(“When you’re forced to marry your rapist”, di Zainab Salbi per Women in the World, 29 luglio 2015, trad. Maria G. Di Rienzo. Zainab Salbi è un’autrice e un’attivista per i diritti delle donne che ha fondato Women for Women International – un’ong che si dedica al sostegno delle sopravvissute alle guerre. Il documentario di Hind Bensari cui si parla nell’articolo, “475: rompere il silenzio”, è stato determinante per l’emendamento – nel gennaio 2014 – dell’Art. 475 del Codice penale marocchino, che permetteva agli stupratori di evitare il processo purché sposassero le loro vittime.)
Credeteci o no, una vittima che sposa il proprio stupratore non è accadimento inusuale in Medioriente e Africa del nord. La pratica esiste non a causa dell’ignoranza della violazione che la donna ha subito, ma come tentativo di salvare il suo onore sposandola ad un uomo disposto ad accettare una non-vergine – anche se si tratta dello stesso uomo che ha commesso il crimine.
L’onore di una donna è definito, in parti della regione, dalla sua castità. Se perde la verginità, sia pure per uno stupro, perde il suo valore come materiale da matrimonio. Perciò l’unica via per “coprire il suo onore”, come si dice in arabo, è farla sposare al suo stupratore. Il matrimonio è l’unico prezzo che lui deve pagare per aver violato una donna e i sentimenti di lei riguardo all’unione sono irrilevanti.
La pratica è abbastanza prevalente in Medioriente e Africa del nord da essere menzionata nei film e nelle conversazioni casuali. Io ricordo di averne udito parlare non una, ma molteplici volte, mentre crescevo in Iraq. Mio zio raccontò una volta di come aveva aiutato la tal “povera donna” trovando il suo stupratore e convincendolo a sposarla. Mio zio era molto fiero dell’aver aiutato una donna a “coprire il proprio onore”. Questa logica non aveva senso, per me, ma non ricordo di aver protestato per le sue azioni.
Lo stesso non si può dire di Hind Bensari, una giovane donna marocchina che dopo aver sentito parlare dei matrimoni di vittime e stupratori invece di restare zitta ha agito contro l’ingiustizia. Hind lavorava nella finanza quando seppe del caso della 16enne Amina, che si suicidò per essere stata costretta a sposare il suo violentatore. La storia catturò l’attenzione dei media, in Marocco, ma nessuno ancora ne affrontò i sostegni culturali. Perciò Hind decise di fare qualcosa al proposito. Lasciò il suo impiego e sulla questione realizzò il documentario “475: rompere il silenzio”.
Il suo viaggio cominciò con l’aver compreso che anche se la vittima di stupro aveva avuto il coraggio di andare alla polizia e di chiedere un processo, la polizia e i giudici stessi tentarono di convincerla a sposare il suo stupratore per “coprire il suo onore”: allo stesso modo di mio zio, credevano di star aiutando la vittima. Hind Bensari scoprì che spesso l’Art. 475, diretto ad assolvere gli uomini che sposassero le giovani donne con cui avevano avuto relazioni sessuali fuori dal matrimonio, era usato per giustificare la pratica.
Hind sa che i matrimoni con gli stupratori nascono da una cultura di svergognamento e onore, ma nota anche che alla fine la cultura araba è anche radicata nei valori familiari: “Di sicuro questi comportamenti non creano famiglie felici o soluzioni giuste nel maneggiare lo stupro. – ha spiegato, quando l’ho incontrata in Marocco due mesi fa – Come dato di fatto, la pratica crea famiglie danneggiate, non sane. E quando tu parli alle persone da questa prospettiva non si sentono minacciate o insultate, rispondono e ci pensano su e arrivano alla conclusione che non vogliono ciò continui.”
Per convincere le vittime a testimoniare, ha speso mesi nel costruire fiducia con le donne e le loro famiglie, sino ad ottenere le interviste su cosa era loro successo. “Avevo più bisogno di capire che di giudicare. Avevo bisogno di andare a sentire pensieri diversi e prospettive diverse dalle mie. C’è molta gente in Marocco e non possiamo presumere che tutti la pensino alla stessa maniera.”, dice Hind Bensari. Ma fare il film non è stato facile. C’è stata resistenza da persone che le hanno detto che nessuno avrebbe consentito a parlare dell’argomento, che una donna stuprata non avrebbe mai voluto parlare in pubblico, che la cultura è un destino fatale e non può cambiare. Molti altri tentativi di dissuaderla sono stati fatti. La risposta di Hind è stata coerente: “Noi possiamo cambiare il destino del nostro paese e se non lo facciamo dovremo pagare le conseguenze della nostra inazione.”
Alla fine la gente ha cominciato a parlare. Alcune donne le hanno rilasciato interviste, condividendo i dettagli delle loro storie. Con i suoi magri risparmi, Hind Bensari ha realizzato un documentario di un’ora e ne ha messi 15 minuti sui social media. Entro pochi giorni migliaia di spettatori incendiarono il dibattito pubblico. Hind aveva avuto il fegato di portare un’istanza scomoda fuori dalle ombre – con un budget ristretto e senza sostegno organizzativo o esperienza nel girare un film – e aveva scoperto che molti altri avevano condiviso in silenzio le sue preoccupazioni. Dopo pochi mesi, portò il documentario al Parlamento marocchino per dare inizio alla discussione e convinse le autorità statali a proiettarlo in televisione.
La trasmissione televisiva presentò a Hind un altro ostacolo: “Una delle partecipanti principali al documentario mi chiamò due giorni prima della messa in onda e mi disse che si sarebbe suicidata se la mostravo nel film. Non faceva differenza che io avessi la documentazione con cui lei mi autorizzava o che la sua parte fosse già visibile nel segmento presente sui social media. La storia era differente se le cose finivano in tv. Rendeva il tutto più “pubblico” e il coraggio che lei aveva avuto nel parlare svanì davanti all’idea di affrontare il pubblico.” Hind tagliò il film, il film fu trasmesso e creò un dibattito nazionale che portò infine al ripudio della legge.
“Le leggi sono create dalle persone e possono essere cambiate dalle persone.”, dice Hind Bensari descrivendo la massa di e-mail che riceve da donne che avevano accettato il loro supposto “destino” ed ora vedono riconosciuti il loro dolore e il prezzo ingiusto che hanno dovuto pagare.
Il mondo arabo fronteggia sfide oscure, in questi giorni. Ma persone come Hind restaurano la fede nel futuro. Quando l’ho incontrata, ho visto una luce brillante in una giovane donna non intenzionata ad accettare l’ingiustizia, non in nome della cultura o per qualsiasi altra ragione.
(Malika Slimani, una delle donne intervistate nel documentario.)