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(“When you’re forced to marry your rapist”, di Zainab Salbi per Women in the World, 29 luglio 2015, trad. Maria G. Di Rienzo. Zainab Salbi è un’autrice e un’attivista per i diritti delle donne che ha fondato Women for Women International – un’ong che si dedica al sostegno delle sopravvissute alle guerre. Il documentario di Hind Bensari cui si parla nell’articolo, “475: rompere il silenzio”, è stato determinante per l’emendamento – nel gennaio 2014 – dell’Art. 475 del Codice penale marocchino, che permetteva agli stupratori di evitare il processo purché sposassero le loro vittime.)

Hind Bensari sul set(Hind Bensari)

Credeteci o no, una vittima che sposa il proprio stupratore non è accadimento inusuale in Medioriente e Africa del nord. La pratica esiste non a causa dell’ignoranza della violazione che la donna ha subito, ma come tentativo di salvare il suo onore sposandola ad un uomo disposto ad accettare una non-vergine – anche se si tratta dello stesso uomo che ha commesso il crimine.

L’onore di una donna è definito, in parti della regione, dalla sua castità. Se perde la verginità, sia pure per uno stupro, perde il suo valore come materiale da matrimonio. Perciò l’unica via per “coprire il suo onore”, come si dice in arabo, è farla sposare al suo stupratore. Il matrimonio è l’unico prezzo che lui deve pagare per aver violato una donna e i sentimenti di lei riguardo all’unione sono irrilevanti.

La pratica è abbastanza prevalente in Medioriente e Africa del nord da essere menzionata nei film e nelle conversazioni casuali. Io ricordo di averne udito parlare non una, ma molteplici volte, mentre crescevo in Iraq. Mio zio raccontò una volta di come aveva aiutato la tal “povera donna” trovando il suo stupratore e convincendolo a sposarla. Mio zio era molto fiero dell’aver aiutato una donna a “coprire il proprio onore”. Questa logica non aveva senso, per me, ma non ricordo di aver protestato per le sue azioni.

Lo stesso non si può dire di Hind Bensari, una giovane donna marocchina che dopo aver sentito parlare dei matrimoni di vittime e stupratori invece di restare zitta ha agito contro l’ingiustizia. Hind lavorava nella finanza quando seppe del caso della 16enne Amina, che si suicidò per essere stata costretta a sposare il suo violentatore. La storia catturò l’attenzione dei media, in Marocco, ma nessuno ancora ne affrontò i sostegni culturali. Perciò Hind decise di fare qualcosa al proposito. Lasciò il suo impiego e sulla questione realizzò il documentario “475: rompere il silenzio”.

Il suo viaggio cominciò con l’aver compreso che anche se la vittima di stupro aveva avuto il coraggio di andare alla polizia e di chiedere un processo, la polizia e i giudici stessi tentarono di convincerla a sposare il suo stupratore per “coprire il suo onore”: allo stesso modo di mio zio, credevano di star aiutando la vittima. Hind Bensari scoprì che spesso l’Art. 475, diretto ad assolvere gli uomini che sposassero le giovani donne con cui avevano avuto relazioni sessuali fuori dal matrimonio, era usato per giustificare la pratica.

Hind sa che i matrimoni con gli stupratori nascono da una cultura di svergognamento e onore, ma nota anche che alla fine la cultura araba è anche radicata nei valori familiari: “Di sicuro questi comportamenti non creano famiglie felici o soluzioni giuste nel maneggiare lo stupro. – ha spiegato, quando l’ho incontrata in Marocco due mesi fa – Come dato di fatto, la pratica crea famiglie danneggiate, non sane. E quando tu parli alle persone da questa prospettiva non si sentono minacciate o insultate, rispondono e ci pensano su e arrivano alla conclusione che non vogliono ciò continui.”

Per convincere le vittime a testimoniare, ha speso mesi nel costruire fiducia con le donne e le loro famiglie, sino ad ottenere le interviste su cosa era loro successo. “Avevo più bisogno di capire che di giudicare. Avevo bisogno di andare a sentire pensieri diversi e prospettive diverse dalle mie. C’è molta gente in Marocco e non possiamo presumere che tutti la pensino alla stessa maniera.”, dice Hind Bensari. Ma fare il film non è stato facile. C’è stata resistenza da persone che le hanno detto che nessuno avrebbe consentito a parlare dell’argomento, che una donna stuprata non avrebbe mai voluto parlare in pubblico, che la cultura è un destino fatale e non può cambiare. Molti altri tentativi di dissuaderla sono stati fatti. La risposta di Hind è stata coerente: “Noi possiamo cambiare il destino del nostro paese e se non lo facciamo dovremo pagare le conseguenze della nostra inazione.”

Alla fine la gente ha cominciato a parlare. Alcune donne le hanno rilasciato interviste, condividendo i dettagli delle loro storie. Con i suoi magri risparmi, Hind Bensari ha realizzato un documentario di un’ora e ne ha messi 15 minuti sui social media. Entro pochi giorni migliaia di spettatori incendiarono il dibattito pubblico. Hind aveva avuto il fegato di portare un’istanza scomoda fuori dalle ombre – con un budget ristretto e senza sostegno organizzativo o esperienza nel girare un film – e aveva scoperto che molti altri avevano condiviso in silenzio le sue preoccupazioni. Dopo pochi mesi, portò il documentario al Parlamento marocchino per dare inizio alla discussione e convinse le autorità statali a proiettarlo in televisione.

La trasmissione televisiva presentò a Hind un altro ostacolo: “Una delle partecipanti principali al documentario mi chiamò due giorni prima della messa in onda e mi disse che si sarebbe suicidata se la mostravo nel film. Non faceva differenza che io avessi la documentazione con cui lei mi autorizzava o che la sua parte fosse già visibile nel segmento presente sui social media. La storia era differente se le cose finivano in tv. Rendeva il tutto più “pubblico” e il coraggio che lei aveva avuto nel parlare svanì davanti all’idea di affrontare il pubblico.” Hind tagliò il film, il film fu trasmesso e creò un dibattito nazionale che portò infine al ripudio della legge.

“Le leggi sono create dalle persone e possono essere cambiate dalle persone.”, dice Hind Bensari descrivendo la massa di e-mail che riceve da donne che avevano accettato il loro supposto “destino” ed ora vedono riconosciuti il loro dolore e il prezzo ingiusto che hanno dovuto pagare.

Il mondo arabo fronteggia sfide oscure, in questi giorni. Ma persone come Hind restaurano la fede nel futuro. Quando l’ho incontrata, ho visto una luce brillante in una giovane donna non intenzionata ad accettare l’ingiustizia, non in nome della cultura o per qualsiasi altra ragione.

malika

(Malika Slimani, una delle donne intervistate nel documentario.)

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(“I fight for a unified Iraq”, di Karin Råghall per Kvinna till Kvinna, 16 aprile 2015, trad. Maria G. Di Rienzo. L’immagine di Shameran M. Odisho è pure di Karin Råghall.)

shameran

Shameran M. Odisho ha 65 anni ed è l’attuale presidente della Lega delle Donne Irachene (LDI),

http://www.iraqiwomensleague.com/

un’organizzazione per i diritti delle donne che fu fondata nel 1952 ed ha membri in 15 delle 18 province irachene. Shameran stessa si iscrisse nel 1975. Era già stata politicamente attiva per un decennio, nel movimento studentesco e nel Partito Comunista Iracheno.

“Mentre crescevo era il Partito Baath a dominare. Loro si rivolgevano agli Arabi, mentre il Partito Comunista dava il benvenuto a chiunque senza badare all’etnia. Poiché facevo parte della minoranza cristiana, entrai nel Partito Comunista.”, dice Shameran.

In ragione della sua appartenenza al Partito Comunista, fu rimossa dalla sua posizione di presentatrice in un canale televisivo controllato dallo stato e assegnata ad una posizione amministrativa. Cominciò anche a ricevere minacce da parte del Partito Baath. Una minaccia di morte fu la goccia che fece traboccare il vaso: decise di licenziarsi e riuscì ad ottenere il permesso di lasciare il paese per studiare un anno a Mosca.

Quando Shameran tornò in Iraq nel 1979, la persecuzione dei membri del Partito Comunista era aumentata. Un giorno, una delle sue amiche le chiese un incontro che si rivelò una trappola: l’amica era stata torturata sino a che aveva fornito informazioni, fra gli altri, anche su Shameran che fu portata via dalla polizia.

“Il 16 giugno 1980 fui arrestata perché ero una comunista.”, attesta Shameran. Rimase in carcere per 32 giorni, 21 dei quali in isolamento. Per tutto il tempo fu soggetta a torture.

“Fecero a pezzi i miei vestiti, mi legarono le gambe, mi picchiarono dappertutto, si assicurarono di rompermi il naso e di danneggiare le mie orecchie e i miei denti. Non potevo dormire la notte, perché arrivavano e ricominciavano a torturarmi. Tentarono di costringermi a dare informazioni sui miei amici, ma io non diedi loro nulla.”

Dopo 21 giorni di isolamento, Shameran fu trasferita in una cella dove erano prigioniere circa altre 30 donne, per la maggior parte appartenenti al Partito Comunista. Shameran non riusciva a camminare, a causa delle torture che aveva patito. Per andare al bagno, dove strisciare sulle ginocchia. La sua gonna che scivolava sul pavimento era un monito per le altre donne, che ricordava loro la brutalità della tortura.

“Ho sofferto parecchio. A volte non voglio ricordare tutto quello che ho passato.”, dice Shameran. All’incirca nello stesso periodo, Saddam Hussein andò al potere. Nel tentativo di far mostra di un nuovo Iraq, rilasciò un gran numero di prigionieri politici, inclusa Shameran.

“Ma subito dopo averci lasciati andare, ci dissero che ci avrebbero arrestati di nuovo. Si erano sentiti costretti a lasciarci andare temporaneamente perché la comunità internazionale aveva gli occhi sull’Iraq.”

Shameran andò diritta a casa dalla prigione, ma ci restò solo poche ore. Il tempo di lavare e tagliare i capelli sporchi e di nascondere al meglio le ferite che ricoprivano il suo corpo. Per via della minaccia di essere arrestata di nuovo, Shameran non osò restare a casa propria. Si muoveva da posto a posto, abitava con amici e conoscenti, a volte per 3/4 giorni, a volte per una settimana, al massimo per un mese.

“Ho vissuto così per due anni. Poi, un’amica mi aiutò ad avere un impiego come domestica per una ricca famiglia cristiana.”, racconta Shameran. La sua amica la presentò con il nome “Samira”. Per i seguenti 6 anni, Shameran visse a servizio di quelle persone e mise da parte il suo impegno politico. Un giorno la famiglia ricevette l’avviso che avrebbe dovuto mostrare alle guardie di Saddam Hussein i documenti identitari di ogni membro. Shameran non ebbe alternativa e disse alla padrona la verità sulla sua situazione.

La donna cominciò a piangere. La coppia benestante chiese cosa poteva fare per lei. “Risposi che ero brava a cucire abiti per donne e che sarebbe stato meraviglioso se mi avessero aiutata ad aprire un negozio.”

Di nuovo, tutto cambiò. Il negozio divenne ben conosciuto e, per una volta, l’esistenza di Shameran scorreva pacificamente. Ma qualcosa dentro di lei premeva: nel 1998, si iscrisse all’università. “Avevo 48 anni, – ricorda – e cominciai a costruire un’altra vita.”

Ci incontriamo all’inizio del 2015 e Shameran ha studiato di tutto, da economia a scienze politiche, dalle lingue ai media. Nel 2003, lo stesso anno in cui gli Usa invasero l’Iraq, lei tornò al Ministero della Cultura che l’aveva cacciata a calci negli anni ’70 e disse che voleva lavorare di nuovo per loro. E loro la assunsero. Oggi, Shameran riveste due importanti posizioni nel Ministero della Cultura. In più, è la presidente della Lega delle Donne Irachene e di recente è stata candidata con una propria lista per le elezioni del 2014. E’ pienamente di ritorno in politica.

In che modo quel che hai attraversato ti ha segnata?

Shameran M. Odisho: Ho dovuto lasciar perdere gli scopi personali nella mia vita. Avrei voluto una famiglia e dei figli, ma non era possibile. Ci sono stati periodi in cui ho quasi dimenticato me stessa, non c’era spazio per pensarci. Oggi, questo mi rattrista. Ho lottato per i diritti umani e un futuro di pace, ma sembra che l’Iraq stia andando all’indietro anziché in avanti. Tutti i miei parenti hanno lasciato l’Iraq, resto solo io.”

Le chiedo se ha mai pensato di lasciare lei stessa l’Iraq e la risposta è veloce e decisa: “No! Non posso lasciare l’Iraq – il mio paese.” Parliamo del presente. Chiedo com’è di questi tempi essere la presidente della LDI, un’organizzazione diffusa in tutto il paese, mentre le tensioni fra differenti gruppi etnici e fra gruppi religiosi sembra crescere di giorno in giorno. Attualmente, la Lega delle Donne Irachene ha membri che vivono separati dal mondo esterno perché le loro comunità sono sotto il controllo dello Stato Islamico (IS).

“In questo momento, – spiega Shameran, non tocchiamo i soggetti più “sensibili” e cerchiamo di tenere insieme le donne sui problemi di base che ognuna di noi incontra, come la violenza contro le donne e l’analfabetismo.”

Quali sono i tuoi pensieri sul futuro?

Shameran M. Odisho: Io lotto per un Iraq unito e sicuro. Penso che sarebbe possibile, se solo il resto del mondo ci permettesse di diventare un paese stabile. Dopo tutto quel che è accaduto io ancora penso a me stessa semplicemente come “irachena” e così penso dei miei vicini di casa. E penso anche che sia nostro dovere sostenerci gli uni con gli altri.

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(“Are Women Really Peaceful?”, di Sanam Naraghi Anderlini, 2014, trad. Maria G. Di Rienzo. Sanam Naraghi Anderlini è la co-fondatrice di International Civil Society Action Network (ICAN) – http://www.icanpeacework.org -, una rete internazionale della società civile. Esperta di genere e conflitto, Sanam fu una dei membri della società civile che parteciparono alla stesura della Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite su donne, pace e sicurezza.)

sanam

Sono davvero pacifiche, le donne?

Questa è la domanda che inevitabilmente sorge durante ogni discussione sull’inclusione o il contributo femminile alla costruzione di pace.

Per alcune donne occidentali l’assunto che le donne siano orientate alla pace implica l’essere troppo “soffici”. E’ spiacevole, perché il dialogo, la diplomazia e il compromesso sono faccende molto più dure e complesse dell’affidarsi alle opzioni militari.

Le persone mettono in discussione l’essere orientate alla pace delle donne puntando il dito su leader come Margaret Thatcher, Golda Meir ed altre che hanno guidato i loro paesi in guerra. Indicano le donne che si uniscono a ISIS o i membri femmine nei movimenti di ribelli armati, come Farc in Colombia o i maoisti in Nepal, per provare che le donne non sono pacifiche.

Questi esempi raccontano solo una piccola parte della storia. Metà dell’umanità non può essere omogenea nelle sue azioni. Anche il contesto va preso in considerazione.

Ci sono tre modi di rispondere alla domanda. Il primo potrebbe essere: no, le donne non sono pacifiche. Come individui, le donne possono essere violente o sostenere la violenza. Molte si uniscono ad eserciti, gruppi armati o altri movimenti che predicano e perpetrano violenza.

Per alcune donne il servizio militare è la strada verso l’eguaglianza, l’empowerment e fuori dall’oppressione. Numerose donne nepalesi nel movimento maoista si sono unite alla lotta per i principi di eguaglianza e giustizia sociale asseriti dal movimento. Si uniscono dopo aver testimoniato l’uccisione dei propri padri, mariti o fratelli da parte dell’esercito. Alcune fuggono dalla violenza nelle loro case o per vendicare il proprio stupro. Alcune sono forzate.

Ci sono situazioni in cui donne spingono i loro parenti maschi alla vendetta o a cercare retribuzione per la violenza da loro subita, ma globalmente le donne sono ancora una minoranza nei gruppi armati o negli eserciti.

Il secondo modo di rispondere alla domanda è: sì, se le azioni collettive delle donne, come movimenti organizzati per lottare per i propri diritti di base e l’autodeterminazione, sono prese in considerazione. Attraverso la Storia e il mondo, l’organizzarsi collettivo delle donne ha le sue radici nella nonviolenza e usa la resistenza civile e altre tattiche simili per arrivare ai suoi scopi.

Il movimento delle donne afgane è uno di questi casi. Nonostante trent’anni di guerra e di oppressione diretta, nonostante minacce di morte e aggressioni, le donne afgane continuano la loro lotta per i diritti e la pace in modo nonviolento.

Vi è inerente ironia e contraddizione, in questo. Martin Luther King e il Mahatma Gandhi sono onorati per la loro aderenza alla nonviolenza. Ma la maggior parte delle leader e delle attiviste nei movimenti per i diritti delle donne sono tipicamente ne’ celebrate ne’ onorate, mentre quelle che hanno usato violenza sono spesso ricordate nelle narrazioni storiche.

La risposta finale è considerare come le donne, collettivamente e individualmente, contribuiscono a metter fine alla violenza e alla costruzione di pace, durante le guerre e nei contesti interessati da conflitti.

Sovente, le esperienze personali hanno spinto le donne come singoli individui a sollevarsi come attiviste per la pace. In Sri Lanka, Visaka Dharmadasa ha incanalato il dolore seguito alla sparizione del figlio (che era nell’esercito) verso il cercare il leader dei ribelli e l’iniziare con lui un dialogo che ha contributo a un “cessate il fuoco”. Lei scelse di pensare ai ribelli, in maggioranza giovani uomini, attraverso la lente di una madre, anche se costoro erano responsabili della sua perdita.

Allo stesso modo negli Usa, donne che avevano perso figli e mariti l’11 settembre non solo istigarono la Commissione 11/9, ma stabilirono organizzazioni umanitarie che promuovono l’empatia per le vittime di violenza e celebrano la diversità religiosa.

Questa capacità di lavorare su un dolore profondo volgendolo in positivo è una qualità straordinaria.

In Somalia, un gruppo di donne anziane appartenenti all’elite usarono il proprio status per interagire con i clan guerreggianti e incoraggiarono la loro partecipazione ai colloqui di pace, e negoziarono la riapertura dell’aeroporto e dell’ospedale con i ribelli di al-Shabaab.

Non tutte le donne in un movimento per i diritti umani delle donne fanno attivismo pacifista.

Non tutte le donne pacifiste emergono dai movimenti per i diritti umani.

Sebbene siano una minoranza, le donne che combinano l’attivismo per la pace con l’attivismo per i diritti gettano ponti sui divari e attirano sostenitori da ambo le parti. I loro successi sono basati su tecniche che esse stesse hanno ideato, spesso specifiche per un dato contesto culturale, e radicate nel loro invisibile potere.

In molti paesi, le donne hanno usato scioperi del sesso come tattica all’interno del loro più ampio sforzo per metter fine agli scontri.

In Sierra Leone, donne anziane appartenenti alla chiesa chiesero un incontro con un leader del movimento ribelle. Furono insultate e come risposta si sfilarono le vesti e rimasero nude, conoscendo alla perfezione le conseguenze. La loro azione accese la mobilitazione degli uomini appartenenti alla chiesa e ciò portò alla fine della violenza.

In Liberia, donne si interposero direttamente durante le resistenze al processo di disarmo e convinsero i giovani uomini a consegnare loro le armi.

In numerosi scenari, le donne hanno portato informazioni e prospettive importanti ai processi di pace su istanze quali sicurezza, giustizia, governance e recupero economico. Mentre i belligeranti sono spesso concentrati sulla propria quota di potere, le donne sono concentrate sulle responsabilità verso le loro comunità, famiglie e bambini.

Persino donne anziane dei movimenti ribelli del Salvador e del Guatemala, che entravano nelle negoziazioni come combattenti stagionate e rappresentanti dei loro gruppi, diventarono subito consapevoli dei gruppi marginalizzati, fra cui le donne – e parlarono in loro favore.

Invariabilmente, la loro comprensione della pace e della proverbiale “tavola della pace” ha più sfumature ed è più complessa di quella dei partiti in guerra o dei mediatori. Le donne sanno che metter fine alla violenza è una priorità, ma riconoscono anche che ciò non può essere fatto in modo efficace senza affrontare le cause profonde della guerra ed articolare una visione condivisa di pace e società.

In nessun altro luogo questo è tanto visibile quanto nell’odierno Medio Oriente. Nella lotta contro gli estremismi insorgenti e il militarismo di stato, le donne in Siria, Libia, Iraq, Egitto ecc. osano contrapporsi e intervenire. Sono le prime a rispondere con soccorso, cura e “normalità” nel bel mezzo del caos. E nonostante tutta la violenza e le minacce di morte, sanno che le risposte militari non metteranno mai fine alla crisi. Si basano sulla loro propria storia e difendono diritti umani, pluralismo e pace. Esse sono l’unico movimento transnazionale che sta offrendo una visione condivisa e dei valori condivisi, in alternativa a visione e valori degli estremisti.

“Chiediamo al mondo: perché ci aiutate ad ucciderci l’un l’altro? – ha detto un’attivista siriana – Perché non ci aiutate a parlare l’uno all’altro?”

Le donne sono gli assetti chiave per la pace, eppure la comunità internazionale persiste nell’ignorarle o marginalizzarle. Forse è il momento di girare sottosopra la domanda iniziale.

Perché il mondo continua ad ignorare o indebolire donne che sono abbastanza coraggiose da lottare per la pace, pacificamente?

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(“Freedom is something you have to take”, incontro con Dalal Jumaah, di Karin Tennemar per Kvinna till Kvinna, 5 novembre 2014, trad. Maria G. Di Rienzo. Dalal è la vice presidente dell’OWFI – Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq. Ha cominciato a lavorare per i diritti umani delle donne dopo aver divorziato dall’uomo che per 21 anni le ha inflitto ogni genere di violenze. Ancora oggi il suo corpo soffre per i postumi delle ingiurie subite. L’immagine di Dalal è di Karin Råghall.)

Dalal

“Volevo cominciare una nuova vita, basata sul mio proprio cuore e i miei propri pensieri. Il divorzio fu il primo passo sulla strada per la libertà. Quel che io ho passato è la prova che ogni donna può cominciare una nuova vita.”, dice Dalal Jumaah.

Il suo secondo marito fu una delle persone che incoraggiò Dalal ad entrare nell’OWFI: cominciò nel 2005 come volontaria, facendo visita alle donne in prigione. E’ qualcosa che continua a fare, ma oggi lavora anche come direttrice di uno dei rifugi dell’OWFI per le donne vittime di violenze ed abusi.

L’OWFI – Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq, agisce contro la violenza legata all’ “onore” e il traffico di esseri umani, e dà sostegno alle donne di cui si è abusato e alle persone LGBT. L’organizzazione raccoglie costantemente informazioni su questi gruppi e sulla loro situazione, ma i dati sono per lo più ignorati dal governo iracheno.

Combattere la violenza contro le donne è la questione più importante per Dalal Jumaah, specialmente il fare in modo che gli uomini trattino meglio le loro moglie. E le condizioni delle donne in prigione la preoccupano particolarmente.

“La maggior parte delle detenute con cui sono in contatto sono state vittime di violenza. A volte sono finite dentro perché i loro mariti hanno scaricato sulle mogli i propri crimini. Conosco più di 40 donne in galera che hanno ricevuto la sentenza capitale e aspettano la decapitazione. Due di esse sono in cella con i loro bambini. E’ anche assai comune per le donne essere stuprate dalle guardie carcerarie.”

Nel rifugio che Dalal dirige vi sono donne che fuggono dalla violenza delle famiglie o dei mariti, donne che vogliono smettere di essere prostitute e persone LGBT. Qualche mese fa, dei miliziani fecero irruzione in un bordello, uccidendo più di 30 persone: molte delle prostitute sopravvissute hanno cercato rifugio all’OWFI e Dalal ha aperto loro le porte.

La chiamata telefonica le arrivò una domenica di luglio: “Tu sei Dalal. Lavori per i diritti delle donne. Se non lasci il rifugio, sarai uccisa.” L’uomo al telefono si presentò come ufficiale di polizia e accusò Dalal di dirigere un bordello e di dar ricetto a omosessuali e ragazze scappate di casa.

Dalal Jumaah tentò di spiegargli che la sua organizzazione aiuta le donne in condizioni di vulnerabilità e si offrì di dargli ulteriori informazioni, ma l’uomo non volle ascoltare: “Abbiamo documentazione sufficiente ad arrestarti.”, rispose, aggiungendo che la minaccia di morte veniva dal gruppo miliziano “Asaib Ahl al Haq” di Baghdad.

Quella sera, Dalal trasferì rapidamente le donne in altri luoghi e lasciò la propria casa. La polizia la chiamò di nuovo il giorno dopo e le diede dettagliate descrizioni del giardino e dell’edificio del rifugio.

“Mi diede anche informazioni sensibili su una delle donne che ci viveva. Allora capii che sapeva davvero molto. E aveva il potere di fare quel che gli pareva.” Dopo numerose conversazioni, Dalal lo persuase a chiudere il caso, ma l’ufficiale disse che comunque non avrebbe potuto proteggerla dai miliziani. Allora, tramite una serie di contatti successivi e con un bel po’ di coraggio, Dalal riuscì ad organizzare un incontro con il loro capo. Coperta da capo a piedi in abiti neri, gli spiegò che l’OWFI aiuta le giovani donne a non prostituirsi e che riceve sostegno da organizzazioni internazionali. Gli disse anche, sinceramente, che il rifugio da loro preso di mira era ora la casa di rifugiati interni. Dalal pensa che la minaccia diretta sia diventata più debole, dopo il colloquio, ma i rischi connessi al lavoro dell’OWFI sono sempre alti.

“Quando questo accadde ero molto spaventata, ma l’ho tenuto per me. Se l’avessi mostrato alle mie colleghe, le avrei preoccupate ancora di più. Mi hanno sostenuta durante tutta la crisi e mi hanno accompagnata dovunque dovessi andare, perché era troppo pericoloso, per me, uscire da sola. Ancora oggi, non mi posso muovere liberamente.”

Non era comunque la prima volta in cui Dalal Jumaah veniva minacciata per il suo lavoro in favore dei diritti umani delle donne. In precedenza, mentre stava per visitare una prigione femminile assieme ad un paio di giornalisti, tre motociclisti miliziani inseguirono la sua auto: uno prese fotografie, un altro le mostrò una pistola. L’autista premette l’acceleratore, se li lasciò alle spalle in una folle corsa e prese una strada diversa per arrivare alla prigione.

Quale pensi sia la ragione per cui le milizie hanno preso te e l’OWFI come bersagli?

In parte per il nome dell’organizzazione. Noi chiediamo libertà per le donne, il che loro interpretano come contrario ai valori tradizionali della società. La libertà delle donne è una minaccia per loro. Noi non stiamo zitte, ma dichiariamo apertamente i nostri obiettivi. La libertà è qualcosa che devi prendere da te stessa, non è qualcosa che ti sarà dato.

Se avessi il potere di cambiare una cosa, quale sarebbe?

Rimpiazzerei l’intero Ministero della Giustizia, che pullula di corruzione. Ho moltissime informazioni al proposito, che mi piacerebbe portare alla luce. Anche, rimpiazzerei la Corte Suprema. Tutti i giudici hanno partecipato a seminari sui diritti umani, ma quando giudicano i casi di traffico li cambiano e accusano le vittime di essere prostitute. Alcuni prendono mazzette. Non c’è giustizia in Iraq.

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Ogni scelta che facciamo può essere una celebrazione del mondo che vogliamo

Ogni scelta che facciamo può essere una celebrazione del mondo che vogliamo

Sul serio? Pensate davvero che noi femministe si passi il tempo a sparlare degli uomini, a puntare l’indice contro gli uomini, a odiare gli uomini? Vi illudete. Questo delirio paranoide che vi mette al centro della nostra attenzione non ha nessun riscontro nella realtà. Perché non cercate invece di espandere la vostra conoscenza in materia? Magari guardandovi un film. Anzi, ve ne offro quattro.

“Six Days: Three Women Activists, Three Wars, One Dream” – “Sei giorni: tre donne attiviste, tre guerre, un sogno” – 2013, regia di Nikolina Gillgren.

Il documentario segue tre difensore dei diritti umani: Nelly in Liberia, Maia in Abkhazia – Georgia e Lanja nella regione curda dell’Iraq, ognuna per sei giorni, mostrando cosa significa lavorare per la salute e l’istruzione di donne e bambine, contro la violenza di genere, i delitti “d’onore” e i “rapimenti di spose”. Se davvero non sapete cosa il femminismo fa per migliorare le vite di tutti, femmine e maschi, questo è il film che non vi lascerà dubbi al proposito.

“Sound of Torture” – “Il suono della tortura”, regia di Keren Shayo, 2013.

La dittatura militare li opprime e la sua politica è sparare a vista se tentano di uscire dal paese, l’Europa li rigetta come rifugiati dal 2006, così molti di loro finiscono per morire nei “campi di tortura” del Sinai. Stiamo parlando degli eritrei che fuggono cercando di raggiungere Israele e sono catturati, tenuti prigionieri in attesa di riscatto, venduti dai trafficanti di esseri umani beduini.

Il film mostra l’attivista per i diritti umani e giornalista radiofonica Meron Estefanos (svedese-eritrea), una delle poche a documentare questa terribile situazione, mentre cerca di liberare una donna torturata tenuta prigioniera assieme al suo bambino, e ne cerca un’altra scomparsa dopo che il suo riscatto era stato pagato. Se davvero non sapete con quanto coraggio e quanta passione il femminismo difende il diritto di tutti ad una vita dignitosa, questo è il film che fa per voi.

“Playing With Fire: Women Actors Of Afghanistan” – “Giocando con il fuoco: le donne attrici dell’Afghanistan”, 2014, regia di Anneta Papathanassiou.

Durante la dittatura talebana (1994-2001) il teatro in Afghanistan era bandito. Di recente, il suo potere narrativo e trasformativo è stato usato principalmente dalle donne: ma i fondamentalisti – e a volte le loro stesse famiglie – le minacciano di morte e le bastonano in pubblico. Additate come prostitute, anti-islamiche, apostate e quant’altro, molte sono costrette a fuggire dal paese e alcune sono già state uccise.

Il documentario vi farà conoscere Tahira, forzata all’esilio perché il suo lavoro teatrale ha vinto il primo premio ad un festival; e Sajida, una studentessa perseguitata dagli estremisti; e Monirah, la fondatrice di un innovativo gruppo teatrale femminile che vive sotto assedio; e Roya, Leena e Breshna, bersagli di continue molestie per il loro ruolo pubblico in tv e al cinema. Se davvero non sapete come il femminismo contribuisca al fiorire di ogni arte, questo filmato ve lo dirà.

“Casablanca Calling” – “La chiamata di Casablanca”, 2014, regia di Rosa Rogers.

Rivoluzionarie quiete e invisibili ai mass media, le marocchine Hannane, Bouchra e Karima stanno lavorando per trasformare il loro paese. In una nazione dove il 60% delle donne non è mai andato a scuola, fanno campagna per l’istruzione femminile; mettono in guardia contro i matrimoni forzati e precoci; offrono sostegno e guida a donne e bambine affrontando assieme a loro qualsiasi problema. Hannane, Bouchra e Karima sono “morchidat”, ovvero leader religiose musulmane assegnate a tre moschee in differenti parti del Marocco. L’Islam di cui le vediamo parlare è tolleranza, compassione, eguaglianza e amore per femmine e maschi.

Se non sapevate come femminismo e fede possano andare a braccetto verso un mondo migliore di quello che abbiamo sotto gli occhi, ecco il film che ve lo mostrerà. Maria G. Di Rienzo

I DVD di queste ed altre bellissime storie di donne, raccontate da donne, sono disponibili su Women Make Movies (Le donne fanno film).

http://www.wmm.com/index.asp

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(tratto da “Women wage anti-terrorism & anti-jihad activism but rarely make headlines”, un più ampio articolo di Karima Bennoune per Reuters, 1.10.2014, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Di Karima potete anche leggere: https://lunanuvola.wordpress.com/2012/06/10/la-vostra-fatwa-non-si-applica-qui/ )

lahore dimostrazione

Sfortunatamente i jihadisti hanno i titoli in prima pagina, raramente quelli che agiscono contro di loro li ottengono. Dopotutto, chiunque ha sentito parlare di Osama bin Laden, ma molto pochi sanno di coloro che si oppongono agli aspiranti bin Laden in tutto il mondo.

C’è una lunga e non narrata storia di individui coraggiosi, di discendenza musulmana, che hanno sfidato gli estremisti.

Negli anni ’90, il gruppo di donne conosciuto come Raduno Algerino delle Donne Democratiche o RAFD (Rifiuta) osò farlo durante la “decade oscura” delle atrocità commesse dal Gruppo Islamico Armato che che si batteva contro lo stato d’Algeria. Questa violenza reclamò almeno 200.000 vite.

Le proteste organizzate dalle donne di RAFD attirarono migliaia di dimostranti, nonostante il pericolo. Nell’ottobre 1993, mentre la violenza cominciava a peggiorare, indossarono bersagli di stoffa davanti all’ufficio del Presidente, per condannare le minacce alle donne e ai laici. L’intero elenco delle leader di RAFD finì sulla lista della morte dei fondamentalisti, ma esse non si ritirarono.

Il giorno dopo il bombardamento mortale di una strada affollata di Algeri, nel 1995, RAFD andò a protestare sul luogo stesso del cratere. La polizia disse loro che era troppo pericoloso, ma le attiviste si radunarono comunque e riempirono il cratere di fiori. Lo stesso anno le donne dell’organizzazione tennero in Algeri un processo simbolico al Fronte di Salvezza Islamico, nonostante fossero stati affissi manifesti che chiunque vi partecipasse sarebbe stato ucciso.

Tramite azioni come queste, le attiviste contribuirono a galvanizzare e a pubblicizzare il crescente rigetto della popolazione al progetto di uno stato islamico in Algeria. Nonostante ciò, il lavoro di RAFD ricevette scarsa attenzione a livello internazionale. Peggio ancora, fu bersaglio delle critiche dell’intellighenzia e della stampa occidentali, che suggerivano come le attiviste fossero “non autentiche” e “occidentalizzate”.

Perché furono etichettate in questo modo? Una ragione è che i media occidentali spesso inquadrano il conflitto come se si desse fra estremisti musulmani e Occidente, piuttosto che come una battaglia per i diritti umani all’interno delle società a maggioranza musulmana. In narrativa siffatta, l’opposizione all’estremismo è giudicata “occidentale”. E’ un completo errore.

istanbul 2012

Quando l’Occidente inquadra il conflitto in questo modo, può spingersi sino a descriverlo come “scontro di civiltà”. Ma non è così. C’è uno scontro di ideologie – non di civiltà – e sta accadendo in ogni singolo paese affetto dall’estremismo. La comunità internazionale dovrebbe fare un lavoro migliore nel sostenere coloro che sono la versione odierna di RAFD e riconoscere che rappresentano una voce legittima all’interno delle loro società. E di tali voci ce ne sono molte.

L’Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq (OWFI) denuncia pubblicamente l’ISIS, dall’interno della zona in pericolo, per la sua campagna di genocidio contro le minoranze, per gli stupri di donne, per l’imposizione di un rigido codice di abbigliamento femminile e per l’aver messo in piedi un “mercato delle concubine” in cui si vendono donne e ragazze come schiave sessuali.

L’OWFI gestisce una linea telefonica d’emergenza e persino un rifugio per le donne che fuggono dalle persecuzioni dell’ISIS.

L’architetta irachena Yanar Mohammed,

( https://lunanuvola.wordpress.com/2010/01/08/auguri-dalliraq/ )

un’oppositrice all’invasione americana dell’Iraq, fondò il gruppo nel 2003 dopo la caduta di Saddam Hussein. Il suo scopo era promuovere i diritti delle donne lavorando per un Iraq laico e non settario. Come le donne del RAFD in precedenza, l’OWFI ha ricevuto minacce, in questo caso sia dagli estremisti Sunniti sia da quelli Sciiti, e in particolare minacce di morte alla sua fondatrice. Nonostante il suo coraggio, Yanar mi ha detto che ha accesso limitato ai media occidentali. Fa eco a quel che mi ha detto di recente la portavoce di RAFD, Zazi Sadou, del responso internazionale ai loro sforzi: “Nessuno voleva ascoltarci.”

Anche oggi, l’Occidente non sta ascoltando le voci degli iracheni che si oppongono agli estremisti. Questo deve cambiare. Se la comunità internazionale vuole che più individui reagiscano, deve offrir loro il suo sostegno. Mentre i forzieri del Qatar hanno nutrito i jihadisti in tutta la regione, i gruppi laici che contrastano gli islamisti non hanno fondi.

Se non si affronta tutto questo, allora c’è il rischio reale che i fondamentalisti musulmani – armati di denaro, armi, combattenti stranieri e retorica emotiva religiosa – vinceranno sia sul fronte della propaganda, sia sul fronte delle battaglie militari.

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(e cinque donne che lo incarnano)

Un nuovo portale online, creato per mettere in contatto femministe di differenti culture, le donne che lottano per il cambiamento, “uno spazio per sognare, immaginare, crescere ed esplorare in teoria e in pratica”: WELDD (“Empowering Women and Leadership Development for Democratization”) è stato ideato dal Women’s Centre Shikat Gah pakistano, dall’Institute for Women’s Empowerment di Hong Kong e da Women Living Under Muslim Laws (Donne che vivono sotto le leggi musulmane, il link è nella colonna a destra “Donne, notizie e attivismo”).

( http://www.weldd.org/ – Lo spirito delle fondatrici è visibile nell’immagine qui sotto.)

weldd

Nella presentazione si legge, tra l’altro: “Il portale fornirà alle attiviste e alle organizzazioni femministe e a chi agisce per un mondo giusto ed egualitario un luogo per condividere risorse utili ed esperienze; la sezione blog “Pubblica Piazza” sarà lo spazio informale per l’espressione di opinioni e la riflessione su notizie ed eventi. Poiché siamo impegnate nella produzione di conoscenza globale riguardo al sud del mondo, avremo sezioni per esplorare concetti e teorie provenienti dai contesti a maggioranza musulmana in arabo, bahasa, inglese, francese e urdu.”

La rete di queste donne collega già venti paesi (fra cui Egitto, Gambia, Indonesia, Iran, Libano, Libia, Nigeria, Pakistan, Senegal, Somalia, Sri Lanka, Sudan, Siria e Tunisia) in cui ha organizzato a livello transnazionale seminari, conferenze, azioni dirette, ecc. allo scopo di “promuovere l’eguaglianza di genere e la giustizia sociale, rafforzare la partecipazione politica delle donne e i diritti economici, costruire la pace, mettere fine alla violenza contro le donne – che viene giustificata culturalmente.”

Di una delle organizzazioni che partecipano a WELDD ho già scritto un paio di volte: si tratta dell’associazione femminista Warvin che opera nel nord dell’Iraq. Di recente, un gruppo militarizzato di estremisti sunniti che si fa chiamare “Stato islamico dell’Iraq e della Siria”, che conosciamo con la sigla IS o ISIS, e con cui non sappiamo bene come “interfacciarci” a meno di prendere lezioni dal maestro on. Di Battista, è arrivato dalle loro parti. Costoro hanno occupato armi in pugno gli uffici di Warvin e sequestrato tutta la documentazione presente. Le donne dello staff sono fuggite in montagna a raggiungere gli altri profughi ed hanno dovuto attendere con loro i soccorsi. Ma ci sono quelle che non sono riuscite a fuggire: sono confinate nelle loro case e non è permesso loro neppure andare al mercato a fare la spesa. Hanno l’ordine di non uscire se non nei casi di emergenza e in questi ultimi possono farlo solo se indossano il niqab (che le copre dalla testa ai piedi).

Ovunque ISIS metta piede, le donne possono: cercare di scappare; vivere recluse e senza diritti; soffrire rapimenti a scopo di traffico per schiavitù sessuale, stupri singoli e stupri di gruppo, matrimoni forzati con gli eroici combattenti; oppure morire. La risposta di Warvin è visibile nella seconda immagine di questo pezzo.

warvin

Hanno annunciato in conferenza stampa, il 4 settembre u.s., la formazione di un gruppo specifico (“5+ Group for Women’s Aid”) per indagare e documentare gli abusi perpetrati da ISIS nei confronti delle donne nella regione curda dell’Iraq. Lo scopo principale è soccorrere un migliaio di donne yazide attualmente nelle mani dei loro rapitori dell’ISIS.

Le cinque attiviste che stanno facendo questo pubblicamente, con i loro volti esposti e le loro identità note, senza cappucci in testa e senza fucili a tracolla, sono Mhabad Qaradaghi, Lanja Abdullah, Huda Zangana, Shler Bapir e Gulan Salim.

Maria G. Di Rienzo

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basta guerra

“Se l’onorevole Alessandro Di Battista ha la possibilità di entrare in contatto con i terroristi e vuole andare nelle zone sotto il loro controllo per intavolare con loro una discussione, sappia che il suo visto di ingresso in Iraq è pronto: può andare ad Erbil, raggiungere in qualche modo Mosul e convincere i terroristi a fermare il genocidio di cristiani e musulmani come sta avvenendo in questi giorni”. Così Saywan Barzani, ambasciatore iracheno in Italia.

Ma non occorre mandare l’onorevole “che vuole capire” a Mosul. E’ giusto cercare di capire: per cominciare, può visitare il campo profughi a Dayrabun.

E chiedere a Samo Ilyas Ali perché non dorme, perché gli sembra di impazzire, cosa sono i suoni che continua a sentire dentro la testa e che si rifiutano di essere tacitati: il rifugiato gli risponderà che sono le grida di donne e bambini. Donne e bambini che chiedevano aiuto mentre li seppellivano vivi. L’8 agosto quelli nati (secondo l’onorevole) “dal male di Abu Ghraib” sono arrivati al suo villaggio con i mitragliatori. Ali e i suoi concittadini con Abu Ghraib non hanno mai avuto a che fare, ma i militanti di Isis li hanno messi a scavare buche. Ali, 46enne, farà frequenti pause per piangere mentre gli racconterà a cosa le buche sono servite. Dawud Hassan, meccanico 26enne, potrà intervenire al proposito. E’ terrorizzato dal futuro, non vuole più stare in Iraq dopo quello che ha visto. Vorrebbe dimenticare: “Hanno messo donne e bambini sottoterra. Erano ancora vivi. Li sento urlare anche adesso. Tentavano di tenere su la testa per respirare.”

Cerchi anche lo yazida Hassan, studente 22enne, che continua a ripetere come un disco rotto: “Si è mai visto niente del genere? Si è mai visto? Le hanno legato le mani ad un’automobile e i piedi ad un’altra, e l’hanno lacerata in due. Si è mai visto niente del genere? Le hanno fatto questo perché non era musulmana e non voleva convertirsi.” Capisce, onorevole? Questa donna non è morta in modo atroce perché aveva a che fare in qualche modo con Abu Ghraib.

Non occorre mandarlo a Mosul.

Vada a Newroz, al campo profughi sul confine siriano, e cerchi Bagisa e suo marito Hadi.

Costoro sono fuggiti dall’invasione armata del loro villaggio, Sumari. Gli invasori sono sempre quelli generati “dal male di Abu Ghraib”. Bagisa e Hadi si sono rifugiati in montagna, da soli. Lei era incinta del loro primo figlio. All’ottavo giorno di fuga, all’ombra di un picco, ha messo al mondo una bimba e l’ha chiamata Khudaida. C’erano altri fuggiaschi in quel luogo, ma nessuno conosceva la coppia e nessuno aveva acqua in più da dividere con loro. L’onorevole ha idea di cosa voglia dire partorire senza aver acqua da bere, senza aver acqua per lavarsi e per lavare la neonata, sotto una calura insopportabile? Se lo faccia raccontare da Bagisa.

Il giorno dopo la nascita di Khudaida, membri del Partito dei lavoratori curdo (PKK) hanno trovato i profughi e li hanno condotti al campo di Newroz. Ma la mattina del 14 agosto, la minuscola figlia di Bagisa e Hadi ha smesso di respirare. Aveva 4 giorni di vita.

Chieda al dottore che ha cercato di salvarla quali sono state le cause della morte: “Tutto.”, gli risponderà costui, “Il caldo in montagna, la sete, il vento che ha inalato pieno di polvere ed escrementi, la fame. Quando è arrivata al campo era già troppo debole.”

Bagisa e Hadi hanno dovuto faticare anche a seppellirla. Hanno fatto avanti e indietro per un giorno e mezzo con il fagottino fra le mani fra la direzione del cimitero, il servizio di sicurezza del PKK e la direzione del campo profughi: nessuno voleva prendersi la responsabilità di seppellire in Siria una bimba irachena. Alla fine il cimitero ha ceduto e Khudaida è stata messa a giacere per sempre nella terra. Questa famiglia non aveva mai avuto a che fare con Abu Ghraib: per cosa ha pagato un prezzo così alto?

Non occorre mandarlo a Mosul.

Vada a Raqqa, in Siria, dove il “califfato” dell’Isis è già realtà.

Ma stia attento a non farsi beccare per strada durante uno dei cinque momenti giornalieri di preghiera, perché potrebbe essere ucciso.

Tutte le donne in città sono infagottate nel niqab per ordine dell’Isis e i pantaloni sono loro banditi. Le parrucchiere devono cancellare le facce delle donne sulle scatole di tintura per capelli.

Niente musica, nemmeno durante i matrimoni. E d’altronde, quando le ragazze si uccidono o cercano di uccidersi per sfuggire ai matrimoni imposti con i combattenti islamisti, chi ha voglia di suonare e ballare?

Mani tagliate, crocifissioni, decapitazioni sono il destino dei piccoli malfattori come degli oppositori del regime: le immagini sono pubblicate con didascalie gongolanti sui social network.

E al mercato del bestiame, ai venditori è stato ordinato di coprire i posteriori di pecore e capre perché altrimenti gli uomini, vedendo i loro genitali esposti, potrebbero avere pensieri impuri.

Onorevole, nessuna somma di torti fa una ragione. Onorevole, questa guerra fa schifo come ogni altra guerra. Maria G. Di Rienzo

N.B. Le informazioni che le ho presentato, onorevole, provengono da attiviste/i per i diritti umani e giornaliste/i che si trovano nei luoghi summenzionati. Può controllare le loro testimonianze su Spiegel, Reuters, Awid, Kvinna til Kvinna, Women’s Learning Partnership, Metrography, Indipendent, Guardian, Mezzaluna Rossa irachena, Iraqi News, CS Monitor, UN Women, ecc.

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(“We must act in Iraq!”, di Ala Riani per Kvinna till Kvinna, 14 agosto 2014, trad. Maria G. Di Rienzo. Ala Riani è membro della Fondazione Kvinna till Kvinna in Kurdistan, la sua immagine è di Yolanda Gomez Hurtado.)

Ala Riani

Scrivo da Erbil, la capitale della regione del Kurdistan iracheno, che sin dalla caduta del regime di Saddam è riuscita a tener distante il caos e le esplosioni che prevalgono nel resto del paese. Ora quest’oasi, in cui le minoranze nazionali si sono rifugiate fuggendo dall’oppressione, è in grave pericolo.

Le forze peshmerga curde (Ndt: il termine indica sia i combattenti indipendentisti sia, come in questo caso, le forze armate del governo regionale autonomo) stanno lottando disperatamente per mantenere la sicurezza che ISIS sta minacciando.

Ieri sono stata al telefono tutto il giorno a parlare con le attiviste per i diritti delle donne che mi hanno descritto le loro profonde preoccupazioni. Con voci spezzate dicono della loro paura, di come i loro quartieri e le loro città trabocchino di persone che fuggono da ISIS. Parlano di una crisi umanitaria. In televisione ci sono solo le ultime notizie al proposito. Nelle strade e nei bar si parla solo delle forze peshmerga curde, di che città o che villaggi sono stati liberati o perduti a vantaggio di ISIS lungo i 1050 chilometri di confine che viene difeso.

Un’attivista di Warvin (Ndt.: ong curda femminista e antimilitarista) mi ha detto che si sente paralizzata da quando le forze di ISIS sono entrate nella città di Shingal ed hanno spinto 200.000 Yezidi sulle montagne, dove sono ormai dispersi da una settimana. Circa 100 fra bambini e adulti sono morti della mancanza di acqua e cibo in una calura da 50 gradi. In una settimana, centinaia di migliaia di rifugiati hanno raggiunto Erbil. L’attivista di Warvin mi ha detto che i rifugiati dalla Siria sono stati praticamente abbandonati a causa di tutti questi nuovi arrivi. Si stima che ora vi siano un milione e mezzo di rifugiati in Kurdistan, che conta una popolazione propria di cinque milioni. In alcune città ci sono più rifugiati che abitanti.

Le chiese sono piene di cristiani che sono fuggiti dal terrore. La gente dorme sotto le siepi o sui materassini che sono stati distribuiti. Nei parchi, decine di migliaia di rifugiati si sono sistemati sull’erba, senza rifugio e senza rifornimenti. Restano seduti là, a piangere i loro cari scomparsi. Il governo curdo sottostà ad un’intensa pressione e non ha abbastanza risorse per aiutare tutti i rifugiati, così la gente comune sta raccogliendo in proprio denaro, cibo e oggetti per quelli che ne hanno bisogno.

Allo stesso tempo, molte testimonianze ci stanno arrivando. Questa guerra è disumana sotto ogni aspetto, decapitazioni, fucilazioni di massa ed espulsioni. E ora ci stanno arrivando i rapporti sugli stupri di massa. Le donne muoiono dissanguate dalle ferite inferte durante la violenza sessuale. Ci raccontano di stupri di gruppo e di cacce in gruppo a giovani donne da rendere schiave. Una volta di più le donne sono usate come attrezzi e i loro corpi sono mezzi per demoralizzare il nemico. Oggi, le notizie diffuse dai media qui ad Erbil si sono concentrare sulle storie di queste donne coraggiose, che osano venire allo scoperto e testimoniare gli abusi che hanno sofferto. Le forze di ISIS le stanno stuprando e poi le rilasciano in modo mirato, affinché possano dire ad altre cose devono aspettarsi: è una strategia di intimidazione barbarica.

Sembra che siano state fucilazioni di massa di donne e bambini, e che delle persone siano state sepolte vive. Nella scorsa settimana circa 500 donne Yezidi sono state catturate da ISIS nella città di Mosul. Alcune di esse sono state vendute ai trafficanti del mercato del sesso e degli schiavi. ISIS sta usando questi mezzi anche in Siria, commettendo crimini di guerra e infrangendo le convenzioni internazionali. In Medio Oriente, la donna è il simbolo della famiglia e della società: abusare di lei, umiliarla e torturarla è fare lo stesso alla sua famiglia e alla comunità a cui appartiene.

Le Nazioni Unite hanno classificato la situazione come al più alto grado di crisi. I rifugiati che sono ancora dispersi hanno bisogno di essere soccorsi. Quelli che sono riusciti a scappare hanno bisogno di acqua, cibo, medicine, rifugio e sostegno psicologico.

Abbiamo disperatamente bisogno dell’aiuto internazionale e dell’assistenza umanitaria!

Ndt: Il giorno 13 agosto 2014, il capogruppo M5S alla commissione Esteri alla Camera, Manlio Di Stefano, rilascia un’intervista a La Stampa per spiegare dichiarazioni grilline quali: “fenomeni radicali come l’Isis sarebbero da approfondire con calma e rispetto”. E mostrando di essere davvero competente e informato lo fa così: “Noi occidentali abbiamo dato per scontato che la nostra fosse l’unica democrazia possibile. Affrontare le cause con rispetto significa interrogarsi se non ci siano altre forme di governo e di democrazia che vanno bene per i posti dove sono”. Una forma di governo e democrazia che massacra le donne in ogni senso, da quello fisico a quello del godimento dei loro diritti umani, può infatti andar bene per i posti dove quelle donne sono. Di Stefano mica è una donna, dopotutto, e mica è in quei posti. Avere in Parlamento gente di questo tipo non invita proprio a mantenere la “calma”, quanto al “rispetto” io lo tributo alle persone (e agli esseri viventi in genere), avendo tutto il diritto e persino il dovere di non rispettare affatto le loro eventuali azioni infami. Quando i cinquestelle affermano “Noi restiamo pacifisti senza se e senza ma” riducono il pacifismo ad una barzelletta se non sono capaci di opporsi ad ogni guerra e ad ogni uso della violenza nelle controversie nazionali e internazionali, non solo a ciò che fa loro comodo o che il loro guru gli suggerisce.

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(tratto da: “In Beirut, Syrian Refugees Cook to Survive – and Remember”, un più ampio servizio di Lauren Bohn e Andrew McConnell per Bon Appétit, 18.4.2014, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)
Ndt: le donne che vedete nelle immagini sono rifugiate siriane in Libano e la loro sopravvivenza e quella delle loro famiglie dipende dal loro lavoro di cuoche. Lo hanno trovato grazie a Kamal Mouzawak, proprietario del ristorante Tawlet (“tavolo di cucina” in arabo), che con il sostegno dell’Agenzia NU per i rifugiati e della Caritas ha organizzato il corso per una ventina di donne siriane quest’anno e spera di riuscire presto ad organizzarne un secondo. Kamal si potrebbe definire un “gastro-pacifista”: “Voglio fare cibo, non la guerra. Il cibo ci unisce tutti e io credo che porti la pace. Queste donne non mostrano la loro forza solo essendo sopravvissute ad un conflitto brutale, ma anche tramite la ricca tradizione culinaria del loro paese.”

Nahrein Abdal, 37 anni.

nahrein abdal

Nahrein è una cristiana assira. Il suo gruppo etnico si estende fra Siria, Turchia ed Iraq. Vivace e vibrante, annuncia scherzosamente che vuole diventare famosa. “So cantare, so ballare, e faccio il miglior ketal (piatto di carne e frumento) e le migliori polpette del Libano. Datemi un programma in televisione!” Ma quando deve parlare della sua fuga dalla Siria, avvenuta l’anno scorso, le sue parole diventano gravi e fatica a trattenere le lacrime: “Non volevo andarmene, ma non avevo altra scelta. Mio marito lavorava all’estero da qualche anno. Quando i compagni di scuola dei nostri figli furono rapiti a scopo di riscatto mi chiese di fuggire con i bambini in Libano. Il concetto di paura, in precedenza, ci era estraneo. Poi è arrivato e non se n’è andato più. Noi abbiamo lasciato la Siria, ma la Siria non ha lasciato noi. Le difficoltà ci seguono.”
Nahrein cerca di scrollarsi di dosso il pensiero e sparge semi di melagrana sul suo piatto di carne, mentre ondeggia ad una musica immaginaria. Sa che non serve continuare a vagare nello spazio fra se stessa oggi e ciò che era un tempo in Siria. E dichiara orgogliosa: “Voglio lavorare di più, voglio cucinare di più. Diventerò la Grande Chef dei rifugiati siriani!”

Ibtisam Masto, 34 anni.

Ibtisam Masto

Quando lo shrapnel atterrò sul suo balcone nel febbraio 2013, mancando per un pelo suo figlio di tre anni, Ibtisam seppe che era il momento di andarsene dalla sua città, Idlib. Aveva procrastinato sino ad allora, maneggiando i blackout, la mancanza d’acqua e i suoni della guerra, ma quando essa arrivò alla sua porta assieme al marito e ai sei figli intraprese il viaggio di 24 ore che l’avrebbe portata in Libano.
Ibtisam, che significa “sorriso” in arabo, si è sempre espressa tramite la musica. Suona il mazhar, un tipo di tamburello, ma ha dovuto lasciarlo alle sue spalle assieme ad altri oggetti amati, carichi di ricordi: “Mi manca tutto, mi manca persino l’aria che respiravo in Siria. Là eravamo soffocati dalla paura, qui siamo soffocati dalla nostalgia.”
Ibtisam dice che non sapeva esattamente a cosa si era iscritta quando mise la sua firma per il corso: “Ho pensato che potevo imparare qualcosa. Non credevo di avere qualcosa da dare. Ma questo mi ha infuso di speranza. Prima mi sentivo respinta, mi sentivo un fardello in Libano. Ed ecco che, di colpo, stavo dando un contributo, non stavo solo prendendo. Noi rifugiati vogliamo che le nostre storie siano conosciute, ma non solo attraverso il dolore. Vogliamo che la gente qui ci conosca – e sorridendo, fedele al proprio nome, aggiunge – anche tramite il nostro cibo.”

Rasha Mhemid, 31 anni.

Rasha Mhemid

Una sera il marito di Rasha non tornò alla propria casa, nella città di Homs, dalla fabbrica di mangimi dove lavorava. Tre giorni dopo lei seppe che era stato arrestato per aver partecipato ad una manifestazione anti-governativa. Rasha si precipitò alla stazione con metà dei loro risparmi per tirarlo fuori di galera; all’indomani, spese l’altra metà per pagare il taxi privato che avrebbe portato lei, il marito e i loro quattro bambini in Libano. Nonostante abbia salvato marito e figli e se stessa, Rasha si sente in colpa, si sente come se avesse “disertato” il proprio paese. Pensava che la permanenza in Libano sarebbe stata di qualche mese, e solo da poco ha accettato di dover ricostruire la propria vita dalle fondamenta. “Il nostro quartiere, a Homs, ora è chiuso. La mia famiglia e i miei vicini non possono uscire di casa e nemmeno riusciamo a raggiungerli al telefono.” Passava le giornate piangendo, racconta, ma cucinare le ha dato qualcosa che la tiene occupata e allontana la crisi dalla sua mente: “Prima non avevo amiche. Adesso ho sorelle. Piango ancora, ma non più così tanto.”

Mariam Al Bakkour, 31 anni.

Mariam Al Bakkour

Mariam, al primo sguardo, sembra mite e fragile ma tutte le altre cuoche dicono che è la più “dura”. Mariam ha lasciato Aleppo con il marito e quattro figli un anno e mezzo fa, quando carri armati circondarono l’edificio dove la famiglia viveva e cominciarono a fare fuoco. Aspettarono sei ore, sino a che la battaglia terminò, e fuggirono. La madre di Miriam, rimasta in Siria, è morta; per lei è devastante non aver potuto neppure dirle addio durante il funerale. “Come rifugiata provi alienazione, e dolore. A volte rabbia. Ma ho dei bambini, così sorrido per loro.” Mariam dice anche che non ha mai realmente conosciuto la differenza fra gruppi musulmani sino allo scoppiare della guerra: “Abbiamo tutti giocato insieme, da piccoli. Ci chiamavamo siriani, non sunniti o sciiti.”
Mariam ha parenti, in Libano, ma non le hanno dato il benvenuto: “Biasimano i siriani per gli attentati suicidi e i disordini al confine. Queste donne che cucinano con me mi hanno fatta sentire più benvenuta dei miei stessi parenti.”

Marleine Youkhanna, 40 anni.

Marleine Youkhanna

Marleine è arrivata in Libano lo scorso agosto con il marito e tre bambini. Si sono portati dietro i vent’anni di risparmi con cui speravano di mandare i figli all’università: sarebbero stati i primi della famiglia a farcela. Marleine ci spera ancora, ma il marito ha dovuto essere operato al cuore e il gruzzolo si assottiglia sempre di più: “Ecco perché sto lottando per migliorare le mie capacità. Ecco perché voglio cucinare per l’intero paese.”
Marleine, cristiana assira come Nahrein, non crede che le divisioni settarie spieghino il conflitto: “Prima di andarmene dalla Siria ho lasciato le chiavi di casa al mio vicino musulmano. So che la proteggerà.” Marleine ricorda quando gli iracheni arrivarono in Siria fuggendo dalla guerra nel 2003. All’epoca aveva cucinato per loro e ne aveva ospitati alcuni in casa sua. Non avrebbe mai pensato di trovarsi nella stessa posizione dieci anni più tardi. “Sì, è dura, ma non puoi aspettare che le cose accadano, che le benedizioni ti arrivino addosso: devi correr loro dietro e afferrarle.”

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