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Posts Tagged ‘legge’

Alla fine di febbraio ho cominciato a seguire “Hyena” solo per vedere di nuovo in azione Kim Hye-su (https://lunanuvola.wordpress.com/2019/12/10/il-sentiero/). Immaginavo, dato il contesto – avvocati di lusso per gente di lusso con conseguente manipolazione della legge a favore dell’1 % della società – che nonostante la statura professionale dell’attrice mi sarei annoiata presto e avrei lasciato perdere. Sicuramente, pensavo anche, avrebbe contribuito ad allontanarmi il consueto noiosissimo romanzetto amoroso fra i due protagonisti principali: sapete, lei di umili origini e lui nato con il cucchiaio d’oro in bocca (come dicono i coreani, produttori della serie), la povera donzella che subisce ogni insulto rispondendo con un timido sorriso e affogando nell’amore sacrificale l’arroganza, la maleducazione e il sessismo del nobile giovanotto.

shut up

Invece no. Questa donzella, ovvero il personaggio dell’avvocata Jung Geum-ja che Kim Hye-su interpreta, morde – letteralmente e metaforicamente. Della storia pesantissima di violenza domestica che ha alle spalle porta addosso cicatrici sensibili nell’animo e fisiche sul corpo, ma da essa non è stata ne’ spezzata ne’ vinta e neppure ha permesso a detta esperienza di definirla come persona.

E’ incline a uscire dal seminato legale per ottenere risultati, temeraria, spregiudicata, spesso etichettata come “spietata” per una condotta che se riferita a un collega di sesso maschile sarebbe esaltata come assertiva e scaltra e, in pratica, invincibile in tribunale. Ogni volta in cui qualcuno tenta di “rimetterla al suo posto” ricordandole che proviene dai ranghi più bassi della comunità o che in fondo è solo una donna, l’avvocata se ne infischia e riporta l’interlocutore sul merito più abbietto: quanti soldi costui vuole perdere o guadagnare, quanti lei stessa ne guadagna o perde a seconda della situazione.

La storia d’amore c’è ma, finalmente, assume caratteri inusuali per gli sceneggiati coreani (e per gli sceneggiati in genere). Jung Geum-ja mette in scena un’elaborata trappola emotiva in cui far cadere l’avvocato Yun Hee-jae (interpretato da Ju Ji-hoon, che forse conoscete come il principe affogato in orde di zombies di “Kingdom”) al solo scopo di ottenere informazioni riservate da usare contro di lui in una causa legale. Una volta ritrovatisi in tribunale, la “finta” relazione fra i due si chiude obbligatoriamente, sebbene lasci strascichi in entrambi. Un po’ di fans del personaggio maschile stanno lamentando online la triste sorte del “sedotto e abbandonato”, cosa che mi lascia perplessa visti i picchi di maleducazione e malizia che costui raggiunge sovente. A volte lo trovo così insopportabile da saltare le scene non appena comincia a sfoggiare sarcasmi da quattro palanche e scortesia.

Alcuni particolari che mi hanno invece deliziata: 1) il modo di muoversi sciolto e libero di Jung Geum-ja e le posture che il suo corpo assume. Quando sta seduta a gambe larghe di fronte a vezzose ed eleganti signore e impettiti signori è semplicemente fantastica; 2) la scena in cui Jung Geum-ja è appena uscita dallo shock della visita inaspettata del proprio padre violento, rilasciato dalla prigione, e l’avvocato Yun Hee-jae la invita a “usarlo” per trovare conforto, dicendo che quello è ciò che lei sa fare meglio. L’avvocata non ci pensa due volte, lo afferra per i vestiti e prima di baciarlo dice: “Questa notte non è mai esistita”; 3) il brano della colonna sonora che chiude ogni puntata: eccolo qui.

Yeo Eun – Hyena (Hyena OST Part 1)

https://www.youtube.com/watch?v=dLDBV4kIfI4

La mia testa, la mia testa

sta ronzando di nuovo

Il cielo grigio

sta ruotando di nuovo

Sono sempre stata sola sin dall’inizio

per cui non so neppure cosa sia la solitudine

Mi sto guardando in giro un’altra volta stanotte

Occhi spalancati in cerca di preda

Tu dici

no no no no non intrappolare me

Persino sui campi secchi

cade la pioggia

Tu dici

no no no no non intrappolare me

Il sole splende, è un’alba abbagliante

Io sto mirando ai cuori che tremano

Non sarò sconfitta, sto mordendo forte e in profondità

nascondendomi nell’ombra scura

Il mio cuore, il mio cuore

sta battendo forte di nuovo

Il cielo grigio

sta ruotando di nuovo

Io ero al livello più basso sin dall’inizio

perciò non so neppure cosa sia l’essere insudiciata

Sto annusando in giro ancora una volta stanotte

Occhi spalancati in cerca di preda

Tu dici

no no no no non intrappolare me

Persino sui campi secchi

cade la pioggia

Tu dici

no no no no non intrappolare me

Maria G. Di Rienzo

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Ma sì, facciamone a meno. Del 25 novembre e dell’8 marzo, intendo. Sono “vuote ricorrenze” che per ben due giorni l’anno tolgono attenzione agli uomini e li costringono a sparare stronzate immani online e offline pur di restare saldamente sul palcoscenico. Si va dai consueti “non è vero niente”, “e allora la Pas?” (e le foibe, e il PD?), “ma quando è la festa dell’uomo” all’esilarante “le donne ora stanno benone ed è tutto merito mio”.

Salvini (testo integrale): “Grazie al CodiceRosso voluto dalla Lega e approvato dal Parlamento, adesso ogni denuncia di violenza o minaccia deve essere esaminata dalla giustizia entro tre giorni: tanto dolore evitato, tante vite salvate. Un abbraccio Amiche.”

Be’, che sollievo! Invece di chiederti com’eri vestita, perché eri là a quell’ora, se avevi bevuto e quanto e in genere cosa hai fatto per provocare la violenza dopo tre mesi, te lo chiedono dopo tre giorni. Problema risolto, infatti i fan di Salvini rispondono al messaggio così (testo integrale):

“Peccato molte donne meritano di prenderle!

Perché non vi è animale più arrogante prepotente offensiva di una donna.

Si credono intelligenti solo loro e ignoranti gli altri, pensano sempre di aver ragione soprattutto quando hanno torto.

Le donne sono capaci solo di insultare e provocare…

Hanno la parità dei diritti e non hanno rispetto dell’uomo!

Molte di queste cagne meritano di soffrire.”

E i suoi compari di partito rispondono così:

“Violenza sulle donne, bufera sul consigliere leghista di Casalecchio: Il 90% delle denunce è falso

Secondo costui, il cui nome è Umberto La Morgia e la cui impresa eroica più recente è stata il presentarsi vestito da pinguino a una manifestazione delle “sardine” a Bologna, la violenza sulle donne è “un’esagerazione della cultura dominante femminista” e dovremmo invece occuparci “della violenza delle donne sugli uomini, purtroppo ancora poco riconosciuta, poco condannata e poco dibattuta. Violenza non solo fisica, ma che si manifesta anche attraverso l’alienazione parentale (la distruzione del rapporto padre-figlio da parte della madre) e le migliaia di false denunce che le donne usano per avvantaggiarsi sull’uomo in sede di separazione civile, il quale spesso viene ridotto al lastrico.”

Lo scenario è talmente fantasy che il suo segretario locale di partito è costretto a dissociarsi e a smentirlo: La Morgia “parla evidentemente a titolo personale”, però grazie a queste personali “opinioni” come consigliere vota contro un progetto per interventi di accoglienza, ascolto ed ospitalità per donne maltrattate o che hanno subito violenza – segno che il titolo personale non è scindibile dal titolo politico. Ma poiché l’importante è occupare comunque il palcoscenico, il segretario Gianluca Vinci coglie l’occasione per ricordarci che “Le sue parole, inopportune, non cancellano però la verità dei fatti: la Lega al governo ha dimostrato concretezza nella lotta alla violenza contro le donne, tanto da aver portato in aula il Codice Rosso, che oggi è legge.”

E che non ha cambiato di una virgola l’attitudine abominevole degli uomini del suo partito e degli uomini violenti in genere verso le donne, compreso il tronfio Salvini e la sua bambola gonfiabile “somigliante alla Boldrini”, le sue cubiste al Papeete e la sua preferenza per le scollature femminili.

Ovviamente, una legge da sola non potrebbe comunque produrre il mutamento radicale necessario a mettere in soffitta la violenza di genere, generata com’è tale violenza da secoli di patriarcato, sessismo e misoginia, ma svolge egregiamente il suo ruolo di fanfara per politici opportunisti, arroganti e cialtroni. Lo dico a titolo personale e quindi politico, sia chiaro.

Maria G. Di Rienzo

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La violenza di genere ha questa singolare qualità: le vittime di assalti, pestaggi, stupri e persino omicidi sono più spesso che no biasimate per ciò che è accaduto loro. Invece di reiterare che i loro corpi e i loro diritti umani sono stati violati, i media – e non solo – si chiedono di routine se le donne hanno fatto abbastanza (e in caso positivo se quell’abbastanza è stato fatto bene) per garantire la propria sicurezza. Nel mentre i loro aggressori sono oggetto di profondi – si fa per dire – scavi psicologici, semplicemente tesi ad allontanare la riflessione sulle radici patriarcali del loro agire, a singolarizzarli dal contesto sociale e a rubricarli come “travolti” da svariate vicissitudini, le vittime subiscono un severo scrutinio inerente le loro abitudini, le loro vite sessuali, il loro abbigliamento, il loro comportamento, la loro apparenza: il tutto in accordo a falsi miti sulla violenza e a stereotipi di genere che più vecchi e misogini non si può. Da quest’ultimo esame escono svariate forme di ri-vittimizzazione che vanno da “lo ha provocato” a “troppo brutta/vecchia per essere stuprata” (14 novembre 2019: “Sequestra e violenta una donna di 70 anni per 11 ore: a Milano arrestato un 29enne”).

Per esempio, le donne possono essere corresponsabili della violenza subita in quanto “deboli” e “codarde”:

La Repubblica, 14 novembre 2019, titolo: “Rimini, finge di ordinare una pizza e chiede aiuto al 112 per le botte e violenze del marito”.

Occhiello: La donna subiva maltrattamenti da tre anni, senza trovare la forza di denunciare.

Incipit: “Tre anni di maltrattamenti e botte. Tre anni in cui ha subito senza avere la forza di denunciare.”

Dal testo: “La donna ha quindi trovato la forza di raccontare: picchiata e malmenata da tre anni senza aver mai trovato la forza di denunciare, nemmeno dopo essere stata refertata in ospedale per fratture agli arti ed ecchimosi importanti.”

Il Messaggero, 14 novembre 2019, titolo: “Manfredonia, medico arrestato per violenza sessuale su cinque pazienti”.

Dal testo: “Oltre ai 5 episodi contestati tra il 2004 ed il 2019, gli investigatori sono convinti che potrebbero esserci altre vittime degli abusi che non hanno ancora trovato il coraggio di denunciare il medico.”

L’analisi – si fa sempre per dire – ignora o sceglie di non considerare a cosa va incontro una donna che immediatamente denuncia un sopruso ai propri danni: il suo percorso è costellato di deterrenti, costituiti dai pregiudizi di coloro con cui viene a contatto e se tali pregiudizi assumono consistenza assai concreta quando sono espressi da agenti di polizia, medici e infermieri e assistenti sociali, avvocati e giudici, non sono meno devastanti quelli espressi da parenti, amici, colleghi di lavoro e così via.

Chi appare davvero carente di forza e coraggio, non solo nel sostenere le vittime ma nel riconoscere la violenza contro le donne come risultato primario della diseguaglianza di genere, è la società nel suo complesso. E’ facile posare da saggi dietro a una tastiera e consigliare alla donna di lasciare l’uomo violento, di denunciare, di comportarsi o non comportarsi così e colà, come se i due fossero sullo stesso piano: non lo sono (ancora e ovunque) ne’ socialmente ne’ legalmente. Una donna può tornare dal partner che abusa di lei non perché “ama troppo” o “ama male” ma perché è economicamente dipendente o perché ha assorbito a sufficienza le stronzate misogine sul ruolo e sulle sue responsabilità come compagna / madre che girano senza controllo (cosa accadrà ai bambini se lei li sottrae al padre?).

Sicuramente più produttivo in termini di contrasto alla violenza è dire / intimare ai violenti di smettere. La legge fa la seconda parte, ma la prima dobbiamo farla noi.

Maria G. Di Rienzo

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Non gli hanno ancora dato una medaglia, ma immagino sia solo questione di tempo. Il Tribunale del Riesame di Bari ha infatti ridimensionato i reati contestati all’ex giudice Francesco Bellomo,

( https://lunanuvola.wordpress.com/2017/12/13/si-chiama-etica/ )

gli ha tolto gli arresti domiciliari dopo venti giorni e gli impone unicamente l’interdizione per 12 mesi riguardo ad “attività imprenditoriali o professionali di direzione scientifica e docenza”.

Dopo di che, potrà tornare a insegnare lunghezza delle gonne e profondità delle scollature, fotografia porno, coercizioni sessuali e in genere sottomissione femminile nella sua “scuola di formazione” per la preparazione all’ingresso in magistratura.

Gli articoli al proposito adesso parlano di “presunti maltrattamenti” a quattro donne, si trattava di semplice “tentata violenza privata aggravata e stalking” e per quel che concerne l’estorsione ai danni di una di esse, costretta dal signore a lasciare il lavoro be’, era il 2011 quindi è roba “già sostanzialmente prescritta”.

I difensori di Bellomo sono così contenti che annunciano di voler andare in Cassazione a contestare i 12 mesi in cui al loro assistito viene “inibito l’insegnamento”: non è accettabile, perbacco, soprattutto – dico io – quando non gli è nemmeno stato dato un incarico nella giuria di “Miss Culo Agosto” alla Sagra del Peperoncino o un posto direzionale a YouPorn.

Ma ehi, donne: e dite di no, cavolo, non siete capaci di dire di no?

Ma ehi, donne: denunciate, denunciate altrimenti è (ancora di più) colpa vostra!

Ogni volta in cui una donna parla apertamente degli abusi che subisce ne riceve immediatamente altri due, l’incredulità e la ridicolizzazione. Quando poi riesce ad arrivare in tribunale più spesso che no le sentenze gliene infliggono un terzo, dimostrandole quanto sul serio i giudici l’hanno presa.

Questo è il motivo per cui sovente non diciamo nulla. E questo è il motivo per cui i numeri della violenza di genere nel nostro paese sono definiti, a ogni nuova indagine statistica, impressionanti: gli italiani non vogliono saperne di modificare le loro abitudini di svilimento e oggettivazione delle donne.

Perciò, solo per portare un recentissimo esempio, un ospedale piemontese può realizzare un filmato sulla prevenzione in campo urologico con l’attore porno Rocco Siffredi, ove quest’ultimo incita in modo sessista e volgare a usare sessualmente le donne per la salute del pisello di turno. Quando i messaggi misogini arrivano da enti, istituzioni, tribunali, ospedali sigillano con l’aura dell’autorevolezza o addirittura della scienza un falso ideologico e cioè l’idea che le donne siano una branca inferiore del genere umano, meramente addette al fornire soddisfazione ai “veri” esseri umani, gli uomini.

Maria G. Di Rienzo

picard

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(tratto da: “Bolivia Declares Femicide a National Priority”, di Anastasia Moloney per Thomson Reuters Foundation, 16 luglio 2019, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

La Bolivia, che ha una delle percentuali più alta di donne uccise per il loro genere in Sudamerica, ha dichiarato il femicidio una priorità nazionale e aumenterà gli sforzi per contrastare la crescente violenza. Da gennaio le autorità hanno registrato 73 femicidi (1), il numero più alto dal 2013. Gli omicidi ammontano a una donna uccisa ogni due giorni.

Tania

“Nei termini del numero di femicidi la Bolivia è al top della classifica.”, ha detto Tania Sanchez (in immagine sopra), a capo del “Servizio plurinazionale per le donne e per la fine del patriarcato” (2) del Ministero della Giustizia boliviano, nonostante le protezioni legali in essere.

Una legge del 2013 definisce il femicidio come crimine specifico e prevede sentenze più severe per i perpetratori condannati. “Noi non siamo indifferenti. – ha detto Sanchez a Thomson Reuters Foundation – La priorità nazionale sono le vite delle donne, di tutte le età, e per tale ragione il Presidente ha sollevato la questione del femicidio come la forma di violenza più estrema.”

L’ultima vittima di femicidio è stata la madre 26enne Mery Vila, uccisa la scorsa settimana dal suo partner a martellate in testa. Questa settimana il governo ha annunciato il suo “piano d’emergenza” in 10 punti.

In Bolivia, la violenza contro le donne è motivata da una radicata cultura machista che tende a biasimare le vittime e a condonare la violenza stessa. Secondo un’indagine governativa nazionale del 2016, sette donne boliviane su dieci dichiarano di aver sofferto qualche tipo di violenza da parte di un compagno.

Sanchez dice che il nuovo piano “prende in conto la prevenzione, così come la cura delle vittime e la sanzione della violenza, la violenza macho” e che una commissione valuterà l’aumentata spesa del governo sulla violenza di genere e la sua prevenzione, così come il grado di successo delle svariate iniziative. Altre misure includono formazione obbligatoria per funzionari statali e operatori del settore pubblico su violenza di genere e prevenzione. Insegnanti di scuole e università riceveranno anche formazione su “la violenza psicologica, sessuale e fisica” che le donne e le bambine sperimentano.

Le vittime dei femicidi in Bolivia e nella regione in generale spesso muoiono per mano di attuali o ex fidanzati e mariti con una storia di abuso domestico alle spalle, dicono gli esperti. “Noi crediamo che l’aumento (dei femicidi) si dia in relazione a un sistema patriarcale che si appropria dei corpi e delle vite delle donne.”, ha detto Violeta Dominguez, capo dell’Agenzia Donne delle Nazioni Unite in Bolivia.

I casi di femicidio restano spesso impuniti, con le famiglie delle vittime che lottano per la giustizia, ha detto ancora Sanchez: dei 627 casi accertati dal 2013, 288 restano aperti senza sentenza, il che Sanchez giudica “allarmante”.

Il Presidente boliviano Evo Morales ha scritto su Twitter lunedì scorso: “E’ ora di metter fine all’impunità e di affrontare i problemi come società.”

(1) In America Latina si usano sovente due termini per definire la mattanza di donne: femicidio – l’assassinio di donne da parte di uomini perché sono donne, a causa della loro “subordinazione” di genere, e femminicidio – che sottolinea l’impunità e le complicità relative ai femicidi: il crimine non viene commesso solo quando si uccide una donna, ma anche quando lo Stato non investiga accuratamente e si fa complice, cioè non garantisce alle donne una vita libera dalla violenza e il loro diritto alla giustizia.

(2) “Plurinazionale” fa riferimento alla definizione ufficiale del Paese: Stato plurinazionale della Bolivia. Adesso vi pregherei di immaginare il Ministro della Giustizia italiano, Alfonso Bonafede, che chiede l’apertura del dipartimento per mettere fine al patriarcato nel suo dicastero. Mission impossible. In alternativa, potete immaginare che lo chieda il Ministro dell’Interno: fantascienza.

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“(…) Nella storia dei popoli le migrazioni forzate di individui o di interi gruppi, per ragioni politiche od economiche, assumono quasi l’aspetto di un avvenimento quotidiano.

Quel che è senza precedenti non è la perdita di una patria, bensì l’impossibilità di trovarne una nuova.

D’improvviso non c’è più stato nessun luogo sulla terra dove gli emigranti potessero andare senza le restrizioni più severe, nessun paese dove potessero essere assimilati, nessun territorio dove potessero fondare una propria comunità.

Ciò non aveva nulla a che fare con problemi materiali di sovrapopolamento; non era un problema di spazio, ma di organizzazione politica. Nessuno si era accorto che l’umanità, per tanto tempo considerata una famiglia di nazioni, aveva ormai raggiunto lo stadio in cui chiunque veniva escluso da una di queste comunità chiuse, rigidamente organizzate, si trovava altresì escluso dall’intera famiglia delle nazioni, dall’umanità. (…)

I nuovi esuli erano perseguitati non per quel che avevano fatto o pensato, ma per quel che erano immutabilmente, perché nati nella razza o nella classe sbagliata (…) Col crescere del numero delle persone prive di diritti si tendeva a prestare meno attenzione ai misfatti dei governi persecutori che allo status dei perseguitati. Questi, pur dovendo la loro sorte a una causa politica, non erano più, come in ogni altro periodo della storia una passività e una vergogna per i persecutori (…) ma erano e apparivano nient’altro che esseri umani la cui innocenza, specialmente dal punto di vista del governo persecutore, era la loro massima disgrazia. L’innocenza, nel senso di assoluta mancanza di responsabilità, era il contrassegno della perdita di ogni diritto, oltre che dello status politico. (…)

Uno degli aspetti più sorprendenti dell’esperienza moderna è che è manifestamente più facile privare della capacità giuridica una persona completamente innocente che l’autore di un reato. (…)

La disgrazia degli individui senza status giuridico non consiste nell’essere privati della vita, della libertà, del perseguimento della felicità, dell’eguaglianza di fronte alla legge e della libertà di opinione (…) ma nel non appartenere più ad alcuna comunità di sorta (…)

Anche i nazisti, nella loro opera di sterminio, hanno per prima cosa privato gli ebrei di ogni status giuridico, della cittadinanza di seconda classe, e li hanno isolati dal mondo dei vivi ammassandoli nei ghetti e nei Lager; e, prima di azionare le camere a gas, li hanno offerti al mondo constatando con soddisfazione che nessuno li voleva.

In altre parole, è stata creata una condizione di completa assenza di diritti prima di calpestare il diritto alla vita.”

Hannah Arendt, “Le origini del totalitarismo”, cap. 9: “Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani”.

Le sottolineature sono mie. Il testo ricorda fatti molto attuali e molto italiani: i “decreti sicurezza”, per esempio. Maria G. Di Rienzo

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La storia è una di quelle che è facile rubricare come insignificante: 1) notte del 26 giugno scorso, proteste al porto di Civitavecchia per il ritardo sull’orario di imbarco per Tunisi; 2) un viaggiatore in attesa, tunisino, si oppone alla richiesta della polizia di spostare la propria automobile in fila per far passare un camion; 3) spinte, strattoni, scambio di insulti fra più persone; 4) tre tunisini arrestati e poi condannati per direttissima per resistenza a pubblico ufficiale.

Il video che riprende l’accaduto parte dal punto 3. Si vede un poliziotto spingere violentemente un uomo contro la fiancata di un’auto e costui rispondere a sua volta con una spinta. Nella confusione seguente, è possibile scorgere un poliziotto che schiaffeggia un uomo e poi estrae la pistola minacciando di sparare, ma a causa del movimento di altri corpi nella finestra del video non è chiaro se si tratti dei primi due.

Secondo le forze dell’ordine gli agenti sarebbero stati aggrediti per primi, la “sproporzione numerica” li avrebbe costretti a chiedere rinforzi e la pistola è stata estratta solo per “evitare ulteriori sopraffazioni”.

Tuttavia, sbandierare una pistola urlando “Guarda che ti sparo” non sembra proprio in linea con quanto previsto dall’art. 53 del Codice Penale sull’uso legittimo delle armi. Come detto, dalle immagini riprese non è possibile evincere l’intero svolgersi degli eventi, ma il protocollo per l’azione degli agenti prevede:

dialogo, ove “Signore per cortesia si sposti, in caso contrario viola il tal articolo di legge e siamo costretti ad arrestarla”, è senz’altro più corretto di un eventuale “Cavati dalle palle stronzo”;

allontanamento del sospetto, tramite persuasione, da luogo o posizione di pericolo che potrebbero recare danno all’agente o a terzi;

controllo meccanico, e cioè l’uso delle mani e della forza fisica per conseguire il punto succitato: in breve, il portare via qualcuno di peso, che però non è prenderlo a spintoni e a ceffoni;

impiego di strumenti difensivi (tipo il manganello) per l’applicazione di una forza contenuta;

impiego della forza letale, e quindi delle armi.

“Una vicenda ancora poco chiara, – dice un articolo al proposito – ma che sta già dividendo l’Italia. Sul web, infatti, ci si divide tra chi sostiene che sia stato un utilizzo eccessivo della forza da parte del poliziotto e chi chiede pene più dure per chi resiste agli agenti.”

Il vero fulcro della questione, dei dibattiti e delle divisioni sta in questa parola: tunisini. Se ad essa sostituissimo, per esempio, “trasteverini” gli schieramenti diverrebbero già meno granitici, ma poiché di tunisini si tratta questi sono i commenti più comuni:

“Preziose risorse che mostrano tutto il rispetto per l’autorita’ dello stato che li ha accolti. Al paesello suo l’agente buttava in mare la macchina con tutto il conducente. Ed era gia’ fortunato.”

(L’autore di quanto sopra, che tra l’altro non conosce l’esistenza della “a accentata” e non la scorge sulla sua tastiera, invece che preziosa risorsa per lo stato di cui è nativo, potrebbe essere definito nocumento culturale.)

“I carabinieri e i poliziotti dovrebbero essere dotati di teaser.”

(Okay, magari anche di trailer, così sappiamo meglio se nella seconda puntata usano gas lacrimogeno o fanno intervenire squadre antisommossa. Taser, la pistola elettrica si chiama taser!!!)

“Agli ordini della polizia si obbedisce, ma siccome il tunisino ha visto come la comandante Carola ha disobbedito alla GdF, ha pensato che fosse possibile pure per lui.”

(L’impulso a far da tappetino ai potenti sembra qui irresistibile: forse, se questa clamorosa idiozia arriva a conoscenza del ministro giusto, l’autore della stessa vincerà una telefonata o un caffè con il suo idolo. Però resta una clamorosa idiozia, beninteso.)

“L’America di Trump ci vorrebbe! Come sempre alcuni italioti pronti a difendere ad oltranza soggetti indifendibili!”

(Nella serie di commenti in cui quest’invocazione con relativo insulto – italioti – è inserita non ce n’era uno, dicasi uno, che difendesse i tunisini coinvolti nella vicenda. Se fosse possibile appellarsi agli Usa da questo blog, avrei già chiesto la concessione della green card per il suo sostenitore: se l’unica idea di futuro che ha è Trump, meglio che emigri.)

Per chiudere, a me non sta bene la continua richiesta di schieramento con contrapposizione frontale: la gestione dell’ordine pubblico è cosa molto seria che tocca i diritti umani delle persone coinvolte e non questione di tifoseria (“Io sto con la polizia!”, come squittisce di continuo un noto personaggio politico). La violenza la rifiuto per principio, per cui come non mi sta bene che sia usata da semplici cittadini, non mi sta nemmeno bene che alcuni elementi delle forze dell’ordine la usino a sproposito valicando i limiti prescritti dalle leggi. Esultare quando ciò accade in relazione a stranieri, migranti ecc. è indice di vista corta, perché una volta sdoganata questa tendenza non risparmia nessuno ed è veleno per la democrazia. Pur di godere dando addosso ai tunisini di turno, vi starà bene nel futuro prossimo avere paura, per principio, nel momento in cui un individuo in divisa si avvicina a voi per qualsiasi motivo? Vi starà bene sapere che anche se abusa di voi sarà giustificato, protetto e non risponderà delle sue azioni?

Maria G. Di Rienzo

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Nel paese dei balocchi e dei farlocchi, ogni volta in cui abbiamo alzato la testa e abbiamo detto: questo è offensivo, quest’altro incita alla violenza, quest’altro ancora è falso e scorretto, non ha alcun riscontro storico ne’ scientifico… un coro di cialtroni ambosessi ci ha urlato con somma indignazione che tutto era rubricabile come “opinione” e che, come tale, tutto doveva essere nobilmente difeso.

Esaminare contesto e merito è troppo difficile, quando per vivere si usano a stento un paio di neuroni, meglio sparare idiozie a nastro e sentirsi vincenti, potenti, superiori, legittimati dai numeri anche quando i numeri non ci sono (tutti dicono che…) e paladini della “libertà di pensiero”.

Be’, io vorrei sapere dove questi eroi e queste eroine sono adesso, nel momento in cui le opinioni può averle solo chi sta al governo. Nella fattispecie, si possono avere idee e convinzioni solo quando esse concordino con quelle di chi ha vinto le elezioni. I seguaci di Voltaire non annusano niente? Io sento una gran puzza di prove generali di dittatura. Solo in questi primi 9 giorni di giugno:

* A Porto Mantovano la Digos ha vietato i lenzuoli che criticano Salvini, interpretati come “turbativa di comizio”.

* A Novate Milanese la contestazione pacifica durante il comizio del suddetto è tenuta a distanza dalla polizia, che ha sequestrato un gommone gonfiabile per “questioni di ordine pubblico”.

*A Roma, durante la manifestazione del pubblico impiego, gli agenti della Digos intimano la chiusura di uno striscione (l’avrete probabilmente visto, una vignetta inoffensiva) ai sindacalisti della Uil: “Hanno visto lo striscione, lo hanno fotografato e si sono avvicinati per intimarci di chiuderlo: hanno detto che non potevamo esporlo perché raffigurava i due ministri e loro avevano la direttiva secondo cui non si possono esporre striscioni che facciano riferimento ai due ministri. (nda. Di Maio e Salvini) Abbiamo ribattuto dicendo che non era offensivo ma ironico, loro hanno concordato ma avevano una direttiva da rispettare. A un certo punto ce lo stavano togliendo dalle mani con la forza, ma lo abbiamo chiuso noi. Da allora ci hanno seguito fisicamente e sorvegliato a vista fino a Piazza del Popolo affinché non esponessimo lo striscione. In piazza ci hanno chiesto di portarlo via con il furgone e sono rimasti sempre nelle vicinanze.”.

Naturalmente una “direttiva” del genere è ILLEGALE, perché non esiste il reato di “vilipendio a Gigino” o “lesa maestà di Matteo”: l’unica persona tutelata in questo senso, non come individuo ma come carica istituzionale, è il Presidente della Repubblica (Codice Penale – art. 278). Perciò la Questura se ne esce con questa spiegazione: “si è ritenuto che lo striscione fosse lesivo del decoro paesaggistico”.

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* Sul pestaggio del giornalista Origone da parte della polizia, il Ministro dell’Interno tace e manda avanti il suo sottosegretario, il quale esprime “rammarico”, ma nulla di più, giacché “i cronisti non erano riconoscibili”. Capito bene? Niente scuse, niente prese di distanza o condanne, niente rassicurazioni sul diritto di cronaca / informazione, niente impegni sulla protezione dei giornalisti… e un inquietante “fra le righe”: i cittadini non riconoscibili come reporter, fotografi, cineoperatori possono essere massacrati di botte in totale impunità?

* I giudici che hanno emesso sentenze non gradite al Ministro suddetto – dopo una squallida operazione di “dossieraggio” che ha scandagliato le loro vite private – sono stati definiti “contrari al governo”, avendo “espresso idee” o avendo “avuto rapporti di collaborazione o vicinanza con riviste sensibili al tema degli stranieri“! Per cui, non dovrebbero esercitare la loro professione quando le questioni legali di cui si occupano potrebbero risolversi in maniera tale da infastidire l’esecutivo in materia di immigrazione. In questo contesto, sembra che “Salvini” e “governo” siano sinonimi e che l’indipendenza della magistratura sia cosa del passato: perché il Viminale non sta solo esprimendo le sue opinioni, “sta valutando di rivolgersi all’Avvocatura dello Stato” per verificare se c’è qualche escamotage adatto a sanzionare i magistrati nel mirino.

Vedete bene che palesare critiche o convincimenti avendo l’agio di dare “direttive” alle forze dell’ordine o di avviare procedimenti legali in nome dello Stato è un po’ diverso dal farlo con un lenzuolo alla finestra o uno striscione per strada, vero? Le posizioni di forza da cui si parte non sono paragonabili.

Comunque, sino a questo momento le giustificazioni adottate da governo e questure hanno davvero brillato per creatività (risultando purtroppo insensate e ridicole, ma sono i rischi del mestiere quando la politica diventa spettacolo tragicomico). Mi domando di quali altri reati potrebbero essere accusati i dissenzienti che dicano o scrivano “quel che Di Maio e Salvini stanno facendo non mi piace”, magari di “deturpazione di patrimonio artistico della nazione italiana (tutelato dalla Costituzione – art. 9)” – in effetti le biografie autorizzate reiterano l’abbagliante bellezza dei due, oppure di “atti osceni in luogo pubblico” (Codice Penale – art. 527), giacché l’operato dell’attuale governo è privo di senso del pudore?

mirandola

Maria G. Di Rienzo

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Onorevoli membri della Commissione Giustizia del Senato, oggi 9 aprile a partire dalle ore 14.00 discuterete in seduta plenaria di diversi argomenti, fra cui le proposte del senatore leghista Pillon in materia di affido condiviso.

La rivolta di ampi settori della società civile contro queste ultime vi è di certo nota ed è stata dettagliata sotto il punto di vista giuridico e tecnico non meno che sotto il punto di vista ideale, ove l’idea di famiglia prospettata richiama disagevoli associazioni con una struttura di comando e controllo (tipo una caserma con un marito-padre colonnello, una moglie-madre attendente e dei figli soldatini). A noi contestatori / contestatrici preoccupa anche il conflitto di interessi riguardante il senatore, giacché un disegno di legge che prevede la mediazione familiare a pagamento e la relativa offerta presentata dallo studio legale di chi quella medesima legge presenta, insieme suonano davvero male.

Fra poche ore, il senatore Pillon vi esporrà la sua relazione e voi avrete di fronte lo stesso uomo che in questi giorni siede sul banco degli imputati in un processo per omofobia; se la vicenda non vi fosse nota, sottolineo innanzitutto che non si tratta di un processo alle sue opinioni, ma del fatto che ha orchestrato una vera e propria campagna diffamatoria dell’associazione Lgbt “Omphalos”, affiliata Arcigay, con tanto di manipolazione del loro materiale informativo (volantini “taroccati”, per stare sul colloquiale).

In una serie di performance pubbliche in tutta Italia, questo individuo ha anche ripetuto che “quelli di Arcigay vanno nei licei e spiegano ai vostri figli che per fare l’amore bisogna essere o due maschi o due femmine e non si può fare diversamente e… venite a provare da noi, nel nostro welcome group”. Cioè, ha scientemente trasformato l’opera di sensibilizzazione contro il bullismo omofobo e di informazione sulle malattie a trasmissione sessuale in una squallida manovra per adescare minorenni.

So che in aula il sig. Pillon si è giustificato dichiarando che la campagna diffamatoria era solo “ironia sferzante”, paragonando la stessa alla “satira dei libri di Guareschi”. Giovannino Guareschi, celebrato creatore di Don Camillo e Peppone, dichiaratamente uomo di destra per quanto rigettasse il nazifascismo, si trovò in effetti a doversi difendere in tribunale da un’accusa di diffamazione a mezzo stampa (per la quale fu poi condannato e scontò più di un anno di galera). Aveva pubblicato nel 1954 due lettere in cui apparentemente De Gasperi, durante la II guerra mondiale, esortava gli alleati a effettuare bombardamenti. Guareschi le credette vere, ma le analisi storiche hanno comprovato che si trattava di due falsi prodotti dal neofascista De Toma, che fuggì all’estero a processo concluso.

Guareschi non aveva manipolato personalmente le due lettere. Pillon ha personalmente manipolato il materiale dell’associazione diffamata.

Guareschi aveva buoni motivi per lamentarsi del comportamento del collegio giudicante e si considerò condannato ingiustamente: tuttavia, per questione di principio, non presentò appello ne’ successivamente chiese la grazia. Era, nel senso relativo alla sua epoca, un “galantuomo”. Temo, Onorevoli membri della Commissione Giustizia del Senato, che a tal proposito il senatore Pillon si stia gloriando di un paragone insostenibile.

E’ impossibile accettare che una persona del genere abbia titolo per “riformare” il diritto di famiglia, poiché carente sia a livello di competenze (è evidente che ignora il reale status delle famiglie italiane) sia, come risulta da quanto esposto sopra, a livello etico. Prima di prendere qualsiasi decisione, dovreste necessariamente riflettere su ciò.

Maria G. Di Rienzo

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Brutte giornate. Dei tre indagati per lo stupro di una ragazza nell’ascensore della Circumvesuviana, due sono stati scarcerati: gli è bastato dire che si è trattato di “un rapporto consenziente” e la vittima ha pubblicamente e giustamente chiesto a cosa le è servito denunciare le violenze subite; la giovane statunitense stuprata a Catania da tre giovanotti molto perbene era riuscita a mandare ben cinque messaggi chiedendo aiuto a un supposto “amico” che non ha capito e non aveva l’auto e comunque non poteva farci niente; lo sdoganamento per le pistolettate facili è legge e per favore non parlatemi di legittima difesa e non vestite il ministro Salvini da Robin Hood, perché non sono i poveri e i più vulnerabili a prendere a fucilate i ricchi, è il contrario; il “Codice Rosso” si sta mostrando esattamente per quel che è: un’operazione propagandistica che non fa niente contro la violenza di genere oltre a rendere più severe alcune sentenze, che non può usare un emendamento dell’odiatissima Laura Boldrini sul “revenge porn” (meglio fare una leggina tutta nostra con l’impronta della dentatura sorridente di Di Maio, se no quella si prende il merito), che usa refrain acchiappa-click come la “castrazione chimica”, la quale oltre a essere comunque una forma di tortura sarebbe applicata solo se il condannato si dichiarasse d’accordo (ma come fate a dire stupidaggini del genere e a sedere nel Parlamento della Repubblica?).

E’ uno scenario deprimente ma logico, giacché la cultura della violenza non può sconfiggere se stessa. I cambiamenti nelle leggi o l’emanazione di nuove leggi non sono sufficienti a promuovere i diritti delle donne: comportamenti e attitudini verso le donne derivati dalla socializzazione hanno impatto diretto su come le leggi sono poi implementate e interpretate – e ciò è stato assai visibile di recente in numerosi pronunciamenti giudiziari.

L’Italia è un paese in cui la violenza sessuale contro le donne è normalizzata e giustificata tramite i media e la “cultura popolare”, perpetuata tramite l’oggettivazione dei corpi femminili, la profonda misoginia del linguaggio comune, la spettacolarizzazione dello stupro (in cui la pubblicità è somma maestra).

La compagine governativa vuole davvero fare uno sforzo per riformare lo status delle donne italiane nella società e renderle meno vulnerabili alla violenza? Metta mano alle leggi sul lavoro e le difenda da discriminazioni, molestie sessuali, disparità nei salari; si assicuri che siano tutelate a livello economico nelle legislazioni relative a eredità, proprietà, finanza, accesso al credito; smetta di scaricare sulle donne la propria incapacità a far quadrare i conti distruggendo le reti del welfare e tagliando i finanziamenti a sanità e scuola, perché sono le donne a caricarsi dei bisogni di bambini, anziani, malati e disabili – e costoro non sono zavorra, ma esseri umani titolari di diritti umani a cui lo stato deve attenzione e rispetto; azzeri la propria compiaciuta accettazione dell’attuale visione stereotipata e avvilente delle donne smettendo di avvallare con presenza e patrocinio tutto ciò che le riduce a strumenti per la soddisfazione maschile (dai concorsi di bellezza ai congressi patriarcali); apra spazi per discutere su tutto il territorio nazionale di come la classificazione accessoria e inferiore di metà del genere umano danneggi e distrugga le vite di tutti, femmine e maschi, e in questi spazi, umilmente, ascolti cosa le donne, le attiviste antiviolenza, le femministe hanno da dire.

Maria G. Di Rienzo

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