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Posts Tagged ‘foresta pluviale’

libia grueso

Libia Grueso (in immagine) è un’assistente sociale, un’ambientalista e un’attivista per i diritti umani colombiana. Finora, difendendo le comunità rurali afro-colombiane dagli espropri e dagli sfratti ha messo al sicuro 14.912 miglia – circa 24.000 chilometri – di territorio sulle rive del fiume Yurumangui. Sta inoltre proteggendo la foresta pluviale del Pacifico, una delle aree del nostro pianeta maggiormente segnata dalla biodiversità. Ogni tanto le chiedono perché lo fa:

“E’ una storia lunga e personale, ma molte persone sono come me consapevoli che se non ci assumiamo in prima persona la difesa della nostra cultura, la difesa del nostro territorio, la difesa della natura e dell’ambiente, non solo la nostra cultura sparirà ma anche la natura ad essa associata. Ho avuto numerose esperienze che mi hanno resa conscia dell’importanza della nostra regione e di come quest’ultima sia minacciata dal cosiddetto sviluppo.”

Maria G. Di Rienzo

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(“The Women Leading This Kenyan Environmental Group Are Thriving Where Men Failed”, di Daniel Sitole per News Deeply, 4 gennaio 2018, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Foresta di Kakamega, Kenya – Quando Maridah Khalawa ha dato inizio al Gruppo Agricoltori di Muliru per la Conservazione, circa un decennio fa, sapeva di voler trovare un modo di generare reddito per se stessa e altre donne che vivono nei pressi della foresta Kakamega nel Kenya occidentale, senza sfruttare le già risicate risorse dell’area.

Quel che non poteva sapere era che la loro piccola impresa comunitaria sarebbe cresciuta sino a contribuire al sostegno di centinaia di famiglie, avrebbe vinto riconoscimenti internazionali e si sarebbe dimostrata più efficace di molti dei gruppi di uomini che tentato di fare la stessa cosa.

La chiave dell’impresa sostenibile del gruppo di Muliru è il basilico canforato.

basilico canforato

La pianta indigena, Ocimum kilimandscharicum, chiamata “Mwonyi” nel locale dialetto Luhya, è stata a lungo usata dalla popolazione attorno alla foresta Kakamega per curare influenza e tosse, per tenere distanti i parassiti dal grano immagazzinato e come repellente per le zanzare.

A partire dal 1999, con il piccolo capitale iniziale e il lavoro gratuito fornito dai membri, più della metà dei quali sono donne, il gruppo di auto-aiuto di Muliru ha cominciato a coltivare e a trattare il basilico canforato per trasformarlo in un unguento da vendere localmente. L’idea era di attingere a un’abbondante e poco apprezzata risorsa della foresta Kakamega, l’ultima foresta pluviale del Kenya che ancora sopravvive, beneficiando nel contempo finanziariamente le comunità locali. Per giunta, una parte dei guadagni provenienti dall’iniziativa sarebbero andati alla ricerca per la preservazione ambientale.

“Uno dei nostri iniziali scopi relativi alla conservazione era l’agire andando oltre il metodo tradizionale, usando tecnologia moderna e abbracciando la cooperazione con altre organizzazioni interessate.”, dice Maridah Khalawa, 54enne, che non hai mai finito le scuole superiori perché i suoi genitori non potevano permettersi di pagare le tasse relative.

Muliru

(Muliru – Maridah Khalawa è a destra accanto al distillatore)

Lo sforzo del gruppo ha subito attirato i donatori. Nel 2.000, Il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite ha dato al gruppo 4 milioni e mezzo di scellini kenyoti (poco più di 37.000 euro) per comprare macchinario da distillazione in grado di estrarre gli oli essenziali del basilico. In precedenza, la comunità era solita bollire la pianta come da medicina tradizionale. Cinque anni più tardi la Fondazione Ford, tramite il Centro Internazionale di Fisiologia e Ecologia degli Insetti, finanziò parzialmente la costruzione di due edifici per la produzione, lo stoccaggio e gli uffici amministrativi del gruppo.

Altri donatori seguirono, sebbene non senza incontrare resistenza da parte di alcuni membri dell’organizzazione: “Non è stato facile convincere altri abitanti del villaggio a pensare globalmente e ad accettare di lavorare con stranieri.”, dice ancora Khalawa. Ora il Gruppo Agricoltori di Muliru per la Conservazione è rinomato per il suo unguento erbaceo basato sul basilico canforato, che è sul mercato con il nome di Naturub ed è registrato come medicina in Kenya per la cura dei sintomi dell’influenza, come sollievo per il dolore e i morsi di insetti. Oltre all’unguento, il gruppo fa anche repellente per zanzare.

I prodotti sono venduti a negozi, supermercati e farmacie nel Kenya occidentale e distribuiti tramite agenti in altre parti del paese. James Ligale, l’addetto del gruppo alle pubbliche relazioni, dice che il valore dei loro beni patrimoniali ammonta a più di 15 milioni di scellini kenyoti (circa 124.000 euro), valore della terra compreso. Vendono annualmente 36.000 flaconi di unguento.

I benefici vanno ben oltre i membri di Muliru, di cui più del 40% riceve tutti i propri guadagni dal progetto. Il gruppo fornisce reddito regolare per 400 agricoltori che coltivano le piante per il materiale grezzo e che a loro volta impiegano circa 1.000 dipendenti.

Come integrazione ai propri guadagni, Muliru ospita turisti che pagano dai 12 ai 29 euro per apprendere le storie della conservazione della foresta di Kakamega, della pianta Ocimum e del processo di produzione di Naturub – dalle fattorie ai macchinari.

Il lavoro del gruppo ha vinto diversi premi, inclusi due dall’UNDP: l’Equator Prize nel settembre 2010, che fu conferito durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York e il Seed Award nel dicembre dello stesso anno.

“E’ l’impresa di preservazione ambientale più di successo e meglio amministrata diretta da una donna in Kenya. – dice l’esperto di conservazione di risorse naturali, ora in pensione, John Kimeto – Gli uomini hanno tentato di imitare Maridah ma hanno tutti fallito.”

Khalawa attribuisce il suo successo all’instancabile sostegno delle donne membri del gruppo. Dice che si è presa l’impegno di far spazio alle vedute e alle opinioni delle persone al di là della loro età, affiliazione politica o comprensione delle istanze, ma che non permetterà ai politici di professione di interferire nella gestione degli affari. “Le organizzazioni comunitarie sono soggette a manipolazioni politiche, e ai politici piace essere membri, patrocinatori o sponsor di tali gruppi. Io ho tenuto con fermezza i politici fuori da Muliru.”, spiega.

Nonostante la sua comprovata e forte esperienza, Muliru affronta ancora difficoltà nel mentre tenta di ingrandirsi ed espandersi. Cerca di guadagnare abbastanza per i costi del marketing o per assumere impiegati dalle specifiche abilità – come ingegneri di produzione o contabili – che facciano funzionare l’organizzazione. I membri più anziani trattano gli affari del gruppo essi stessi, a volte andando per tentativi e errori.

Tuttavia, Maridah Khalawa e la sua compagine si dedicheranno a dirigere l’impresa in modo sostenibile e per il beneficio della loro comunità locale il più a lungo possibile: “Quelli che volevano stare dalla parte “giusta” politicamente sono collassati, ma noi siamo qui per restare.”, dice.

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(“Meet Mariamah Achmad, Indonesia” – Nobel Women’s Initiative 2017, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

mariamah-achmad

Mariamah “Mayi” Achmad, indonesiana del Kalimantan occidentale, è la Coordinatrice per l’istruzione alla consapevolezza ambientale della Fondazione Palung e dirige l’organizzazione ecologista “Sekolah Lahan Gambut”. Ha un diploma in gestione forestale e lavora per educare i villaggi rurali alla protezione della biodiversità.

Cosa ti ha spinta a diventare un’attivista?

Sono cresciuta in un bellissimo villaggio rurale con un lungo fiume e molte mangrovie. La foresta forniva alla mia famiglia e alle persone nel mio villaggio legno, lavoro e acqua potabile. All’epoca mio fratello lavorava come disboscatore. Quando il governo mise fuorilegge il disboscamento io mi sentivo arrabbiata, perché pensavo che i nostri mezzi di sussistenza ci fossero stati tolti. Ma ho capito che il vero problema erano le compagnie multinazionali a cui era permesso di controllare larghe aree e di usare la terra a proprio beneficio. Mio fratello non poteva tagliare un albero, ma una di queste compagnie venne al mio villaggio, tagliò il legno delle mangrovie per fare carbone e distrusse i loro acquitrini per produrre gamberetti. Ho preso il diploma in gestione forestale perché sapevo che non c’era abbastanza consapevolezza su come maneggiare la foresta e le nostre risorse naturale. E’ stato come se la foresta mi avesse chiamata.

Quanto grave è l’attuale problema di deforestazione dell’Indonesia?

L’Indonesia soffre degli effetti del surriscaldamento globale, ma allo stesso tempo siamo diventati uno dei paesi che producono più emissioni di anidride carbonica. Centinaia di migliaia di incendi nelle foreste accadono qui ogni anno, molti sono iniziati deliberatamente per aver terra da coltivare, in particolare per le piantagioni che producono olio di palma.

Le nostre umide foreste torbiere sono state prosciugate e disboscate e la torba è molto infiammabile, specialmente nella stagione secca. Quando la torba prende fuoco può bruciare invisibile sotto il terreno e solo la pioggia può spegnerla. L’uso di pesticidi e fertilizzanti e le attività minerarie – sia legali sia illegali – hanno inquinato i fiumi. Nel 2013, l’intera regione del Kalimantan è finita nella lista dei 10 luoghi più inquinati del mondo.

Che impatto ha questo sulle persone?

Il fumo denso delle foreste che bruciano può causare asma, bronchite, malattie cardiache e cancro ai polmoni, e interessa specialmente gli agricoltori che vivono vicini alle piantagioni di palma da olio. A queste comunità manca anche l’accesso a servizi sanitari e istruzione. Nelle zone urbane fanno campagne per insegnare alla gente come maneggiare lo smog, ma la mia squadra e io siamo state in aree rurali piene di fumi dove i membri delle comunità, inclusi i bambini, continuavano a svolgere le attività quotidiane senza usare neppure mascherine.

Ho colleghe che hanno documentato problemi di salute riproduttiva per le donne come risultato dell’uso di acqua inquinata. C’è un costo sociale, pure. Con la perdita della foresta, la comunità perde i suoi mezzi di sussistenza. In passato, la foresta forniva tutto ciò di cui le persone avevano bisogno gratuitamente. Ora devono pagare, il che significa trovarsi un lavoro e usualmente il lavoro lo trovano alle piantagioni per l’olio di palma: dove l’orario è lunghissimo e la paga irrisoria.

In che modo la tua organizzazione “Sekolah Lahan Gambut”, contrasta tale realtà?

Molti dei nostri membri sono giovani donne. Le istruiamo affinché vadano nelle zone rurali a ricordare alle persone quanto importanti sono le foreste, perché le stiamo perdendo e cosa loro possono fare per dare una mano. Lavoriamo nelle scuole, usando le tecniche del racconto e dello spettacolo di marionette per educare gli studenti sull’importanza delle foreste pluviali e torbiere e della biodiversità in generale. Io porto gli studenti nelle foreste in uscite didattiche nelle foreste, che sono anche habitat per specie animali in pericolo. Facciamo anche campagne sui media e abbiamo creato un sito web e programmi radio per diffondere il messaggio.

Cosa dovrebbe accadere?

Dobbiamo far pressione sul governo affinché mantenga la decisione di revocare alle compagnie multinazionali i permessi di bruciare le foreste. Dobbiamo far pressione affinché smettano di aprire queste aree e assicurare le loro riforestazione ove siano state disboscate o bruciate. Le politiche del governo devono sostenere le comunità, non le compagnie commerciali. Io spero di fare in modo che le persone ricordino tutto ciò che le foreste ci hanno dato e che è nostra responsabilità proteggerle.

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La comunità Ekuri, in Nigeria, amministra 336 chilometri quadrati di foresta comunitaria adiacente al Parco Nazionale di Cross River. Questo assetto ha avuto inizio negli anni ’80, quando i villaggi Ekuri si unirono per opporsi alla proposta di disboscamento commerciale della foresta stessa. Il progetto includeva la costruzione di una strada che avrebbe collegato i villaggi ai mercati locali: ma gli Ekuri decisero per un’amministrazione della foresta ecosostenibile e comunitaria, generando reddito, materiali di sussistenza e cibo senza tagliare un solo albero. I guadagni prodotti in questo modo finanziarono comunque la strada di cui la comunità aveva bisogno per raggiungere i mercati, resero possibile la costruzione di due scuole, di una clinica sanitaria e di un centro civico ove gli Ekuri si radunano per prendere decisioni su quella che è l’ultima foresta pluviale ancora esistente in Nigeria. Attualmente, la comunità si trova di fronte a una nuova minaccia: la costruzione di una superstrada che distruggerebbe gran parte del lavoro fatto sino ad ora.

Una delle organizzatrici chiave della resistenza, da più di vent’anni, è Caroline Olory (in immagine qui sotto):

caroline

“Quando vennero a dirci “disboscheremo, ma vi faremo la strada, vi daremo acqua eccetera”, noi abbiamo riflettuto: se maneggiamo la foresta in modo ecosostenibile, essa diverrà la nostra economia. Abbiamo capito che se lavoriamo insieme per mantenere le nostre risorse possiamo farcela e le strade le abbiamo create da soli: se le percorrete, vedrete ponti costruiti dalle persone che abitano in quella zona e che hanno raccolto personalmente materiali naturali. Perciò è con la creatività e la generosità dei membri della comunità che amministriamo la foresta.

La cosa più importante in queste situazioni è trovare il modo di coinvolgere tutti, di modo che l’idea sia replicata anche altrove. Quando non coinvolgi tutti, entra il sospetto. Ogni persona deve sentirsi in posizione decisionale e condividere i benefici. In questo modo, è sostenibile. La chiave è l’essere insieme in modo trasparente. Controlli e bilanciamenti sono stati messi in opera da quella che oggi si chiama “Iniziativa Ekuri”.

La nuova proposta della superstrada ha portato ben 187 comunità a lottare contro il governo, perché non intendono farla passare nelle loro aree. Stanno dicendo: “No, non vogliamo la superstrada perché distruggere un’intera foresta non si chiama sviluppo.” Le comunità sanno ormai bene che conservare la foresta va a loro guadagno. Volete fare una nuova splendida superstrada? Non è in bilanciamento con la conservazione della foresta e non la vogliamo. Se volete fare una strada, facciamola in modo che sia amica dell’ambiente.” Maria G. Di Rienzo

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Gli uomini armati arrivano al tramonto, circondano la casa in cui si trova un’anziana suora cattolica. E’ deciso: Leonora Brunetto che da decenni difende i poveri, i senzaterra, i lavoratori, che da decenni blocca con il corpo e le parole i ladri della terra amazzonica, deve morire. Deve finire nell’elenco dei 1.200 difensori della foresta pluviale (attivisti, contadini, giudici) che sono stati assassinati dall’omicidio di Chico Mendes in poi (1988). Ma prima che possano portarla fuori e ucciderla, arriva un camion pieno di povera gente, che si mette tra Leonora e i sicari. Questi ultimi arretrano, non sanno se devono sparare su tutta quella folla, esitano, se ne vanno.

Da quando questo accadde, tre anni fa, Leonora Brunetto è raramente fuori di vista delle sue “guardie disarmate”. La vanno a prendere alla stazione degli autobus, la riportano a casa, da un lavoratore rurale a un altro, da un ufficio federale a un villaggio, per tutto il Mato Grosso. Leonora segue i casi dei piccoli agricoltori che lottano per la terra. Aiuta gli analfabeti a scrivere le loro denunce e richieste. Incontra i funzionari pubblici in nome loro.

L’episodio del 2007 è solo uno degli incontri ravvicinati con la morte di questa donna di 64 anni, che misura un metro e mezzo d’altezza e pesa forse cinquanta chili. Ma mentre si muove fra i dimostranti che campeggiano su terre sterili, sollevando i loro spiriti, sembra una splendida, altissima, solida montagna. Pazientemente ascolta tutti, abbraccia tutti, risponde, discute.

Il Mato Grosso (giungla fitta, in portoghese) era un tempo una foresta pluviale, ma oggi è fatto per lo più di piantagioni di soia e di allevamenti di bestiame. Gli allevatori e i proprietari terrieri che governano la regione vivono bene: possono impiegare legioni di contadini privi di terra pagando quasi nulla. Questi lavoratori vivono in baracche fatte di rifiuti, senza elettricità o acqua corrente. “Pochi con troppo, troppi con così poco.”, commenta Suor Leonora, “Come si può restare a braccia conserte di fronte a tanta ingiustizia? Io non posso.”

“Sorella Leonora lotta per il popolo.”, dice Linda Maria de Jesus, 59enne accampata in una delle baracche, sull’orlo delle lacrime, “Viene minacciata di continuo, deve difendere la sua vita come noi. Ogni volta che la vediamo, in noi la speranza rinasce.”

“Un tempo avevo la protezione della polizia militare,” spiega Leonora Brunetto, “ma vi ho rinunciato presto. Ho così tanti amici minacciati di morte, che non hanno protezione alcuna. Come posso far da guida a questa gente se io sono protetta e loro no? E comunque, sono proprio loro a curarsi al meglio di me.”

Il Brasile sta tentando di portare un briciolo di legge in questa terra di abusi sull’umanità e sull’ambiente: l’uso di uno speciale corpo di polizia ambientale ha fatto registrare nel 2009 un notevole abbassamento del livello di deforestazione. Resta da vedere se il governo centrale riuscirà ad essere efficace nel proteggere coloro che proteggono la foresta.

“Mentirei se dicessi che non ho paura.”, sorride Leonora, “ Mi guardo dietro le spalle di continuo. Ma allo stesso tempo ho fiducia. Le mie garanzie di sicurezza sono Dio e questa gente.”

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