Una confessione. Può sembrare una vanteria, ma non lo è – davvero la morte non mi spaventa. Sono terrorizzata, invece, da un unico scenario relativo al “come”: il soffocamento. Sarà perché in quel modo, almeno una volta, sono già “morta” (strozzata dal cordone ombelicale). Sarà perché al respiro è associato il mio elemento preferito, l’aria (sono una Gemelli). Sarà perché simbolicamente per me il respiro è musica e senso di appartenenza e misura di sollievo e significato. “Nessuno tesse lodi al respiro, ma oh!, esserne privi!”, fa dire lo scrittore di sf Roger Zelazny a Yama, uno dei personaggi di Signore della Luce (1967).
L’assassinio di George Floyd ha quindi per me i connotati dell’incubo a più di un livello. C’è l’orrore dell’atto in sé, quel ginocchio premuto sul collo, quelle parole – Non riesco a respirare – cadute nel vuoto della morte. C’è la tragica, tagliente consapevolezza che per un passo avanti sulla strada della civiltà, molti esseri umani sono più che volonterosi nel farne due indietro.
C’è la paura di essere definitivamente in ritardo: posso accettare di non vedere di persona la sconfitta definitiva delle fobie su cui si regge il dominio (razzismo, sessismo, omofobia, svergognamenti dei “non allineati” di qualsiasi tipo), ma mi angoscia l’idea che non la sperimentino mai le generazioni più giovani.
Derek Chauvin, l’ex poliziotto di Minneapolis che si vede nel video schiacciare il collo di Floyd con il ginocchio, è stato arrestato con l’accusa di omicidio colposo.
Un’ora fa, un ragazzo di 19 anni è stato ucciso (i dettagli non sono ancora chiari) a Detroit da proiettili sparati da un Suv sui dimostranti. Stava chiedendo giustizia per George Floyd, per se stesso e per noi tutti/e.
Quando impareremo a respirare insieme?
Maria G. Di Rienzo