elemento scatenante di un’indagine profonda che il protagonista è costretto a fare su di sé e sulla sua storia familiare, costellata da abusi e violenze: “Il segreto è nel titolo stesso, forse la vera eredità di Ryan non è la proprietà ma qualche altra cosa che lo maledice attraverso le sue vene, qualcosa che lo induce a chiedersi (e noi con lui) se è il sangue a dettare i nostri destini.”

Non vi è accenno a “frociume” di sorta ne’ a nessuna delle altre materie da complotto citate, ma può darsi che il tipo sia pagato dalla CIA.

La verità, temo, è che il sito ospitante non compila in proprio le descrizioni dei film ma prende quelle che trova online in inglese e le fa triturare da Google Translator o equivalenti. Basta perdere una “e” nel processo e la fiancée incinta diventa il fiancé che promuove la sodomia e la distruzione della patria. Stateci più attenti, ragazzi, o la fine del mondo si avvicina! Maria G. Di Rienzo

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Il trafiletto è dell’Ansa, 1° dicembre, l’enfasi su alcune frasi è mia:

“A Milano c’è una scuola così piena di stranieri che viene evitata dalle famiglie italiane della zona, che iscrivono i figli altrove. A dare l’allarme sono stati alcuni genitori di origine sudamericana che “a casa hanno sentito i loro figli parlare in arabo“, ha spiegato una docente che vuole mantenere l’anonimato. La scuola è l’Istituto comprensivo Fabio Filzi di Milano, nel quartiere Corvetto, già al centro di problemi di integrazione e criminalità. “I genitori italiani si rifiutano di iscrivere i loro figli qui – ammette il preside, Domenico Balbi – tanto che effettivamente non riusciamo a formare un numero adeguato di prime classi nella Primaria”.

Secondo i dati presentati dal Politecnico, gli alunni stranieri a Milano oggi sono il 25% alla primaria e il 18 per cento alle scuole medie, “ma la distribuzione varia molto dal centro alle periferie dove gli stranieri arrivano all’80%”. Al Fabio Filzi, nella 1/a A, “su 26 bambini, 22 sono stranieri, di origine straniera o italiani con un genitore straniero”.

randwick school - nz

(la foto ritrae una classe neozelandese nel giorno in cui la scuola celebra le differenze dei propri alunni)

Se, come attestato nel trafiletto, il quartiere in cui si trova la scuola milanese è noto per problematiche legate alla criminalità, il rifiuto dei genitori di mandarci i bambini è comprensibile. Inoltre, i genitori italiani sono mediamente più abbienti dei genitori immigrati, per cui possono scegliere di affrontare spese maggiori di trasporto ecc. per far frequentare ai figli scuole più distanti da casa, mentre è assai probabile che gli altri non abbiano tale opzione. All’Ansa, però, non c’è nessuno a cui salti in mente di fare questi collegamenti. Il problema dev’essere per forza la composizione delle classi – e per molti può esserlo, senza dubbio – al punto che due genitori, secondo l’anonimo articolista, “danno l’allarme”: una coppia di origine sudamericana apparentemente scandalizzata dall’aver sentito i figli parlare in arabo.

Se si fosse trattato di una coppia di origine tunisina con l’arabo come lingua madre e con figliolanza scoperta a chiacchierare in portoghese o spagnolo, l’allarme ci sarebbe ancora? I due sudamericani si allertano anche quando la loro prole parla italiano (è pur sempre “lingua straniera” rispetto all’origine familiare)? Cosa succede se i loro bambini imparano più lingue grazie al contatto continuo con coetanei, diventano troppo intelligenti per essere infarciti di odio e di paura?

Saper comunicare in differenti linguaggi ha come principale conseguenza il capirsi meglio. Ogni idioma è intessuto di storia, cultura, saperi, ispirazioni, desideri: non si tratta di semplici equivalenze fra le parole (ed è per questo che le traduzioni di Google sono ridicole e piene di errori) ma di visioni del mondo che si confrontano – e si parlano.

L’agilità mentale di bambine/i e ragazze/i, la natura inquisitiva della loro giovane età, permettono di apprendere facilmente più lingue: e sì, questo cambia la loro visione del mondo, la apre a interpretazioni differenti, vi inserisce nuovi orizzonti. Ma le lingue non cambiano l’origine e il passato di un essere umano (ne’ l’italiano ne’ l’arabo sono contagiosi…) e non interferiscono negativamente con la sua capacità / volontà di scegliere un futuro, gli offrono invece ulteriori opportunità.

Se vostra figlia o vostro figlio tornano a casa da scuola dicendo parole diverse da quelle che conoscete, perché non chiedete loro di insegnarle anche a voi?

Maria G. Di Rienzo

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(“III”, di Susy Delgado – in immagine – poeta, scrittrice, sociologa, giornalista. Susy è nata in Paraguay nel 1949 e scrive poesia in guaraní e spagnolo. Il guaraní è una delle lingue ufficiali del Paraguay ed è parlato anche in zone dell’Argentina, della Bolivia e del Brasile. Trad. dalla versione inglese di Susan Smith, Maria G. Di Rienzo)

susy delgado

E forse a un certo punto

le mie premonizioni

il mio amore

il mio desiderio

la mia rabbia

le mie crisi

la mia nostalgia

diverranno

una cosa vecchia

discorso passato

discorso vuoto –

e allora sarà di nuovo notte.

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