“… voi vantate il glorioso titolo di riformatori dello stato, un titolo che si volgerà a vostra eterna infamia se, senza il minimo riguardo per le leggi di equità, persisterete nel vostro perverso proposito di saccheggiare le vite e le finanze di coloro (le donne) che non vi hanno dato alcuna giusta causa d’offesa.” Ortensia al Triumvirato romano, 42 A.C.
Nell’anno succitato, si tentò in Roma di imporre una tassazione speciale a 1.400 donne benestanti: lo scopo era coprire spese militari. Falliti i tentativi di mediazione (le donne si rivolsero dapprima ad altre donne che erano in relazione con i legislatori), si arrivò in giudizio nel Foro: ove non era permesso alle donne di discutere le proprie cause, ma visto che “nessun uomo aveva osato assumere il loro patrocinio” – come ricorda Appiano di Alessandria (Guerre civili, 4, 32-34) – fu la patrizia Ortensia a rappresentare le altre. Le guerre avevano reso la maggior parte di loro vedove e orfane di padre e prive di fratelli, non avevano quindi più parenti maschi abilitati a parlare per loro di fronte alla legge (“sui iuris”): messe in ginocchio anche finanziariamente non avrebbero più avuto modo di tutelare se stesse e sopravvivere.
In breve, Ortensia ebbe successo: i triumviri accolsero parzialmente le sue richieste, ridussero il numero delle soggette a tributo a 400 e coprirono la restante parte del fabbisogno con una nuova tassa sui grandi patrimoni. Del suo discorso è citata di solito questa parte: “Perché mai le donne dovrebbero pagare le tasse, visto che sono escluse dalla magistratura, dai pubblici uffici, dal comando e dalla res publica?”, ma io ho scelto quella che apre il pezzo perché sembra parlare direttamente ai legislatori attuali.
Quel che è stato fatto dal governo italiano in questi giorni, tagliare la sanità pubblica con pretesti ridicoli (i medici che per mettersi a riparo da eventuali vertenze giudiziarie prescriverebbero analisi e controlli troppo “facilmente”) e contemporaneamente depenalizzare segmenti di evasione fiscale è meritevole di “eterna infamia”.
Le attuali politiche economiche italiane sono pura e semplice violenza di stato perché mantengono una considerevole fetta di popolazione (individui e gruppi) a livello di perenne sofferenza economica, mentre promuovono e sostengono sperperi e eccessi e persino comportamenti criminali – l’evasione fiscale – di un ristretto gruppo di privilegiati.
I salariati pagano già la sanità pubblica due volte: con le tasse che non possono evadere e con i ticket. I poveri – come è accaduto il mese scorso alla mia famiglia – vanno in fibrillazione per un ticket di 46 euro su test allergologici. Poi siamo costretti a pagare anche la sanità privata, a cui ci rivolgiamo perché a forza di tagliare, ridurre, “riformare” la sanità pubblica quest’ultima è in uno stato pietoso per efficacia, competenza e tempistica.
Ogni volta in cui ululiamo allo scandalo perché nel reparto lungodegenti gli infermieri maltrattano i pazienti, rubano dai loro cassetti e si fanno le foto con i cadaveri, ci chiediamo se sia stato sensato appaltare la cura dei malati ad una società esterna? Quando lavoravo per l’amministrazione pubblica ho dovuto imparare questa scomodissima verità sugli appalti e cioè che i criteri per vincerli erano due: la conoscenza dell’assessore di turno e presentare il prezzo più basso. Il prezzo più basso si ottiene impiegando personale sottopagato e incompetente. Personale sottopagato e incompetente dà i risultati di cui sopra.
Chi si fa carico delle cure per anziani, disabili, bambini ecc. che i tagli rendono troppo costose e quindi impossibili da ottenere tramite istituti pubblici e privati? Le donne. Le donne utilizzate dal nostro governo come airbags, affinché assorbano a proprio danno ogni crisi economica – che non hanno contribuito a creare: nei pubblici uffici, nel comando e nella res publica, in Italia, non solo sono pochissime, ma la maggioranza di esse è arrivata alla carica per benemerenze “ladylike” o appartenenza di casta e non per passione politica o competenza professionale. Personale molto pagato, in questo caso, ma sempre incapace. Maria G. Di Rienzo