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Posts Tagged ‘islanda’

(brano tratto da “A sex strike is not enough: women need to down tools completely”, di Suzanne Moore per The Guardian, 13 maggio 2019, trad. Maria G. Di Rienzo. Il titolo fa riferimento alla proposta di Alyssa Milano di uno “sciopero del sesso” come protesta contro gli attacchi ai diritti riproduttivi delle donne, in particolare contro le leggi sempre più restrittive sull’interruzione di gravidanza. Moore apprezza il concetto, ma ritiene che non sarebbe sufficientemente efficace.)

unpaid care work

Se noi donne vogliamo affermare il nostro diritto all’autonomia corporea e il nostro valore economico, fermiamoci e basta. Solo fermiamoci. Non andate a prendere i bambini a scuola. Non caricate la lavatrice. Non sorridete a quell’uomo perché vi sta rendendo nervose. Non comprate i regali di compleanno. Smettete di curarvene, in altre parole.

Perché questa è l’enorme diseguaglianza a livello globale: il lavoro non pagato delle donne, che consiste in maggior parte nel curarsi degli altri. Eravamo solite chiamarlo il dibattito sul lavoro domestico, a cui parte della sinistra dava vagamente riconoscimento; ma la sinistra, proprio come ogni altra parte della vita, funziona grazie al lavoro non pagato delle donne. Lavoro che è visto come volontario.

Ora il dibattito è riemerso come valutazione economica. A Davos, l’incontro alla stazione sciistica dove la gente ricca fa finta che gliene importi qualcosa, quest’anno Oxfam ha presentato un rapporto sul lavoro non pagato delle donne in tutto il mondo. Vale 10 trilioni di dollari (7,7 trilioni di sterline – ndt. 9 trilioni di euro: un trilione equivale a un miliardo di miliardi) – il che sembra proprio un bel mucchio di soldi, ma non posso mettermi a far calcoli perché ho una lavastoviglie da scaricare, un parente malato da visitare, un bambino a cui star dietro. Come sarebbe smettere di lavorare gratis? La maggior parte di noi troverebbe difficile persino separare le nostre vite domestiche da quel che riteniamo l’essere persone decenti. (…)

Il doppio turno del lavoro pagato e del lavoro non pagato è il pezzetto su cui le donne mentono in pubblico – e a se stesse. Per favore non disturbatevi a dirmi che gli uomini ora fanno di più. Vivo nel nord di Londra in un mare di barbe, passeggini e padri che comprano patatine di cavolo: pure, non ho ancora tempo per applaudire gli uomini quando si curano dei loro propri figli.

In Islanda, il 24 ottobre 1975, le donne scioperarono per un giorno. Le pescherie chiusero. I padri si portarono i figli al lavoro. Le salsicce andarono esaurite, perché questo gli uomini diedero da mangiare ai propri bambini. Una legge che garantiva eguaglianza sui salari passò. Questo giorno, che è ancora celebrato, divenne noto come “il lungo venerdì”.

L’idea sembra fantascientifica adesso – persino la nozione base che le donne mostrino tale solidarietà. Però, ora ci troviamo in un momento in cui i diritti delle donne tornano indietro negli Usa, in Polonia, in Spagna e ovunque. Quindi, non è il sesso che bisogna sospendere; è il lavoro non pagato. Bloccherebbe il mondo.

Donne di tutto il mondo, unitevi. Non perderemo le nostre catene: semplicemente le renderemo visibili. Potremmo essere eroi, anche se solo per un giorno. (1)

(1) “Heroes” – David Bowie – https://www.youtube.com/watch?v=lXgkuM2NhYI

Confido di non dovervi mettere il link per la citazione immediatamente precedente… ; – )

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Jólakötturinn

Una strana creatura del folklore islandese è Jólakötturinn (che si traduce come “Gatto del Solstizio d’Inverno” ed è poi divenuto semplicemente il “Gatto di Natale”).

Jólakötturinn è un gatto enorme, vive nelle montagne assieme alla gigante Grýla ed è una specie di incallito e terribile fashionista: scende a valle durante le festività invernali per mangiare i bambini che non hanno avuto in dono, per esse, abiti nuovi.

Sebbene la storia affondi nell’antichità, non abbiamo sue versioni scritte datate prima del 19° secolo: la spiegazione accademica è che sia stata usata come “incentivo” per mettere fretta ai pastori affinché terminassero in tempo la tosatura delle pecore, di modo che i nuovi abiti fossero tessuti e che loro stessi avessero abbastanza denaro per trascorrere felicemente il Natale.

Per quel che sappiamo dalla tradizione orale, all’inizio Jólakötturinn si limitava a spazzar via il cibo di quelli senza vestiti nuovi e la sua percezione come mangiatore-di-carne-umana si deve principalmente alla poesia che porta il suo nome e fu scritta da uno dei più amati poeti islandesi, Jóhannes úr Kötlum (Jóhannes Bjarni Jónasson, 1899-1972).

La teoria popolare è che la storia del gatto vendicatore avesse la funzione di dare una spintarella all’altruismo, di modo che ai bambini più poveri fossero donati abiti di lana nella stagione più fredda. Allo stesso modo la vicenda è stata letta dalla cantautrice e compositrice Björk (Björk Guðmundsdóttir) che nel 1987 registrò una canzone tradizionale su Jólakötturinn – nella quale, tra l’altro, la creatura è identificata sia al maschile sia al femminile. Le strofe finali recitano:

“Se lei esista ancora io non lo so

ma il suo viaggio sarebbe inutile

se tutti per il prossimo Natale

avessero qualche abito nuovo.

Potresti voler tenere in mente

di dare aiuto ove ve ne sia bisogno

perché da qualche parte possono esserci bimbi

che non ricevono nulla del tutto.

Forse il curarsi di coloro che soffrono

per mancanza di luci copiose

ti darà una stagione felice

e un allegro Natale.”

Alcune pratiche tradizionali prevedono di lasciar fuori del cibo per il/la Jólakötturinn durante l’inverno e anche questo può iscriversi nella cornice del favorire la compassione e la condivisione (in più, in questo modo la bestia non ti entra in casa di soppiatto per fregare l’arrosto dal tavolo natalizio…). La mia Jólakötturinn attuale è molto meno spaventosa dell’originale: è bianca, con gli occhi azzurri e non so se abbia un proprietario – se lo ha, se ne cura molto poco e Björk dixit non avrà un Natale allegro – tuttavia vado a darle una piccola colazione di cibo per gatti ogni mattina.

La cosa mi rende felice di per sé e non ho certo bisogno di ricompense, ma è consolante sapere che gli islandesi mi augurano implicitamente uno splendido Solstizio d’Inverno (21 dicembre, ore 23.23) e io giro gli auguri a ognuna/o di voi.

Maria G. Di Rienzo

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fangar - linda

Lo sceneggiato islandese “Fangar” – “Prigioniere”, è stato di recente reso disponibile online con sottotitoli in italiano (nell’immagine l’attrice Thora Bjorg Helga che interpreta il personaggio principale, Linda). Sono sei intense puntate da cinquanta minuti l’una che raccontano, attorno alla storia che fa da traino, la vita delle donne in carcere – in special modo le madri – senza alcun romanticismo o abbellimento. Le protagoniste non sono raffigurate in modo da accattivarsi la simpatia degli spettatori e la loro umanità emerge nel corso del vicenda in modo lento ma inesorabile: tutte hanno alle spalle esperienze che possiamo riconoscere, tutte ci assomigliano un poco.

Perché, se avete tempo e voglia, dovreste vederlo? Perché “Fangar” ha alle spalle sette anni di lavoro, numerosi colloqui diretti con le 12 incarcerate nella prigione di Kópavogur (chiusa un paio di anni fa, è stata poi usata come set per i filmati) ed è il frutto della collaborazione di uomini e donne che avevano in mente questo: “Non volevamo fare uno sceneggiato tipico sulla prigione. Abbiamo sviluppato la storia, facendo ricerche su come gli uomini usano il loro potere per ridurre al silenzio le donne e abusare di loro. Ci sono stati vari scandali di questo tipo in Islanda. Abbiamo deciso di raccontare la storia dal punto di vista di una famiglia, tre generazioni di donne all’interno di una famiglia.”

Le generazioni in questione comprendono la 30enne già citata Linda, sua sorella maggiore Valgerdur (Halldóra Geirhardsdóttir) che è una donna politica e una deputata, con una figlia quattordicenne (Katla Njálsdóttir), e la madre delle due, Herdis (Kristbjörg Kjeld), casalinga ingenua che avrà parecchie drammatiche “rivelazioni” nel corso della vicenda.

Linda, dedita agli stupefacenti, finisce in galera per un violento assalto al proprio padre, che lo riduce in coma. Le sue motivazioni non ci appaiono chiare – all’inizio sappiamo solo che cercava soldi nello studio dell’uomo, così come non sembra del tutto comprensibile l’abbandono totale di lei da parte della famiglia. Scopriremo pian piano che questa gente così “per bene” (una volta rimesso, per fare un esempio, il padre di Linda riceve una lettera di congratulazioni persino dal Presidente del paese) protegge accuratamente un segreto: negandolo, non vedendolo, ignorandolo, fingendo – come troppe famiglie fanno ovunque – che sia tutto perfettamente a posto e se la Linda di turno insinua o dice esplicitamente il contrario è perché è drogata e pazza e violenta…

Non vi rovinerò lo sherlockiano piacere di vederlo emergere svelandolo ora, ma sono certissima che gli indizi vi hanno già messo sulla strada giusta. Buona visione. Maria G. Di Rienzo

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ascension

long-way

Non li ho trovati in italiano, perciò dateci dentro editori: è vero che posso leggere i due libri anche in lingua originale (infatti ne ho scorso alcuni brani) però in questo caso sono poche le persone a cui posso consigliarli o regalarli. Il 2017 è ancora giovanissimo, realizzate il mio desiderio prima che l’anno in corso finisca e una pioggia di benedizioni stregonesche femministe cadrà su di voi, so mote it be.

Il primo è “Ascension” – “Ascesa”, romanzo di debutto di Jacqueline Koyanagi (americana-giapponese, in immagine) del 2013.

jacqueline

In nuce: la protagonista, Alana, è una “chirurga stellare” (ingegneria meccanica per navi spaziali) in difficoltà finanziarie anche a causa di una malattia cronica, è di colore e lesbica, ha una difficile ma intensa relazione con la sorella – una “guida spirituale” in grado di lavorare le energie per trasformare la realtà – e si innamora della capitana dell’astronave su cui s’imbarca, una donna che è poliamorista. Altri personaggi sono bisessuali, neri, latini, disabili, eccetera.

Jacqueline ha detto di aver deciso di scrivere di tutti quelli che sono in genere lasciati fuori dalla “space opera”, compresa lei stessa che ha sofferto di autismo e sindrome da stress post-traumatico. Il passo narrativo è così amabile, reso tramite il punto di vista di Alana, che credo non perderà nulla del suo incanto nella traduzione.

Il secondo è “The Long Way to a Small Angry Planet” – “La lunga strada verso un piccolo pianeta arrabbiato”, romanzo del 2014 di Becky Chambers (in immagine). Becky è nata negli Usa ma vive a Reykjavik, in Islanda.

becky

E’ la storia dell’equipaggio della nave spaziale Wayfarer, una “nave da lavoro” che crea cunicoli spazio-temporali (i wormholes) per facilitare i viaggi a velocità superiore a quella della luce. Quest’equipaggio è composto da umani, alieni di varie specie e intelligenze artificiali e si muove in uno scenario fantastico incredibilmente e splendidamente dettagliato: le varie culture aliene sono descritte con una maestria e una ricchezza di particolari tali da divenire immediatamente “vere” e familiari per chi legge. I personaggi interagiscono come una sorta di famiglia allargata, con membri gradevoli o problematici e, come per il testo precedente, hanno relazioni di ogni tipo (fra cui il legame amoroso che tiene insieme una donna umana e una femmina aliena che somiglia un po’ a una lucertola). Il lungo – e pericoloso – viaggio è quello che porterà la Wayfarer su un pianeta che ha di recente firmato un patto con il governo galattico. Una delle cose più interessanti del romanzo è il totale rifiuto dell’uso delle armi da parte di questa squadra spaziale, che risolve le crisi in modo nonviolento tramite la cooperazione e la diplomazia. Suvvia, devo poterlo leggere in italiano!

Maria G. Di Rienzo

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Adorabili compagne/i di viaggio cibernetico: la connessione è ripristinata (con il legittimo dubbio che il provider si ingarbugli di nuovo nei propri errori nel prossimo futuro, ma intanto va). Potrebbe essere l’unica buona (ehm…) notizia che ricevete oggi, per cui allegria! E visto che domani è il mio compleanno… no, non dovete darmi quello strano anello d’oro che avete ripescato dal fiume, tesssori… e intendo occuparmi egoisticamente solo di me stessa, vi scrivo una pappardella bella lunga oggi. Qualcuna/o stenterà a crederlo, ma c’è gente che si fida delle mie recensioni di sceneggiati, per cui ecco cos’ho visto di recente che posso consigliare anche a voi (con l’eccezione della stagione n. 4 di Orphan Black, la peggiore del mazzo: è riuscita a buttare nello scarico del wc tutto quanto di buono aveva fatto in precedenza).

Vera

Il primo premio del mio gradimento va senz’altro a “Vera”, una serie poliziesca britannica basata sui romanzi di Ann Cleeves. La protagonista Vera Stanhope – interpretata da Brenda Blethyn, nell’immagine sopra – capo ispettrice nel Northumberland, è uno dei personaggi più realistici (e di conseguenza per me più amabili e affascinanti) che io abbia mai visto in uno sceneggiato televisivo. Donna di mezz’età con una storia di abbandono familiare alle spalle, arruffata e scapigliata, irascibile, acuta e penetrante e calcolatrice, che si cura profondamente del proprio lavoro e dei propri colleghi. Puoi pensare di entrare in una centrale di polizia e trovarla là che maneggia incartamenti, fa ipotesi, programma sopralluoghi e interrogatori… e dopo averle esposto il tuo caso chiederle se le va di prendere un caffè con te: “Sure, pet” (“Certo, tesoruccio”) ti risponderà Vera con il suo caratteristico intercalare.

Inoltre, le trame di Ann Cleeves sono solide, hanno credibilità e ritmo e la giusta dose di anticipazione, per cui è un vero piacere scoprire pian piano la verità – che è sempre fatta di luci e ombre, come nella vita reale – assieme alla capo ispettrice. Da notare: nessuna battuta sull’aspetto di costei – e vorrei vedere uno che ci si prova…, nessun “consiglio” 3F (fitness – fashion – femininity : forma moda femminilità) le viene ammannito e il suo corpo è lei stessa e basta, non una bandiera da sventolare o un manichino da vendere.

Dal lavoro della medesima autrice è stata tratta un’altra serie poliziesca altamente consigliabile, Shetland”, ambientata nell’omonimo arcipelago scozzese. Oltre a condividere tutti i tratti positivi di “Vera” in termini di plot, anche qui il protagonista è piacevolmente inusuale rispetto agli standard americanizzati di produzioni simili. L’ispettore Jimmy Perez (interpretato da Douglas Henshall) è probabilmente l’unico uomo che vedrete in televisione condividere amore, cure e fatiche della crescita della figliastra con il precedente marito della madre di lei, deceduta, in una relazione d’amicizia che riesce a superare gelosie e asprezze. Di “Shetland” ho anche apprezzato molto il modo in cui ha trattato lo stupro sofferto dalla “mano destra” dell’ispettore, la sergente McIntosh. Di solito, quale espediente narrativo, lo stupro è usato in modo infame per titillare la morbosità degli spettatori, per punire un personaggio femminile “troppo” orgoglioso e sicuro di sé e rassicurare con ciò l’audience maschile o per motivare tale personaggio nelle sue decisioni e scelte (per la serie: una donna dev’essere stuprata per avere uno scopo). In “Shetland” non accade nulla di simile: noi sappiamo ciò che è accaduto ma non lo vediamo nei dettagli, ciò che vediamo invece, realisticamente, è la lotta dolorosa di una giovane donna per riprendere signoria e controllo sulla propria vita.

Nell’ambito dei gialli inglesi una rapida menzione onorevole va anche a “Happy Valley”. (Nella foto l’attrice Sarah Lancashire nei panni della protagonista, la sergente Catherine Cawood)

sarah lancashire - happy valley

La “Valle Felice” è quella del fiume Calder nel nord dell’Inghilterra e si tratta di un eufemismo realmente usato dalla polizia locale per alludere ai problemi di droga dell’area. Dietro la serie c’è la scrittrice e regista Sally Wainwright e forse per questo le donne in essa sono esseri umani a tutto tondo. Catherine Cawood, divorziata, vive con la sorella (ex alcolista ed eroinomane) e con il nipotino. Quest’ultimo è purtroppo il frutto di uno stupro da cui la figlia di Catherine non si riprese mai, giungendo a suicidarsi. Per entrambe le due stagioni della serie la sergente deve vedersela in un modo o l’altro con il violentatore della figlia, rimesso in libertà dopo 8 anni di carcere e deciso a “vendicarsi” di lei che ce l’ha mandato, mentre cerca di risolvere vari casi. Discorso uguale a “Vera” (e a “Shetland”) per le 3F: sono felicemente invisibili.

Il secondo premio del mio gradimento va a uno sceneggiato norvegese da poco terminato, “Okkupert” (“Occupati”). Nell’immagine qui sotto vedete la magnifica attrice Raghnild Gusbranden, che interpreta la capa dei servizi segreti norvegesi. (3F? Nei, takk – e cioè No, grazie in norvegese).

raghnild gusbranden - okkupert

Okkupert” descrive un prossimo futuro in cui la Russia, con l’approvazione e l’appoggio dell’Unione Europea, occupa la Norvegia affinché quest’ultima riprenda la produzione di petrolio, dismessa da quando il Partito Verde ha vinto le elezioni nel paese (dopo che un uragano di enormi proporzioni causato dal cambiamento climatico ha devastato la Norvegia). La crisi energetica europea è grave: il Medioriente, a causa dei continui tumulti, non le fornisce petrolio e nemmeno lo fanno gli Usa, che sono entrati in un regime di autosufficienza abbandonando la Nato. L’idea del governo norvegese è sostituire i combustibili fossili con l’energia nucleare derivata dal torio (è assai meno pericoloso dell’uranio, in effetti, ma – questa è l’unica pecca che trovo nella storia – mi suona stridente l’idea che diventi il vessillo di un partito ecologista). L’occupazione è sinistramente “morbida”, strisciante, ufficialmente paludata dal gergo e dalle consuetudini della politica (un teatrino di convenzioni e trattati e accordi senza effettiva rilevanza) e sempre più violenta mano a mano che il governo e la popolazione norvegese oppongono ad essa atti di resistenza. La trama è fitta e avvincente, ma non ve la racconto nei dettagli sia per non rovinarvi il piacere di vedere lo sceneggiato, sia perché dovrei scrivere sino a domani mattina… per quel che riguarda l’avvincente, vi basti sapere che al termine di ogni puntata mi spostavo dal salotto in qualsiasi altra stanza borbottando: “Dannazione, la Norvegia è ancora occupata!”

Noto di passaggio che fra le produzioni televisive nordiche potreste apprezzare anche la serie poliziesca islandese “Ófærð” (“In trappola”) in cui un incendio apparentemente casuale che provoca la morte di una ragazza si collega, sette anni più tardi, al torso di un cadavere mutilato ripescato dal mare. Qui sotto c’è lo straordinario Andri Olafsson, e cioè l’attore Ólafur Darri Ólafsson, capo della polizia locale: in tutto tre persone, il “locale” è la piccola città di Seyðisfjörður.

olafur darri olafsson

Ah: nessuna scherzosa battuta o saggio consiglio su come diventare una sardina ne’ per il detective, ne’ per qualsiasi altro personaggio maschio o femmina. Anche qui impera il rispetto per i corpi, la nozione che i corpi umani sono esseri umani, stupendamente vari.

Terza postazione per una serie fantastica spagnola, El Ministerio del Tiempo” (“Il Ministero del Tempo”). La premessa è che in Spagna sia custodito un segreto cruciale: un’istituzione governativa autonoma che risponde solo al Primo Ministro e che si occupa di raddrizzare gli incidenti causati dai viaggi nel tempo. Il Ministero del Tempo custodisce e controlla le porte che conducono dall’oggi a varie epoche del passato, assicurandosi che nessuno cambi la Storia a proprio beneficio. Per chiunque si interessi come me sia di Storia sia di narrazione fantastica questo sceneggiato è una doppia delizia. Si dipana principalmente seguendo le avventure di una delle squadre di intervento del Ministero, formata dal soldato Alonso de Entrerríos (originario del 1.600), dalla studente Amelia Folch (19° secolo, “capa” della pattuglia) e dal paramedico Julián Martínez reclutato nel tempo presente. I tre attori sono rispettivamente Nacho Fresneda, Aura Garrido e Rodolfo Sancho – che è brillato di recente anche nella serie gialla “Mar de plástico”.

ministerio

La struttura delle puntate è bilanciata in modo sapiente e sfaccettato, la tensione drammatica (ad esempio la tentazione di cambiare il passato per riavere la moglie morta da parte di Julián Martínez) ha sempre il suo contrappeso “leggero” (i comici tentativi dello spadaccino delle Fiandre Alonso de Entrerríos di trovare senso e posto nel 2016); le figure femminili sono variegate e trattate con la massima cura narrativa: hanno spessore e profondità che età, aspetto e sessualità non oscurano e noi spettatrici e spettatori possiamo finalmente trovare normale il rispetto dato alle loro capacità e competenze. Per cui… buona visione a voi e tanti auguri a me, ci risentiamo il 5 giugno! Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “Very inconvenient truths: sex buyers, sexual coercion, and prostitution-harm-denial”, un lungo, rigoroso e dettagliato saggio di Melissa Farley per Logos Journal, gennaio 2016, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Melissa Farley, psicologa clinica e ricercatrice è la direttrice esecutiva del Centro “Prostitution Research and Education” di San Francisco, Usa. L’anno scorso ha pubblicato la ricerca “Pornography, Prostitution, & Trafficking: Making the Connections”. Cioè, non è una che ha “parlato una volta con Sempronia che si prostituiva quattro decenni fa” o che cita il proprio cugino come fonte autorevole, è una che di prostituzione si occupa professionalmente e scientificamente da trent’anni e passa.)

Alcuni sfruttatori, alcuni compratori di sesso e alcuni governi hanno preso la decisione di ritenere ragionevole l’aspettarsi che determinate donne tollerino lo sfruttamento e l’assalto sessuale per sopravvivere. Queste donne più spesso che no sono povere e più spesso che no sono marginalizzate per motivi etnici o razziali. Gli uomini che le comprano hanno maggior potere sociale e maggiori risorse rispetto alle donne. Per esempio, un canadese turista della prostituzione ha detto delle donne thailandesi che si prostituiscono: “Queste ragazze devono pur mangiare, non è vero? Io sto mettendo il pane nel loro piatto. Sto dando un contributo. Morirebbero di fame se non facessero le puttane.”

Questo darwinismo autocelebratorio evita la questione: le donne hanno il diritto di vivere senza l’aggressione sessuale o lo sfruttamento sessuale della prostituzione, o questo diritto è riservato a coloro che godono di privilegi di sesso, razza o classe? “Ottieni quello per cui paghi senza il no. – ha spiegato un altro compratore di sesso – Le donne che non si prostituiscono hanno il diritto di dire no.” Noi abbiamo protezione legale dalle molestie sessuali e dallo sfruttamento sessuale. Ma tollerare abusi sessuali è la descrizione della prostituzione come lavoro.

Una delle bugie più grandi è che la maggior parte della prostituzione sia volontaria. Se non ci sono prove dell’uso della forza, l’esperienza della donna è archiviata come “volontaria” o “consensuale”. Un compratore di sesso ha detto: “Se non vedo una catena alla sua caviglia, presumo che lei abbia fatto la scelta di essere là.”

Il pagamento del puttaniere non cancella quel che sappiamo della violenza sessuale e dello stupro. Sia o no legale, la prostituzione è estremamente dannosa per le donne. Le prostitute hanno le più alte percentuali di stupro, aggressioni fisiche e omicidio di qualsiasi altro gruppo di donne mai studiato.

Secondo una ricerca olandese, il 60% delle donne che esercitano legalmente la prostituzione sono state fisicamente assalite, il 70% minacciate di aggressione fisica, il 40% ha fatto esperienza di violenza sessuale e un altro 40% è stato obbligato con la forza a prostituirsi legalmente.

Nell’ultimo decennio, dopo aver intervistato centinaia di compratori di sesso in cinque paesi (Usa, Gran Bretagna, India, Cambogia e Scozia), stiamo osservando più da vicino i comportamenti e le attitudini che alimentano la misoginia della prostituzione e abbiamo cominciato a capire alcune delle loro motivazioni. I comportamenti normativi dell’acquirente di sesso includono il rifiuto a vedere la propria partecipazione in attività dannose, come il disumanizzare una donna, l’umiliarla, l’aggredirla verbalmente e fisicamente e sessualmente, e il pagarla in danaro per farle compiere atti sessuali che altrimenti non compirebbe.

I compratori di sesso non riconoscono l’umanità delle donne che per il sesso usano. Una volta che una persona sia stata mutata in oggetto, lo sfruttamento e l’abuso sembrano pressoché ragionevoli. Nelle interviste tenute con i compratori di sesso in culture differenti, essi hanno fornito alcuni agghiaccianti esempi di mercificazione. La prostituzione era intesa come “affittare un organo per dieci minuti”. Un altro compratore di sesso statunitense ha affermato che “Stare con una prostituta è come bere una tazzina di caffè, quando hai finito la butti da parte”.

Avevo in mente una lista in termini di razza – ha detto un compratore di sesso inglese – Le ho provate tutte negli ultimi cinque anni, ma sono risultate essere tutte uguali.” In Cambogia, la prostituzione era intesa in questi termini: “Noi uomini siamo gli acquirenti, le prostitute sono le merci e il proprietario del bordello è il venditore.”

Una donna che si era prostituita a Vancouver per 19 anni ha spiegato la prostituzione negli stessi termini dei compratori di sesso: “Sono i tuoi proprietari per quella mezz’ora o quei venti minuti o quell’ora. Ti stanno comprando. Non hanno sentimenti nei tuoi confronti, tu non sei una persona, sei una cosa da usare.”

Usando la sua propria e speciale logica, il compratore di sesso calcola che in aggiunta all’acquistare accesso sessuale, il denaro gli compri il diritto di evitare di pensare all’impatto della prostituzione sulla donna che usa. La sua fantasia è la fidanzata senza-problemi che non gli fa richieste ma è disponibile a soddisfare i suoi bisogni sessuali. “E’ come affittare una fidanzata o una moglie. E puoi scegliere come da un catalogo.”, ha spiegato un compratore inglese di sesso. I compratori di sesso cercano l’apparenza di una relazione. Un certo numero di uomini hanno spiegato il loro desiderio di creare l’illusione, diretta ad altri uomini, di aver acquisito una donna attraente senza averla pagata. (…)

In Scozia, i ricercatori hanno scoperto che più spesso gli uomini comprano sesso, meno empatia provano per le donne che si prostituiscono: “Io non voglio sapere niente di lei. Non voglio che si metta a piangere o altre cose perché questo rovina l’idea, per me.” Gli uomini creano un’eccitante versione di ciò che la prostituta pensa e prova che ha scarse basi nella realtà. Andando contro tutta l’evidenza del buonsenso, la maggioranza dei puttanieri che abbiamo intervistato credeva che le prostitute fossero sessualmente soddisfatte dalle loro performance sessuali. La ricerca compiuta con le donne, d’altra parte, mostra che esse non sono eccitate dalla prostituzione e che, con il tempo, la prostituzione reca danni alla sessualità delle donne. (…)

L’opinione degli uomini favorevoli alla prostituzione è una dell’insieme di attitudini e pareri che incoraggiano e giustificano la violenza contro le donne.

Attitudini per chi si sente di avere il diritto all’accesso al sesso e all’aggressione sessuale e attitudini di superiorità rispetto alle donne sono connesse alle violenza maschile contro le donne. La ricerca mostra che i compratori di sesso tendono a preferire sesso impersonale, temono il rigetto delle donne, hanno un’ostile auto-identificazione mascolina e sono più inclini allo stupro dei non compratori, se possono farla franca. In Cile, Croazia, Messico e Ruanda, i compratori di sesso erano più inclini a stuprare degli altri uomini. Significativamente, gli uomini che avevano usato donne nella prostituzione avevano molte più probabilità di aver stuprato una donna rispetto agli uomini che non compravano sesso. In Scozia, abbiamo scoperto che più volte un puttaniere usa le donne nella prostituzione, più è probabile che abbia commesso atti sessuali coercitivi contro donne che non si prostituiscono. (…)

I compratori di sesso vedono, e allo stesso tempo rifiutano di vedere, la paura, il disgusto e la disperazione nelle donne che comprano. Se lei non corre fuori dalla stanza urlando “Aiuto, polizia!”, allora il compratore conclude che lei ha scelto la prostituzione. Sapere che le donne nella prostituzione sono state sfruttate, coartate, rispondono a un magnaccia o sono state trafficate non scoraggia i compratori di sesso. Metà di un gruppo di 103 compratori di sesso londinesi ha attestato di aver usato una prostituta di cui sapevano che era sotto il controllo di un magnaccia. Uno di loro ha spiegato: “E’ come se lui fosse il suo proprietario.” E un altro: “La ragazza viene istruita su quel che deve fare. Tu puoi rilassarti completamente, è il suo lavoro.” (…)

L’argomento che legalizzare la prostituzione la renderebbe “più sicura” è la razionalizzazione principale per legalizzare o decriminalizzare la prostituzione. Tuttavia, non ci sono prove per questo. Invece, ascoltiamo rivendicazioni egoistiche e asserzioni dalle forti parole ma senza dati empirici. Le conseguenze della prostituzione legale in Olanda e Germania hanno mostrato quanto male può andare: al 2016, l’80% della prostituzione olandese e tedesca è controllata da mafie criminali. Dopo la legalizzazione in Olanda, il crimine organizzato è andato fuori controllo e le donne nella prostituzione non sono state più al sicuro di quando la prostituzione era illegale. Dopo la legalizzazione nello stato di Victoria, Australia, i magnaccia hanno aperto 95 bordelli legali ma allo stesso tempo ne hanno aperti altri 400 di illegali. Invece di far diminuire i crimini violenti correlati, la legalizzazione della prostituzione è risultata come aumento del traffico di esseri umani (la ricerca ha interessato 150 paesi). Chiunque conosca la vita quotidiana di chi si prostituisce capisce che la sicurezza nella prostituzione è una chimera. I sostenitori della prostituzione legale lo capiscono, ma raramente lo ammettono.

Pure, prove alla mano, la “Sex Workers’ Education and Advocacy Taskforce in South Africa” ha distribuito una lista di suggerimenti per la sicurezza inclusa la raccomandazione, per la persona che si prostituisce, di calciare una scarpa sotto il letto mentre si spoglia e, nel recuperarla, di controllare se ci sono coltelli, manette o corda. Il volantino fa notare anche che sprimacciare il cuscino sul letto permetterebbe un’addizionale ricerca di armi. Un magnaccia olandese ha detto a un giornalista: “Non ci vogliono cuscini nella camere del bordello. Il cuscino è un’arma per l’assassinio.” Un’organizzazione di S. Francisco consiglia: “Fate attenzione alle uscite e impedite al vostro cliente di bloccare quelle uscite” e “Le scarpe dovrebbero togliersi e mettersi facilmente ed essere adatte alla corsa” e ancora “Evitate collane, sciarpe, borse la cui tracolla attraversa il collo e ogni altra cosa che possa accidentalmente o intenzionalmente essere stretta attorno alla vostra gola.”

Il gruppo “Australian Occupational and Safety Codes for prostitution” raccomanda un training per la negoziazione da parte di ostaggi, contraddicendo completamente la nozione di prostituzione come lavoro qualsiasi. Al pulsante d’allarme nei saloni per massaggi, nelle saune e nei bordelli non si può rispondere abbastanza velocemente per prevenire la violenza. I pulsanti d’allarme nei bordelli legali hanno tanto senso quanto ne avrebbero nelle case di donne che subiscono maltrattamenti. (…)

I compratori di sesso e i sostenitori del commercio di sesso possono riconoscere una frazione degli abusi e dello sfruttamento all’interno della prostituzione, ma li giustificano perché alle donne è permesso fare molti soldi. Una volta che siano pagate, sfruttamento abuso e stupro scompaiono. “Sono tutte sfruttate. – ha detto un puttaniere italiano – Tuttavia, hanno anche dei bei guadagni.” Un altro compratore di sesso ha descritto gli stupri subiti dalla donna da parte del suo magnaccia ma, ha aggiunto, “Succede una volta ogni tanto, non ogni settimana”. (…)

Magnaccia e trafficanti rappresentano la prostituzione falsamente come un lavoro facile, divertente e remunerativo per le donne. Alcuni assai noti sostenitori della prostituzione si presentano come “sex workers”, sebbene siano invece “manager” per donne nel commercio del sesso: certi sono magnaccia e certi sono stati arrestati per favoreggiamento della prostituzione, per aver aperto bordelli o trafficato esseri umani.

C’è un clamoroso conflitto di interessi quando individui che dirigono/posseggono/sfruttano stanno nella stessa organizzazione di chi è sotto il loro controllo. La falsa rappresentazione diventa ancora meno etica quando proprietari di bordelli e magnaccia nascondono le loro appartenenze, proclamando di rappresentare gli interessi delle prostitute. Nascondendosi dietro la bandiera del “sindacato”, i magnaccia si appellano alla simpatia della Sinistra. Tuttavia, gruppi come New Zealand Prostitutes Collective, the International Union of Sex Workers (GB), Red Thread (Olanda), Durbar Mahila Samanwaya Committee (India), Stella (Canada) e Sex Worker Organizing Project (USA) – mentre promuovono aggressivamente la prostituzione come lavoro non assomigliano affatto a sindacati dei lavoratori. Non offrono pensioni, sicurezza, riduzione d’orario, benefici per le disoccupate o servizi d’uscita dalla prostituzione (che il 90% delle prostitute affermano di volere). Invece, questi gruppi promuovono un libero mercato di esseri umani usati per il sesso.

Noi abbiamo individuato 12 persone (femmine e maschi) di 8 paesi diversi che si identificano pubblicamente come “sex workers” o sostenitori di chi lavora nel commercio di sesso, ma che hanno anche venduto altre persone o sono stati implicati nel commercio di sesso in vari modi specifici. Tutti costoro reclamano la decriminalizzazione dello sfruttamento della prostituzione. Molti sono stati arrestati per aver diretto bordelli e agenzie di escort, per aver trafficato persone, per aver promosso o favorito la prostituzione o per aver derivato i propri guadagni dalla prostituzione altrui, per esempio:

Norma Jean Almodovar, USA, International Sex Worker Foundation for Art, Culture, and Education, Call Off Your Old Tired Ethics (COYOTE): condannata per favoreggiamento della prostituzione.

Terri Jean Bedford, Canada, “sostenitrice delle sex workers” che descriveva se stessa pure come “sex worker”: condannata per aver diretto un bordello.

Claudia Brizuela, Argentina, Association of Women Prostitutes of Argentina, Latin American-Caribbean Female Sex Workers Network: arrestata con l’accusa di traffico di essere umani a scopo di sfruttamento sessuale. Entrambi i gruppi citati di cui fa parte erano finanziati da UNAIDS e facevano riferimento ad Amnesty International per avere sostegno.

Maxine Doogan, USA, Erotic Service Providers Union: arrestata per favoreggiamento della prostituzione e riciclaggio di denaro sporco. Ha ammesso il favoreggiamento ed è stata condannata.

Douglas Fox, Gran Bretagna, International Union of Sex Workers: arrestato per aver derivato i propri guadagni dallo sfruttamento della prostituzione, consigliere di Amnesty International, co-dirige un’agenzia di escort.

Eliana Gil, Messico, Global Network of Sex Work Projects, Latin American-Caribbean Female Sex Workers Network: condannata per traffico di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale. Era la magnaccia, assieme al figlio, di circa 200 donne a Città del Messico. L’associazione Latin American-Caribbean Female Sex Workers Network era affiliata al programma delle NU sull’Hiv/Aids, affiliata all’Organizzazione Mondiale per la Sanità e citata da Amnesty International.

Margo St. James, USA, COYOTE: arrestata per aver diretto un bordello. La sua dichiarazione è che sebbene le donne nelle stanze della sua casa si prostituissero, lei non lo faceva. (…)

L’esistenza della prostituzione ovunque è il tradimento della società nei confronti delle donne, in special modo di quelle che sono marginalizzate e vulnerabili a causa del gruppo etnico di cui fanno parte, della loro povertà, delle loro storie di abuso e abbandono.

La complicità dei governi sostiene la prostituzione. Quando il commercio di sesso si espande, le donne competono meno con gli uomini per i posti lavoro. Quando la prostituzione è incorporata nelle economie di stato, i governi sono sollevati dalla necessità di trovare impieghi per le donne. Nei paesi in cui la prostituzione è legale le tasse sul sangue sono raccolte dallo stato-magnaccia. Banche, linee aeree, internet providers, alberghi, agenzie di viaggio e tutti i media integrano lo sfruttamento e l’abuso delle donne coinvolte nella “prostituzione turistica”, ricavandone grandi profitti.

Se ascoltiamo le voci e le analisi delle sopravvissute che sono uscite dalla prostituzione – coloro che non sono più sotto controllo – ci dirigeranno verso le ovvie soluzioni legali. Gli uomini che comprano sesso devono essere ritenuti responsabili delle loro aggressioni predatorie. Chi si prostituisce non deve subire arresti e le/gli devono essere offerte alternative reali per la sopravvivenza. Coloro che profittano dalla prostituzione – magnaccia e trafficanti – devono pure essere ritenuti responsabili. Un approccio alla prostituzione basato sui diritti umani, che la riconosce come sfruttamento sessuale, come quello di Svezia, Norvegia, Islanda e Irlanda del Nord, fornirebbe sicurezza e speranza. Ma prima dobbiamo muoverci oltre le bugie dei magnaccia e dei profittatori. So che possiamo farlo.

Riassumendo:

1. La verità sulla prostituzione è spesso nascosta dietro le bugie, le manipolazioni e le distorsioni di chi profitta del commercio sessuale. Le verità più profonde sulla prostituzione vengono alla luce nelle testimonianze delle sopravvissute, così come nella ricerca sulle realtà psicosociali e psicobiologiche della prostituzione stessa.

2. Alle radici della prostituzione, come per tutti gli altri sistemi coercitivi, ci sono disumanizzazione, oggettivazione, sessismo, razzismo, misoginia, mancanza di empatia / senso patologico dell’aver diritto (magnaccia e clienti), dominio, sfruttamento e un livello di esposizione cronica alla violenza e alla degradazione che distrugge personalità e spirito.

3. La prostituzione non può essere resa sicura legalizzandola o decriminalizzandola. La prostituzione deve essere completamente abolita.

4. La prostituzione assomiglia più all’essere cronicamente assalite sessualmente, danneggiate e stuprate che a lavorare in un fast food. La maggioranza delle prostitute soffre di acuta sindrome da stress post traumatico e vuole uscirne.

5. I compratori di sesso sono predatori: spesso hanno comportamenti coercitivi, manca loro empatia e hanno attitudini sessiste che giustificano l’abuso delle donne.

6. Una soluzione esiste. Si chiama modello svedese ed è stata adottata in diversi paesi. L’essenza della soluzione è: criminalizzazione per clienti e magnaccia, decriminalizzazione per le donne e il provvedere loro risorse, alternative, alloggi sicuri, riabilitazione.

7. La prostituzione ha effetti su ognuno di noi, non solo su chi è coinvolto.

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hagaskoli

Maschilisti, sessisti, violenti, sguaiati e ignoranti: avete perso una grande battaglia. Dico sul serio. E ve lo comunico 24 ore prima del 25 novembre – Giorno Internazionale contro la violenza diretta alle donne. Avete perso perché le ragazzine nell’immagine hanno 14 e 15 anni. E domenica scorsa hanno vinto un concorso diretto agli/alle studenti della loro età, con una performance di teatro/danza femminista, interamente scritta e coreografata da loro. Il concorso cui le ragazze hanno partecipato come Hagaskóli, il nome della loro scuola di Reykjavik, è assai popolare in Islanda e si chiama “Skrekkur”.

Questo è parte di ciò che hanno detto sul palco senza che una sola parola tremasse.

Io avevo dieci anni quando per la prima volta sono stata chiamata “puttana”.

Non capivo perché, lo capisco ora.

Stavo fra i piedi, ero assertiva.

Avevo attraversato la linea, avevo tentato di liberarmi uscendo dalla mia scatola,

ma ero piccola, ero una bambina.

Care femminucce,

state attente,

non occupate lo spazio riservato ai maschietti:

chi ha un pene ha diritto a un metro quadrato extra.

Non fate richieste per voi stesse credendovi intelligenti, voi meritate di meno.

Vestiti come voglio io.

Stai nel tuo angolo.

Truccati di più, truccati di meno.

Disapprovati.

Datti una calmata, smetti di far così tanto rumore.

Hai le mestruazioni, per caso?

Attenta! Fai scappare i ragazzi,

stai parlando un po’ troppo.

Smettila, fa’ la brava,

non è che hai sempre ragione.

Sii gentile, non essere sgraziata.

Non mettermi a disagio,

non bestemmiare, porca troia!

Sii sensibile, lavora duro,

ripulisci il disordine che altri si lasciano dietro.

Perdi te stessa.

Dimentica di contare qualcosa,

scompari.

Sii carina, sii sexy,

ma non esagerare.

Lo sai cosa capita

quando mostri troppo.

Perciò, per l’amor del cielo, non mandargli fotografie

perché tu, i tuoi seni, il tuo corpo e tutto ciò che sei

è sporco e brutto e proibito

e non qualcosa da condividere con altri,

neppure con te stessa.

Caro patriarcato,

lo sai che quando mi dici di calmarmi

e di stare zitta

mi spingi in avanti,

a gridare con tutto il fiato che ho nei polmoni.

Non puoi fermarlo, sai che sta arrivando.

Tu non conosci questa sofferenza, non sei una donna.

Tu guardi su, sul palco, e non vedi nessun ragazzo.

E pensi: Dov’è l’eguaglianza, qui?

Noi vogliamo sapere: Dov’è l’eguaglianza ovunque?

Dove sono le donne, nel mondo, come delle persone intere?

Ci sono donne qui, su questo palco, proprio ora,

ma alcune persone devono sempre cercare gli uomini.

hagaskoli2

Capito bene? Una ragazza che ha scritto queste cose, che ha detto queste cose, che ha danzato queste cose non torna indietro, non può più farlo. E’ libera. Maria G. Di Rienzo

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(“Creating gender equity: Lessons from Iceland”, di Meghan Murphy, 2.4.2013, trad. Maria G. Di Rienzo. Meghan è una giornalista canadese, il suo sito è: http://feministcurrent.com/ )

femministe islandesi

Quando l’Islanda ha annunciato di aver preso in considerazione un bando sulla pornografia online, gli americani – per la maggior parte – hanno risposto come se trovassero la mossa (potenzialmente) regressiva. Ma stante il record attuale dell’Islanda nel rendere prioritaria l’eguaglianza, forse sono gli americani che dovrebbero prendere qualche suggerimento da questo paese progressista. Sin dal collasso economico del 2008, l’Islanda si è rovesciata sottosopra in più modi.

L’Islanda si è piazzata al primo posto nella lista del Global Gender Gap, salendo dalla posizione n. 4 che aveva nel 2008. Questo rapporto stila una lista dei paesi del mondo basandosi su fattori quali la partecipazione economica e le opportunità (perciò, guardando a cose come le paghe uguali e il numero di donne nella forza lavoro e in posizioni di potere), i risultati dell’istruzione (alfabetizzazione femminile e numero di donne iscritte ai livelli superiori dell’istruzione), la salute e la sopravvivenza (aspettativa di vita e tassi di mortalità), la presenza in politica (numero di donne che detengono uffici politici e numero di donne capi di stato). Gli Stati Uniti, d’altro canto, si sono classificati 22°, essendo scesi di qualche posizione dal 17° posto del 2011. Da un paese che parla veramente tanto di libertà, giustizia e democrazia ci si potrebbe attendere uno sforzo coordinato verso l’equità di genere. Forse, seguire l’esempio di un paese come l’Islanda potrebbe essere saggio.

La crisi economica islandese si è rivelata non così terribile come sembrava. Dopo una serie di proteste e dimostrazioni il governo conservatore è stato costretto a rassegnare le dimissioni ed un nuovo governo progressista, guidato dalla socialdemocratica Johanna Sigurdardottir (la prima premier al mondo apertamente omosessuale), è entrato in carica. A differenza degli Usa, l’Islanda ha maneggiato il crollo perseguendo legalmente coloro che ne erano responsabili, facendo rispondere le banche delle loro azioni, minimizzando o in alcuni casi annullando completamente i debiti delle famiglie, tagliando le spese del governo e alzando le tasse.

L’Islanda è anche arrivata alla radicale conclusione che un’economia e una cultura degli affari dominate dagli uomini erano parte di ciò che ha condotto al crollo. In risposta, hanno sviluppato una legislazione che assicura il 40% di donne nei consigli d’amministrazione ed hanno incorporato ciò che chiamano “valori femminili” nelle “principali sfere maschili dell’equità nel settore privato, del controllo della ricchezza e dei codici di condotta delle corporazioni.” Tramite tutto questo, il nuovo governo ha fatto una priorità del mantenimento dell’esteso sistema di welfare islandese, proteggendo la classe media e la classe lavoratrice invece dei ricchi.

Al di là delle lezioni finanziarie che gli Usa potrebbero imparare dalla ripresa dell’Islanda e da ciò che alcuni hanno chiamato “rivoluzione pacifica”, il paese è anche diventato un modello in termini di eguaglianza di genere. In Parlamento ha quasi raggiunto la parità, giacché le donne detengono il 41% del seggi, contro il 17% delle donne nel Parlamento americano. Il paese offre generosi congedi di maternità e paternità, nonché cura dei bambini fornita dallo stato.

L’Islanda sessualmente liberale non ha solo criminalizzato la compravendita di sesso nel 2009 ma, l’anno successivo, ha bandito i club degli spogliarelli: una mossa ridicolizzata e definita impossibilmente idealistica da molti nordamericani. Quando la legislazione entrò in vigore, molti di essi si preoccuparono del tentativo di limitare la “scelta” delle donne di oggettificare se stesse (una nozione post-femminista abbastanza ridicola). Altri ricaddero nel concetto straripetuto che i club sarebbero stati costretti ad “entrare in clandestinità” da dove avrebbero continuato a proliferare illegalmente. La stessa preoccupazione viene ripetuta ora, mentre il paese considera la possibilità di bandire la pornografia hardcore online, sebbene non vi siano elementi che giustificano queste paure.

Impresa femminista e progressista, la proposta del bando della pornografia hardcore online ha vasto sostegno in Islanda, così come il bando sui club degli spogliarelli e la criminalizzazione dei magnaccia. Questo è un paese che dà chiaramente valore alle donne.

Quando ho parlato della proposta con la professoressa Gail Dines, autrice ed attivista femminista, lei ha sottolineato il fatto che non si tratta di limitare i contenuti sessuali, la nudità o l’erotismo. Il Ministro degli Interni islandese Ogmundur Jonasson, che sta attualmente redigendo la legge, mira specificatamente a restringere la pornografia hardcore, quella violenta e crudele. Dines, che è consigliera di Jonasson su questa proposta di legge nel mentre essa si sviluppa, dice che significa osservare che azioni sono compiute sulle donne, cose come “soffocare una donna con un pene, che è cosa standard nella pornografia hardcore. Oppure sesso molto, molto violento, anale, orale e vaginale, dove spesso ci sono tre uomini per una donna, dove gli uomini sputano su di lei chiamandola “figa”, “puttana”, “bidone di spazzatura per sperma”, “cagna”: insomma, questo tipo di immagini.” Dines dice che non c’è bisogno di una “complicata, dotta, definizione accademica. Basta guardare le cose e dire: Questi atti costituiscono violenza contro le donne.” Ovvio, non è che le preoccupazioni sulla censura, o sul dare allo stato ancora più potere sulle nostre vite possano essere messe da parte. Ma il governo islandese ha il primato di mettere gli interessi delle persone al primo posto, come pure gli interessi particolari delle persone donne.

“Tutti dovremmo essere preoccupati della libertà di parola: in special modo in una società capitalista dove i capitalisti controllano la maggior parte dei media e l’accesso ai media.”, dice Dines. Ma sottolinea che c’è una differenza tra la parola delle corporazioni e la libera parola che viene dagli individui: “L’Islanda sta attaccando un discorso corporativo prodotto da un’industria globale.” (intendendo l’industria pornografia, multimiliardaria). L’industria pornografica, dice Dines, attualmente controlla la maggior parte del discorso sul sesso. Limitare tale controllo, argomenta, non restringe “la libertà di parola”. “La questione è: vogliamo dibattiti e discorsi più ampi, sul sesso, o vogliamo che i pornografi lo controllino?”

Il lavoro dell’Islanda per sconfiggere l’industria del sesso non è stato fatto su basi puritane o moralistiche, ma si basa semplicemente su questa convinzione: “non è accettabile che donne, o persone in generale, siano merci da vendere.” E sul serio, cosa c’è di terribile in ciò?

troll islandese

(Il troll islandese non c’entra molto, è vero: ma ho letto da qualche parte che si tratterebbe del “dio del mercoledì”. Forse, se lo prego sinceramente, mi trasferirà per magia in Islanda mercoledì prossimo…)

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(Visto che ogni tanto qualcuno me lo chiede… ecco il motivo per cui non avrò mai una pagina su Facebook.)

 

Hildur Lilliendahl Viggósdóttir, islandese, è una nota attivista per i diritti umani delle donne. Perciò, come a tutte le femministe del nostro pianeta, le viene propinata ogni giorno una dose variabile di odio e minacce. Di recente, aveva usato Facebook per comporre una pagina chiamata “Uomini che odiano le donne”, su cui ripostava articoli, commenti e immagini sessiste accessibili a chiunque sul web. I curatori di Facebook non hanno alzato un sopracciglio per la foto di una donna in mutande, portata in giro da un gruppo di uomini appesa a due pali e con una mela in bocca, postata sul loro favoloso social network. La didascalia, tra l’altro, spiegava: “Abbiamo scovato una femminista in città stamattina: catturata e messa alla griglia.” Ma quando Hildur ha ripreso questa ed altre espressioni di violenza e sessismo e le ha messe tutte insieme, le “segnalazioni” contro la sua pagina sono fioccate. Agli idioti non piace guardarsi allo specchio e scoprire che sì, sono proprio idioti.

Il mese scorso, uno di essi ha postato un commento sul sito web di un quotidiano islandese e lo ha poi ripostato sulla propria pagina Facebook. Il commento diceva: Se “accidentalmente” dovessi investire Hildur con l’automobile, probabilmente sarebbe l’unica persona sulla Terra su cui farei anche marcia indietro e poi le lascerei l’auto addosso con il freno a mano tirato. Metti questo nella tua raccolta “Uomini che odiano Hildur”, Hildur Lilliendahl.” Ed è esattamente quel che lei ha fatto.

Risultato? Facebook ha bandito Hildur per 30 giorni (è la quarta volta che la pagina in questione viene chiusa, e Hildur l’ha spostata su Tumblr). La ragione addotta da un portavoce di Facebook è che loro sono “contro il bullismo” e che il ripostare segmenti di un’altra pagina “è uno dei modi in cui i bulli violano la privacy altrui.” Lo stesso giorno in cui punivano la “bulla” Hildur (31enne, madre di due figli, funzionaria pubblica al municipio di Reykjavík, collaboratrice di diverse testate giornalistiche online) costei riceveva una telefonata anonima, a cui rispose il marito: “Se non dici a quella cagna puttana con cui vivi di smetterla vengo di persona a sfasciarti la macchina.” Ma in precedenza era stata deliziata da cortesie via mail, del tipo: “Voglio vederti morta. Voglio vederti bruciare viva.”

Hildur resta impassibile, al proposito: “La questione non è se mi disturbano o no. La questione è che nessuno dovrebbe maneggiare roba del genere. La gente non si rende conto del responso che una femminista ha quando solo si permette di parlare. Volevo far luce su quanto basso e vigliacco tale responso è. Comunque, quando le minacce e gli insulti mi fanno sentire a disagio o in pericolo non ho nessun problema a contattare la polizia e a fare denuncia. La pagina Uomini che odiano le donne”, aggiunge, “non ha niente di “radicale”: sto ripostando su internet cose che sono già su internet. Non le sto prendendo da nessuno spazio privato. Non saprei dire se Facebook sia volontariamente sessista. Credo però che non analizzi le segnalazioni in modo appropriato, che non faccia alcuna ricerca su di esse. Quando ho segnalato io una pagina con foto pornografiche ho ottenuto una replica automatica in cui mi dicevano di non aver trovato in essa nulla che non andava. Il loro standard sembra essere: se non ci sono seni nudi o genitali esposti, tutto il resto va bene.”

E infatti, che si provi una mamma a mettere sulla propria pagina Facebook un’immagine di lei stessa che allatta il marmocchietto di casa. A volte non occorre nemmeno che sia visibile un lembo di seno perché gli etici amministratori dell’intelligentissimo social network la cancellino a tutta velocità. Appendere una donna seminuda a dei pali è ironico, suvvia. Vedere un infante che succhia latte è sommamente volgare. Ecco perché posso ampiamente fare a meno di questa roba. E credo che Hildur finirà per pensarla come me: “All’inizio trovavo frustrante l’essere stata bloccata. Poi mi sono resa conto che ciò mi permetteva di concentrarmi su altre cose. Sono passate due settimane dal bando e mi sento fantasticamente bene.” Maria G. Di Rienzo

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(di Zoë Robert per Iceland Review Online, 18.9.2011, trad. M.G. Di Rienzo)

Il libro, di Sigríður Vídis Jónsdóttir, si chiama “Nazionalità: nessuna. La fuga dall’Iraq ad Akranes” (“Ríkisfang: Ekkert – Flóttin frá Írak á Akranes”). Racconta la storia di otto donne palestinesi e dei loro figli che sono fuggite dall’Iraq e sono finite a vivere qui in Islanda, ad Akranes, un piccolo villaggio di pescatori nella parte occidentale del paese.

Al simposio di presentazione del libro all’Università d’Islanda, viene letta la parte in cui Lina Mazar, una delle otto donne, descrive la vita nel campo profughi di Al Waleed. Parla del caldo torrido, della mancanza di igiene, delle durezze che lei ed i suoi bimbi hanno affrontato.

Queste donne si sono lasciate alle spalle Baghdad e tutto ciò che sapevano per trovarsi in uno spazio decisamente non familiare: un accampamento nel deserto. Più tardi avrebbero fatto lo stesso per arrivare in Islanda. “Non parlavo islandese ne’ inglese, e in Islanda la gente non parla arabo.”, dice Mazar delle prime difficoltà nel nuovo paese. Ma tre anni più tardi, Mazar parla un ottimo islandese.

Jónsdóttir, giornalista che per prima incontrò le donne ad Al Waleed e che ha seguito la loro storia sin da allora, continua a leggere estratti dal libro: come le donne sono finite al campo, le domande che hanno fatto sul paese che in seguito avrebbero chiamato “casa”. Mazar, lottando per trattenere le lacrime, lascia momentaneamente la stanza e come dò uno sguardo ad un pubblico decisamente numeroso (c’è gente seduta per terra ed altra che occhieggia dalla porta) vedo che questa folla sta pure piangendo.

Il viaggio di queste donne da Baghdad al campo profughi, e poi fino ad una piccola città del Nord Atlantico, è qualcosa di totalmente diverso da ciò che la maggioranza della gente in Islanda può arrivare ad immaginare e tocca le emozioni più nude.

Quando le chiedono perché ha scelto di raccontare la propria storia, Mazar risponde che vuole contribuire ad accrescere la comprensione della situazione che i palestinesi vivono in Iraq, e le ragioni per cui ha dovuto andarsene. Come palestinesi nate in Iraq, le donne non hanno ne’ nazionalità ne’ cittadinanza – da cui il titolo del libro.

Questo tuttavia potrebbe cambiare presto, perché le donne saranno in grado di chiedere la cittadinanza islandese fra due anni. Nel frattempo, dicono di essere felici delle loro nuove vite in Islanda.

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