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Posts Tagged ‘etica’

(tratto da: “People Aren’t Bad for the Planet—Capitalism Is”, di Izzie Ramirez per Bitch Media, 27 marzo 2020, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Izzie Ramirez – in immagine – è una reporter freelance e la caporedattrice di NYU Local.)

Izzie

C’è una brutta china nei commenti che giustificano i decessi umani per preservare l’ambiente. Come l’attivista per il clima Jamie Margolin ha spiegato in un tweet “Dire ‘I deboli moriranno ma va bene perché ciò aiuta il clima’ non è giustizia climatica. Questo è ecofascismo.” L’ecofascismo è definito da governi che esercitano il loro potere per la protezione dell’ambiente a costo delle vite individuali.

Nel loro articolo del 2019 “Overpopulation Discourse: Patriarchy, Racism, and the Specter of Ecofascism,” Jordan Dyett e Cassidy chiarirono come l’ecofascismo prese piede nel 19° e 20° secolo in Germania, dove “una serie di preoccupazioni ecologiche cominciarono ad interagire con la xenofobia, il nazionalismo e il razzismo presenti nella regione.”

All’epoca, le autorità fasciste tedesche erano solite giustificare determinate politiche di esclusione collegando l’ambiente alla salute. La retorica tipica includeva il controllo della popolazione, misure anti-sovrappopolazione e nozioni per cui i gruppi minoritari erano specie invasive che costituivano una minaccia all’ambiente stesso. Questa è ideologia comune ai suprematisti bianchi, in particolare, e a quelli che commettono omicidi di massa. Per esempio, l’assassino responsabile degli omicidi di un gran numero di persone a El Paso, Texas, nel 2019 citò la degradazione ambientale come una delle sue ragioni. “Se riusciamo a sbarazzarci di abbastanza gente, allora il nostro stile di vita diventerà più sostenibile”, scrisse nel suo manifesto.

Nel contesto odierno, comunque, persone comuni stanno argomentando che il Covid-19 sarebbe il vaccino della Terra contro gli esseri umani mentre il virus sta gettando il mondo nello scompiglio e sta uccidendo migliaia di persone, molte delle quali appartengono alla classe lavoratrice, non hanno accesso alla sanità e sono costrette a continuare a lavorare perché sono considerate forza lavoro essenziale. Per come le cose stanno ora, l’ecofascismo – visto attraverso tali conversazioni sui social media – sta asserendo che la gente povera, la gente disabile e la gente anziana dovrebbero sacrificarsi per far vivere il resto di noi. Ciò non è solo moralmente riprovevole ma è l’incomprensione del problema più vasto: il coronavirus non è un “detox” per la Terra, è una perturbazione dei sistemi che potenziano il capitalismo.

Persino chi cerca di sfidare il capitalismo è forzato a vivere al suo interno, giacché dobbiamo sopravvivere in un’economia capitalista concentrata sul beneficio immediato anziché sulle conseguenze future. Perciò le persone salgono in autobus per andare ai loro impieghi salariati, montano in auto per andare in fabbrica e condividono veicoli per far quadrare i conti. Queste persone non hanno molte alternative economiche, perché hanno bocche da sfamare e bollette da pagare. La loro adesione per sopravvivenza al capitalismo non li rende egoisti o sacrificabili. In effetti, se voi siete preoccupati per il cambiamento climatico, queste sono le esatte persone per cui dovreste preoccuparvi.

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“Insulti sessisti in consiglio comunale: è la denuncia postata su Facebook da Francesca Sodero, consigliera comunale di minoranza del M5S a Tricase, nel Leccese. L’esponente pentastellata racconta che nel corso dell’ultima riunione di consiglio comunale, lo scorso 19 dicembre, un consigliere di maggioranza l’avrebbe invitata a «trombare più spesso». Un’offesa, aggiunge la donna, lanciata alla presenza di tutta l’assise e di cittadini.”

Questo è più o meno l’occhiello dei giornali (pochi) che riportano la notizia. I brani seguenti sono tratti dal post originale della consigliera, le frasi in corsivo sono mie:

“Se una donna esprime idee con forza e durezza ed in generale si dimostra rigorosa ed intransigente su alcuni valori e principi, è facile che le tocchi scontrarsi con uno dei (purtroppo) numerosi esponenti di uno strisciante maschilismo di cui ahi noi – ahinoi, controllate pure sul dizionario – sono infestate anche la politica e le Istituzioni.

A questi personaggetti proprio non scende – prego? – che una donna non risponda a certi canoni (dolcezza, fragilità, rassegnazione, remissività) che consentono loro di sentirsi machi e superiori, e quando ne incontrano una che non le manda a dire, arrivano a concludere che “dovrebbe trombare più spesso”. (…) Dirò che al di là del sessismo insito in queste basse esternazioni, c’è un dato preoccupante che non deve passare inosservato. La durezza, il rigore, la forza con la quale si difendono certi valori, anche in politica, è sintomo di tensione morale e prova di una coscienza non sopita dinanzi a malefatte e falsità. Ad una madre che rimprovera un figlio non si direbbe mai che “dovrebbe trombare più spesso”! Perciò, cari signori maschilisti, se non vi scende – I beg your pardon? – che le donne spesso portano nella vita politica ed istituzionale questa tensione morale, ve ne dovrete fare sempre di più una ragione!” Chiude il testo un’immagine tratta da “Frasimania”: Ogni volta che una donna lotta per se stessa, lotta per tutte le donne – Maya Angelou.

Vi state chiedendo se ha la mia solidarietà? Sì, il disprezzo e l’irrisione di cui è intriso lo stupidissimo rimarco che ha subito sono innegabili e irricevibili. Il problema principale è che io (e non solo io) non ho la sua, quello secondario è che gli abusi ai danni della lingua italiana non mi lasciano indifferente.

Francesca Sodero è laureata – ignoro in cosa, ma presumo non in Lettere. Il punto principale del ragionamento che espone su FB è questo: le aggressioni nei suoi confronti sono motivate dal rigore con cui ella difende valori e principi (sarebbe utile specificare quali essi siano); inoltre, tale atteggiamento richiama quello di una madre che riprende il figlio: pertanto è espressione di tensione morale posta ad un livello superiore che mai potrebbe essere attaccato allo stesso modo – e qui Sodero si sbaglia, sia perché di madri a cui sono rivolte le medesime esortazioni sessiste ce n’è una marea, sia perché essere madre non ti fornisce automaticamente “una coscienza non sopita” e infatti c’è un’altra marea di donne con figli che l’etica non sanno cosa sia.

Sodero suggerisce con il suo finale di star lottando “per tutte le donne”, però ciò costringe a chiedersi che ci faccia nel M5S, il quale per rispetto delle donne non ha mai brillato. La consigliera ricorda il “Cosa faresti in macchina con la Boldrini” del fondatore del suo partito? Nota gli insulti sessisti volgarissimi rivolti continuamente alle avversarie politiche dallo stesso, da sodali e commentatori? Non occorre rispondere “a certi canoni”, come Sodero pensa, per ricevere secchiate di immondizia machista in faccia: succede anche a quelle dolci, fragili, rassegnate e remissive, perché non è il loro atteggiamento a innescare le aggressioni ma ciò che loro sono, donne.

Donne e quindi inferiori, intrinsecamente perfide e inaffidabili, stupide, incapaci, mero materiale da scopata. Essere madri le nobilita solo nei presepi, la cronaca è questa:

28 dicembre 2019: “Dovrei farti mangiare nella ciotola del gatto. I carabinieri arrestano il marito-padrone a L’Aquila – Il figlio minorenne gettato sopra il divano e preso a pugni, la moglie anche lei umiliata, vessata e picchiata (…) l’uomo fin dal 2014 avrebbe terrorizzato moglie e figlio. (…) «Ringrazia Dio che non ti faccio dormire nella cuccia del cane in garage e ti faccio mangiare seduta a tavola e non per terra nella ciotola del gatto, dovrei farti pulire i pavimenti con la lingua e leccare dove passo…».”

29 dicembre 2019: “Picchia la moglie davanti ai tre figli e le frattura le ossa del volto: arrestato. – L’uomo è stato bloccato nella sua abitazione dopo che aveva brutalmente malmenato la propria compagna, in presenza dei tre figli minori. Per motivi banali, l’uomo aveva colpito ripetutamente la donna, 29 anni, causandole fratture al volto ritenute guaribili in 30 giorni.”

A Francé, te scenne quarcosa?

Maria G. Di Rienzo

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Mary Crow Dog

“Credo che siano odiate al massimo le persone che pongono domande legittime. Perché queste vanno al cuore della nostra psiche. Noi sappiamo che dette persone hanno ragione e perciò, se possiamo, dobbiamo distruggerle. Molta gente è davvero spaventata dal fatto che le richieste sono moralmente giuste, perché quando confronti un imperativo morale con uno immorale dalla tua parte, devi odiare le persone che dichiarano quell’imperativo morale. Li odiamo perché le loro affermazioni sono totalmente giustificate – e noi lo sappiamo.”

Mary Crow Dog, scrittrice e attivista Lakota (1954 – 2013) – trad. MG DR

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Onorevoli membri della Commissione Giustizia del Senato, oggi 9 aprile a partire dalle ore 14.00 discuterete in seduta plenaria di diversi argomenti, fra cui le proposte del senatore leghista Pillon in materia di affido condiviso.

La rivolta di ampi settori della società civile contro queste ultime vi è di certo nota ed è stata dettagliata sotto il punto di vista giuridico e tecnico non meno che sotto il punto di vista ideale, ove l’idea di famiglia prospettata richiama disagevoli associazioni con una struttura di comando e controllo (tipo una caserma con un marito-padre colonnello, una moglie-madre attendente e dei figli soldatini). A noi contestatori / contestatrici preoccupa anche il conflitto di interessi riguardante il senatore, giacché un disegno di legge che prevede la mediazione familiare a pagamento e la relativa offerta presentata dallo studio legale di chi quella medesima legge presenta, insieme suonano davvero male.

Fra poche ore, il senatore Pillon vi esporrà la sua relazione e voi avrete di fronte lo stesso uomo che in questi giorni siede sul banco degli imputati in un processo per omofobia; se la vicenda non vi fosse nota, sottolineo innanzitutto che non si tratta di un processo alle sue opinioni, ma del fatto che ha orchestrato una vera e propria campagna diffamatoria dell’associazione Lgbt “Omphalos”, affiliata Arcigay, con tanto di manipolazione del loro materiale informativo (volantini “taroccati”, per stare sul colloquiale).

In una serie di performance pubbliche in tutta Italia, questo individuo ha anche ripetuto che “quelli di Arcigay vanno nei licei e spiegano ai vostri figli che per fare l’amore bisogna essere o due maschi o due femmine e non si può fare diversamente e… venite a provare da noi, nel nostro welcome group”. Cioè, ha scientemente trasformato l’opera di sensibilizzazione contro il bullismo omofobo e di informazione sulle malattie a trasmissione sessuale in una squallida manovra per adescare minorenni.

So che in aula il sig. Pillon si è giustificato dichiarando che la campagna diffamatoria era solo “ironia sferzante”, paragonando la stessa alla “satira dei libri di Guareschi”. Giovannino Guareschi, celebrato creatore di Don Camillo e Peppone, dichiaratamente uomo di destra per quanto rigettasse il nazifascismo, si trovò in effetti a doversi difendere in tribunale da un’accusa di diffamazione a mezzo stampa (per la quale fu poi condannato e scontò più di un anno di galera). Aveva pubblicato nel 1954 due lettere in cui apparentemente De Gasperi, durante la II guerra mondiale, esortava gli alleati a effettuare bombardamenti. Guareschi le credette vere, ma le analisi storiche hanno comprovato che si trattava di due falsi prodotti dal neofascista De Toma, che fuggì all’estero a processo concluso.

Guareschi non aveva manipolato personalmente le due lettere. Pillon ha personalmente manipolato il materiale dell’associazione diffamata.

Guareschi aveva buoni motivi per lamentarsi del comportamento del collegio giudicante e si considerò condannato ingiustamente: tuttavia, per questione di principio, non presentò appello ne’ successivamente chiese la grazia. Era, nel senso relativo alla sua epoca, un “galantuomo”. Temo, Onorevoli membri della Commissione Giustizia del Senato, che a tal proposito il senatore Pillon si stia gloriando di un paragone insostenibile.

E’ impossibile accettare che una persona del genere abbia titolo per “riformare” il diritto di famiglia, poiché carente sia a livello di competenze (è evidente che ignora il reale status delle famiglie italiane) sia, come risulta da quanto esposto sopra, a livello etico. Prima di prendere qualsiasi decisione, dovreste necessariamente riflettere su ciò.

Maria G. Di Rienzo

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“Tolerance has taken over feminism, and it threatens to destroy the movement”, di May Mundt-Leach per Feminist Current, 30 marzo 2018, trad. Maria G. Di Rienzo. May Mundt-Leach è una studente universitaria inglese e membro dell’organizzazione femminista Kvinnorum.)

“Siamo diventate riluttanti a essere etichettate come quelle che fanno crociate morali in un’era in cui il potenziale umano è degenerato al “farsi i fatti propri”. Siamo condizionate a produrre blande osservazioni e battute ciniche in risposta a oscenità su scala nazionale e perversità di magnitudo universale. Siamo anestetizzate al punto da trovare normali crudeltà e disperazione.” – Hilde Hein, 1982

Nel suo libro del 1986 “A Passion for Friends: Towards a Philosophy of Female Affection”, Janice Raymond fa riferimento al lavoro di Hilde Hein per descrivere un curioso fenomeno che si introduceva in parti del movimento delle donne durante quel periodo. “La tirannia della tolleranza – argomenta – dissuade le donne dal pensare in modo risoluto, dalla responsabilità del dissentire da altri e dalla volontà di agire. Peggio ancora, permette a principi oppressivi di affiorare senza essere confutati.”

L’osservazione di Raymond è piena di un discernimento che può (più facilmente di quanto dovrebbe) essere applicato al femminismo oggi. Il dominio totalitario del patriarcato ha forzato una clausola particolarmente nociva per le giovani donne: nessun giudizio di valore dev’essere espresso su qualcosa o qualcuno. I principi morali sono per i puritani e l’intervento critico è ritenuto “escludente” di vari gruppi o individui. Il termine “patriarcato” è gettato da una parte all’altra come se si trattasse di niente di più di uno strano oggetto che occasionalmente casca dal cielo, menzionato costantemente di passaggio ma a cui non si dà mai la profondità di analisi che esso richiede.

La parola “tolleranza” deriva dal Latino “tolerare” che significa “sorreggere, subire, patire” e, abbastanza letteralmente, “sopportare”. Nel patriarcato, le donne sono state preparate a un perpetuo stato di tolleranza. La tolleranza dei costumi, culture, comportamenti e sessualità maschili è stata storicamente forzata sulle donne dalle leggi di dei maschi, stati maschi e parenti maschi.

Dalla maniacale “caccia alle streghe”, dove centinaia di migliaia di donne furono pubblicamente torturate e uccise per aver rigettato l’autorità della chiesa, alle forme spesso brutali di anti-lesbismo dirette verso donne che scelgono di avere relazioni con altre donne anziché con uomini, la persecuzione sembra inevitabile per le donne che rifiutano di essere tolleranti del dominio maschile.

Oggi, l’addestramento alla tolleranza comincia presto – alle bambine si insegna a sopportare i bambini che le umiliano nel parco giochi, a far finta di non vedere la pornografia online, a chiudere le orecchie alla misoginia che sentono tutt’intorno.

Raymond descrive la tolleranza come una posizione passiva. Crea non-azione, apatia e una minore sensibilità alle ingiustizie commesse dagli uomini ai danni delle donne. In altre parole, condizionare donne e bambine a essere “tolleranti” non è involontario. Non è completamente sorprendente, quindi, che le donne – in particolare le giovani donne – siano riluttanti a formare il proprio senso di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; a distinguere quali valori possono essere considerati femministi e quali no; e all’articolare quel che deve cambiare se le donne vogliono essere infine libere dalla dominazione maschile.

Questa tirannia della tolleranza è più evidente in quello a cui oggi ci si riferisce come “femminismo intersezionale” e prevale in molte università occidentali. L’uso improprio della teoria originaria di Crenshaw – https://www.youtube.com/watch?v=uPtz8TiATJY – significa che questo tipo di “femminismo” riflette più da vicino un certo tipo di individualismo liberale, il quale aderisce al dogma maschile sotto le spoglie del progressismo e della giustizia sociale. Non è una coincidenza che le scelte inquadrate da questa ideologia come “femministe” rappresentino, sino all’ultimo tratto di mascara, gli attrezzi usati dagli uomini per colonizzare le donne.

La prostituzione, ora denominata “lavoro sessuale” da molti studenti, attivisti e accademici ambosessi, è presentata in tono di sfida in questa cornice come il risultato di una scelta personale e “potenziante” di una donna, nonostante la realtà della maggioranza delle donne nella prostituzione che là si trovano per mancanza di scelte.

L’industria multimiliardaria della pornografia registra e distribuisce atti sadici di misoginia, così come di pedofilia, omofobia e razzismo, a milioni di uomini e ragazzi in tutto il mondo – pure, usando il travestimento della “sex-positivity”, tali promozioni dell’abuso sono date a bere da qualcuno come “femministe”, mentre le donne che criticano l’industria sono marchiate come “anti-sesso” o “puttanofobiche”. E’ chiaro che per poter essere accettate in questa nuova gang “femminista”, una deve tollerare tutti i sistemi in cui le donne possono (ipoteticamente) mostrare scelte, a prescindere dagli scopi programmati dal sistema in questione.

La promozione in alcuni circoli femministi contemporanei di ciò che Raymond descrive come “libertà di valori” – o, come dice Hein, il “farsi i fatti propri” – rende in pratica impossibile definire una serie di valori collettivi o di asserire scopi condivisi a causa del desiderio di apparire sensibili e “rispettose” dell’opinione di ogni donna nel gruppo. Mantenere il rispetto verso le altre donne è ovviamente importante, pure di sicuro ciò non dovrebbe avvenire al costo di essere completamente incapaci di esprimere disaccordo su un particolare punto di vista o su una posizione politica. In più, nel mentre può essere relativamente facile opporsi a principi che sono patriarcali in modo ovvio, la difficoltà sta nel parlare contro quelli che sono più nascosti.

Secondo la vulgata popolare del “femminismo intersezionale”, alle donne viene detto che hanno peccato poiché possiedono il privilegio “cisgender”, il che posiziona l’essere nate donne e il continuare a chiamare se stesse donne come una posizione privilegiata in cui stare. Il punto cruciale è che delle donne in possesso del “privilegio cisgender” si dice abbiano la capacità di opprimere i maschi, se questi maschi hanno deciso che preferiscono non essere identificati come tali.

L’immagine idealizzata della femminista “inclusiva verso i trans” nella politica identitaria occidentale è diventata un segnale per vedere se una donna è veramente dispiaciuta dell’avere un corpo femminile – abbastanza apologetica da renderlo insignificante e, nonostante i suoi storici sfruttamento, oggettivazione e dominio da parte degli uomini, da arrivare a vederlo invece come un’insegna di privilegio. Essere una femminista tollerante oggi è pentirsi pubblicamente e senza posa dei propri supposti peccati: il maggiore dei quali, secondo alcuni, è l’essere in possesso di un corpo femminile.

L’anno scorso, 136 donne sono state uccise da uomini nel Regno Unito. Di media, una donna è stata uccisa ogni 2,6 giorni. In India, dove la pratica dell’infanticidio femminile è particolarmente comune, la popolazione infantile di sesso femminile nella fascia d’età fra 0 e 6 anni è diminuita dai 79 milioni del 2001 ai 75 milioni del 2011. Il mese scorso, la Danimarca ha aperto il suo primo bordello con bambole gonfiabili. Si pubblicizza come “il posto in cui tutti i gentiluomini sono i benvenuti e dove le ragazze non dicono di no”. Solo in Inghilterra e Galles 85.000 donne sono stuprate ogni anno. Ciò significa che oggi, di media, 10 donne saranno stuprate ogni ora.

Le donne devono riconsiderare cosa tollerano e cosa no. Sebbene le donne intolleranti siano etichettate come “quelle che escludono”, “fobiche” o “odiatrici”, gli uomini hanno ormai oppresso sistematicamente le donne per secoli eppure restano tollerati dalla maggioranza di noi. Come donne, dobbiamo cominciare a formare ciò che Andrea Dworkin chiama “un’intelligenza morale” – una capacità di costruire il nostro proprio sistema etico e di valori centrato sulle donne. Guardando indietro alla scia di violenza, colonizzazione e morte lasciata alle spalle dagli uomini in tutto il mondo, non c’è ragione per cui le donne debbano essere tolleranti del dogma patriarcale, qualsiasi sia la forma che esso prende.

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“Diritto e scienza”: le allieve che partecipavano a questo corso tenuto da un giudice del Consiglio di Stato (in tre scuole a Milano, Roma e Bari), dovevano farlo adeguatamente truccate, in minigonna e tacchi a spillo; alcune dovevano mandare autoscatti pornografici all’insegnante e andarci a letto – ma erano consenzienti, si capisce, soprattutto quelle a cui poteva essere revocata la borsa di studio in qualsiasi momento, beneficio peraltro negato a priori alle fidanzate e alle sposate: dal momento che “diritto e scienza” si concretizzavano nella soddisfazione del dominio del docente sulle allieve è ovvio che altri uomini nello scenario sarebbero stati di troppo.

Il giudice Francesco Bellomo sostiene di essere un genio incompreso “come Einstein”, alle cui “idee” si vuole applicare un “giudizio morale”. Umile e discreto com’è neppure voleva diffonderle, queste innovative e vincenti idee (infatti, dicono i giornali, “Otto giovani borsiste milanesi hanno anche parlato di un contratto in cui si garantiva ‘fedeltà assoluta’ alla scuola, evitando di raccontare dettagli privati”) ma gli è capitato…

Gli è capitato che una delle sue vittime ha sporto denuncia per le vessazioni, gli abusi e le minacce. Questa è la testimonianza del padre della giovane: “Mia figlia sta cercando di tornare a una vita normale. Ora sta meglio ma questa odissea le ha distrutto la vita. Ha ripreso a mangiare e a studiare, ma è ancora in cura dagli psicologi. (la figlia) “è stata sotto ricatto per troppo tempo attraverso il contratto che come borsista doveva firmare per mantenere la borsa di studio.”

Il docente-martire, invece di dichiarare indomito “eppur si muove!” indicandosi l’area appropriata, ha cercato ripetutamente la conciliazione: “I carabinieri sono venuti più volte, – racconta ancora il padre della donna – chiedevano a mia figlia di firmare un atto di conciliazione. Sono venuti a maggio, e poi a ottobre, ma lei era in ospedale.”

Perché l’oggettivazione sessuale fa sempre bene alle femmine, è una libera scelta e un veicolo per idee davvero geniali – tipo il ridurre le donne a meri strumenti per la soddisfazione maschile – solo che non sono nuove, ma vecchie e stantie come il patriarcato. Il giudizio su questo non è “moralismo”, signor giudice, è etica.

Maria G. Di Rienzo

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Sole, spiagge, mare, villaggi vacanze, lune di miele: è l’immagine usuale della Repubblica Dominicana, che conosciamo quasi esclusivamente per il turismo. In questa nazione isolana con circa dieci milioni di abitanti, in cui una persona su tre vive in povertà, ogni due giorni una donna muore per mano di un partner, di un fidanzato o di un marito (più di 1.000 negli ultimi cinque anni) e solo nel 2010 sono stati denunciati oltre 62.000 casi di aggressioni e violenze contro donne e ragazze – dallo stupro di minorenni agli accoltellamenti con machete, questi ultimi un aspetto specifico dell’abuso domestico locale – ma solo il 4% delle denunce sono approdate ad un tribunale. Considerato che un gran numero di casi non sono riportati alla polizia, la stima reale della situazione è difficile da fare. Spesso le donne ritirano le loro denunce, a causa delle minacce dei loro aggressori o della frustrazione che provano nel non vedere, per il loro caso, avanzamenti significativi verso la giustizia. Giudici e forze dell’ordine, infatti, condividono in maggioranza tutti i pregiudizi e gli stereotipi più devastanti sulla violenza contro le donne, nonostante il paese abbia una legislazione nazionale contro la violenza di genere e riconosca la legislazione internazionale sui diritti umani.

A favorire questo stato di cose c’è una combinazione di machismo, ingerenze della chiesa cattolica e politiche conservatrici (per essere gentili, ma forse sarebbe il caso di cominciare a chiamarle invece “oppressive”, “retrograde” e “disumane”, il che illustrerebbe meglio la situazione). La Vice Procuratrice Generale di Santo Domingo, Roxanna Reyes Acosta, dice che le donne decise a denunciare le violenze sono costrette a fronteggiare una molteplicità di ostacoli dapprima nella famiglia e nella comunità e poi quando entrano in contatto con la polizia ed il sistema giudiziario: “Ad ogni livello di scontro sono obbligate a fare un passo indietro e ricadono nel ciclo della violenza, se sopravvivono. In media, ci vogliono cinque anni ad una vittima di violenza domestica per riconoscere di essere tale e fino a quindici per uscirne.” Roxanna sta andando contro questo andazzo a testa bassa, giacché è la donna con la carica più alta al governo, ma il minor tasso di ascolto lo ha proprio dai suoi colleghi nell’esecutivo: “La maggioranza dei leader politici sono maschi. Usualmente non vogliono guardare le cose dal punto di vista delle donne. Questo sistema ha bisogno di essere rivoluzionato.”

Non sarà mai troppo presto per Altagracia, 24enne, che ogni giorno ha la tentazione di togliersi la vita. Solo il pensiero di lasciare il suo bambino la trattiene. Ogni volta in cui si guarda allo specchio vede un ammasso di cicatrici sul volto e sul petto. Il suo ex partner era deciso a finirla a colpi di machete: Altagracia fu da lui creduta morta perché era priva di sensi e sanguinava copiosamente, e così si salvò. Il suo aggressore è a piede libero.

Non sarà troppo presto per Lourdes, 60enne, che ha sofferto ventitré anni di abusi prima di riuscire a separarsi dal marito: “E’ comune picchiare le donne, gli uomini si sentono perfettamente a posto, nel solco delle tradizioni. Ma io non avevo altra scelta, se volevo continuare a vivere. Mi attaccava con il machete, ed ha quasi tagliato la gola a nostra figlia.”

Ne’ sarà troppo presto per “Esperancita”. La ragazza conosciuta con questo nome ha 16 anni e rischia di morire di cancro (leucemia acuta) perché le è stato proibito per parecchie settimane di sottoporsi alle terapie del caso: Esperancita è incinta di due mesi e mezzo, e la chemioterapia molto probabilmente porrà termine alla sua gravidanza. Esperancita non può abortire legalmente: a seguito di un cambiamento costituzionale del 2010 nella Repubblica Dominicana l’interruzione di gravidanza è proibita in qualsiasi circostanza, anche quando la vita della madre è in pericolo.

La ginecologa Lilliam Fondeur che ha sollevato il caso dalle pagine del quotidiano El Nacional, le femministe dominicane che hanno protestato pubblicamente con ogni mezzo, e la madre della ragazzina, che ha implorato sulle ginocchia il Ministero della Sanità, nonché l’enorme pressione dell’opinione pubblica, hanno ottenuto da martedì scorso l’inizio delle cure per Esperancita.

Lilliam Fondeur ha ancora delle riserve: “L’ospedale dice di aver iniziato il trattamento, ma non è chiaro cosa sia accaduto prima. I fatti relativi al caso sono stati velocemente coperti. Per cui è bene vigilare. Speriamo che questa storia serva come simbolo, a dimostrare che la vita della madre deve sempre venire per prima. Per il momento è il simbolo del quotidiano delle donne povere, che non possono comprarsi gli aborti, mentre le ricche vanno negli Stati Uniti.”

Gioverà ricordare che nei paesi in cui l’interruzione di gravidanza è totalmente proibita, il tasso di mortalità materna sale decisamente, perché i medici temono di provvedere trattamenti che salvino la vita della madre mettendo in pericolo la gravidanza, o ne sono addirittura impediti.

Potrei chiudere il pezzo qui, adesso che il fondale del ridente villaggio turistico è andato in pezzi, ma c’è un ragazzo di 17 anni, Orvis, che merita una menzione. Orvis, che è membro di un’ong per i diritti dei bambini (Plan International), se ne va di gruppo in gruppo e di casa in casa ovunque fiuti la violenza domestica. Non so come vada a scuola – non ho osato chiederlo – perché ogni ora libera dalle lezioni la passa così, facendo attivismo nella provincia dominicana di Barahona.

Nel mio villaggio c’era questo tipo che batteva continuamente la moglie con un bastone.”, racconta Orvis, “Lui pensava fosse suo diritto il farlo, e così ogni altro uomo del villaggio. Io gli ho detto che stava commettendo un crimine e che poteva finire in prigione. C’è voluta un po’ di fatica, e alcune visite, ma finalmente ha smesso. La violenza ha conseguenze devastanti e traumatiche per le donne che la subiscono e per i loro bambini, anche quando questi ultimi la testimoniano solamente. Un contesto in cui la violenza diventa normale ed usuale può innescare un ciclo violento senza fine.”

Non è bello ascoltare qualcuno che ha le idee chiare, una volta tanto? Maria G. Di Rienzo.

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Mie care lettrici, qualcuna di voi conoscerà già questa immagine. L’abitino è dell’anno scorso.

Si tratta del prodotto di un disegnatore di moda molto raffinato e creativo, che assicura di essersi ispirato a Mondrian e simili e non ha capito le reazioni delle donne alla sua pensata.

Lo straccio è tuttora in vendita online ma solo per le taglie 38-40-42, quindi se il vostro desiderio è assomigliare ad un urinale per uomini, e d’altronde come non potreste desiderare una cosa del genere essendo donne, cominciate a digiunare ora.

E cominciate anche a risparmiare, perché per indossare questa porcata dovrete spendere 2.026 euro.

Come ha detto Helen Killer: “Aspettate un momento. Questa cifra per farmi sembrare un gabinetto? Pensavo che mi avreste pagata voi per metterlo. Cielo, le cose sono proprio cambiate da quando andavo al liceo.”

Perché ve ne parlo ora? Perché di recente stanno spuntando come funghi (avvelenati) un sacco di esperti ed esperte sulla violenza contro le donne che sono diventati/e tali solo fiutando l’aria odorosa di cadaveri (il femminicidio italiano ammonta già a circa settanta vittime quest’anno, se non sbaglio). Ehi, i giornali ne parlano! Oh, fanno gli speciali in tv! Cavolo, aspetta che scrivo un manuale e ci guadagno un franco… Una di questi beoti ha avuto il coraggio di dire ieri in un’intervista che i media si starebbero davvero impegnando per mettere fine alla violenza di genere.

Certo, basta guardare qualsiasi programma televisivo farcito di veline, escort e serve mute, o la pagina precedente e quella seguente di qualsiasi servizio giornalistico sulla violenza di genere: sono talmente piene di signorine semi-famose perché semi-svestite, di pubblicità infami e di stronzate galattiche sulle donne da confortare immediatamente chi volesse credere che a qualcuno importi qualcosa di quelle che muoiono.

E a proposito di pubblicità infami: quello che segue è un parto geniale recentissimo, “l’attrazione finale”.

 

Non dovrei avere bisogno di dirlo ancora, ma:

1) l’oggettificazione sessuale è disumanizzante;

2) la disumanizzazione è il primo passo necessario alla legittimazione della violenza;

3) l’oggettificazione sessuale e la disumanizzazione sono interiorizzate dalle vittime e si esprimono come depressione, ossessione per l’aspetto, disfunzioni nell’alimentazione, crollo dell’autostima, eccetera;

4) l’esposizione continua ad immagini di donne oggettificate sessualmente crea tolleranza per le molestie sessuali e perpetua i miti relativi allo stupro; inoltre, fa sì che le donne ricevano più difficilmente simpatia e sostegno qualora siano vittime di violenza;

5) tutta questa immondizia vende agli esseri umani di sesso femminile, qualsiasi sia la loro età, una disgustosa bugia: che il loro valore risiede in quanto appetibili sono sessualmente, che la loro sessualità appartiene ad altri, che gli uomini sono intitolati a desiderare e le donne solo ad essere desiderate, che la donna “perfettamente sexy” è perfettamente subordinata.

Per fortuna ci sono sempre mie simili che mi tirano su di morale. La scritta appiccicata all’ultima immagine che vi propongo si riferisce ad un prodotto dietetico:

“Senti un po’, Signora Special-K. So che pensi che io dovrei mettermi a dieta per essere sottile come te. Ma il fatto è che penso di essere davvero favolosa proprio come sono. Inoltre, lo Special-K sa di cartone. Per cui, va’ al diavolo.” Maria G. Di Rienzo

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“Mettere al mondo la giustizia: donne che creano alternative economiche e sociali” è un rapporto curato da Other Worlds – http://www.otherworldsarepossible.org/birthing-justice-report – disponibile dal 6 aprile scorso.

Nell’invitare chiunque a scaricarlo dal sito o a richiedere una copia cartacea una delle curatrici, Beverly Bells, spiega come vengano presentati, tramite la narrazione in prima persona delle protagoniste, “dodici modelli alternativi sociali ed economici presenti negli Stati Uniti, in Asia, Africa, Europa, America Latina e Caraibi.” Quello che vi traduco di seguito riguarda il “Movimento dei lavoratori rurali senzaterra” (il cui acronimo portoghese è MST). Il Movimento ha risposto alla povertà ed alla miseria occupando decine di migliaia di acri di terra abbandonata o incolta, e creando su di essi circa 2.000 comunità che operano democraticamente su base cooperativa. Gli auto-governi delle comunità hanno stabilito i propri modelli di “giustizia riparatrice”, media, agricoltura ecologica, espressione culturale, relazioni sociali, istruzione. Ilda Martines de Souza, contadina 64enne Tupi-Guaraní, è oggi una delle leader del Movimento. Questa è la sua testimonianza:

I miei genitori persero il loro appezzamento di terra coltivabile negli anni ’60: il proprietario li espulse. Dopo di ciò, non avevamo un posto dove vivere. Io ero giovane, andai a São Paulo a tentare di guadagnare qualcosa, perché volevo comprare della terra per mio padre. Non ci sono mai riuscita; era molto difficile, lavorando, fare abbastanza soldi per comprare terreni.

Mi sono interessata alle lotte sociali molto presto, avevo 18 anni, e mi piaceva davvero. Divenni un’attivista per il Partito dei Lavoratori e più tardi anche i miei bambini divennero attivisti. Poi, entrai nel movimento per la casa dei senzatetto e di quelli che vivevano nelle favelas. Era molto gratificante: ogni famiglia che si riusciva a togliere dalla strada era una grande gioia.

Era un lavoro difficoltoso, perché lo facevamo durante la dittatura e non potevamo tenere assemblee. Parlavamo con le famiglie nelle mense sociali o nelle chiese. E abbiamo sofferto maltrattamenti a causa di ciò. Io sono stata cacciata fuori da tutte le case che ho affittato. Allora ne occupavo una abbandonata, assieme ad altri, ricominciavo ad organizzare la gente, e venivo buttata per strada di nuovo. Ma non ho mai permesso che questo mi scoraggiasse, non ho mai perso speranza. E nemmeno gli altri. Insieme, sapevamo che avremmo visto molte cose buone nel futuro.

I miei bimbi – allora erano cinque, successivamente ne ho adottato un sesto – erano piccoli. Lavoravo come metalmeccanica di notte per avere i soldi sufficienti a dar loro da mangiare. Li lasciavo addormentati e andavo in fabbrica. E il movimento per la giustizia cominciò a darmi forma, ad istruirmi, a farmi scoprire i miei veri valori, i valori di un essere umano, di una donna, di una madre. Perché una madre va diritta nel fuoco per liberare i suoi figli, ed io ho educato i miei bambini ad essere attivisti. E in questo periodo scoprimmo il bellissimo Movimento dei lavoratori rurali senzaterra (MST – www.mstbrazil.org./ ). Quando il movimento nacque a São Paulo mi diedero il compito di raccogliere cibo e vestiti e coperte e medicine che avremmo portato in campagna. Il gruppo era piccolo, all’epoca, ma stava già crescendo come un nido di formiche. Grazie all’MST realizzai il mio sogno di tornare a vivere a contatto con la terra. Nel 1988 arrivai quindi a Itapeva, e l’anno dopo fui parte di un’occupazione che chiedeva la ridistribuzione dei terreni: ero con i miei figli, fu un’esperienza meravigliosa.

Il mio sogno è vedere una vera riforma agraria, di modo che nessun bambino sia affamato, e nessuna madre debba versare lacrime perché suo figlio è stato ucciso mentre rubava un pezzo di pane. Il dolore di ogni madre è il mio dolore. Ogni bambino è figlio mio. Non ho solo sei figli, ne ho migliaia, ragazze e ragazzi, bambine e bambini. Quando una madre disperata mi dice che suo figlio è stato ammazzato nelle favelas io non posso solo stare a sentire, devo fare qualcosa. Il nostro agire è basato sui sogni di ogni individuo venuto in campagna per partecipare al movimento per la riforma agraria. “Che vita voglio in campagna?”, questa è la domanda che chiediamo alle persone di fare a se stesse. E così impariamo che vogliono una piccola casa, piantare coltivazioni diverse, avere un bel tavolo attorno a cui sedersi, avere abbastanza latte per i bambini, vedere i loro figli studiare e giocare. Lo impariamo lentamente, viaggiando attraverso le menti e i sogni di ogni essere umano che si unisce ai nostri insediamenti. Non imponiamo nulla a nessuno, scopriamo che sogni possiamo condividere con chiunque, li uniamo, e cominciamo a costruire il paradiso insieme. Vogliamo davvero costruirlo, questo paradiso, affinché i nostri figli e ogni persona che vive qui possa dire orgogliosamente: “Qui, noi non versiamo sangue. Qui, noi non facciamo guerre.”

La cosa bella che viene dalla conquista di questo pezzo di terra è che essa è stata presa da una sola mano e consegnata a migliaia di mani: è una rivoluzione. La terra diviene bene comune per tutti, e questa è una rivoluzione. Anche la produzione è rivoluzionata. I grandi proprietari terrieri usano la terra solo per allevare bestiame, ma ora noi su quella stessa terra produciamo cibo per l’intera popolazione. Abbiamo fatto la rivoluzione senza sparare un solo colpo, senza che nessuno dovesse morire per essa, senza versare una goccia di sangue. Non è necessario. Il nostro lavoro concerne anche l’essere onesti e giusti, ed il partecipare alla realtà politica locale. La partecipazione democratica di tutti è quello che ci serve per trasformare il crudele scenario in cui troppa gente vive in Brasile.

Una cosa che noi donne spesso non comprendiamo subito è quanta forza abbiamo. Le madri sono le stelle polari che guidano i bambini. Quando una madre acquista consapevolezza lavora e lotta con tutto il cuore per far sì che i suoi figli, e i loro amici, la accompagnino nel cammino verso l’arcobaleno che lei crea. Sono così orgogliosa di essere una donna, e di lottare con le donne, perché so che il futuro sta in questo. Se nasco altre dieci volte, e posso metterci bocca, voglio rinascere donna tutte le volte. La cosa più splendida che la vita può offrire è la consapevolezza di una donna. E’ creatrice. Non perde la bellezza dell’essere donna qualsiasi cosa le accada. Di questo dovremmo essere abbastanza orgogliose da piantare i piedi per terra e dichiarare: Io sono una donna.

Quel che ho guadagnato, in molti anni nel movimento, è stato il poter crescere tutti i miei figli su questo lembo di terra, in questo paradiso: è il mio orgoglio e la mia gioia. E oggi, tutto quel che devo fare è continuare a contribuire all’MST, per aiutare a costruire un paradiso per altre famiglie. Ilda Martines de Souza (trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo)

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Sono sicura che il concetto seguente, espresso tal quale o con più raffinate metafore, vi è familiare: “Dove tutti rubano nessuno è ladro”. Chi la pensa così merita di certo un dieci e lode in “leccaggio” (capacità di adattarsi con fare suadente ad ogni squallore, soprattutto se in esso sono coinvolti personaggi famosi e ricchi o superiori gerarchici) ma – senza entrare nel merito dell’etica – è decisamente insufficiente in logica: dove tutti rubano, tutti sono ladri, punto.

Il leccapiedi, di fronte a questa osservazione, nicchia e reitera: lo fanno tutti, il mondo è sempre andato così, è la (nostra, loro, o con la maiuscola) natura, è la (nostra, loro, o con la maiuscola) cultura, l’uomo è cacciatore e la donna è mobile qual piuma al vento. Il leccapiedi può avere vent’anni, condire i suoi vuoti discorsi di spread e hi-tech e lol (lot of laughter – un mucchio di risate), avere 5.000 “amici” su Facebook, ma resta ai miei occhi miserabilmente solo e più vecchio di me. Può averne settanta, sprizzare crudeltà e odio spacciandoli per saggezza o buon senso, avere le tasche piene di soldi, ma resta ai miei occhi miserabilmente solo e più povero di me.

L’Italia pullula di questi personaggi che sembrano giraffe geneticamente manipolate, con colli extralunghi tesi verso l’alto, il cielo esclusivo dove escort di lusso si dimenano su divani di lusso durante lussuosi festini: il luogo dove sperano – leccando chi conta e sputando ingiurie su chi non conta – di entrare, naturalmente dopo aver parcheggiato un’automobile così di lusso da far diventare verde d’invidia l’altro leccapiedi vicino di casa. Dico che sono soli, nonostante ripetano in coro panzane straudite e luoghi comuni così vetusti da cadere a brandelli, perché nella lotta a coltello per essere “qualcuno” non c’è posto per relazioni umane significative: l’unica cosa da stabilire nelle interazioni con gli altri è (scusate la volgarità) chi fotte e chi viene fottuto.

E’ una volgarità che non uso a caso, perché gli individui summenzionati costituiscono il principale brodo di cultura per la violenza di genere nel nostro paese. Il quale paese, dal 15 al 26 gennaio scorsi, è stato visitato da Rashida Manjoo, avvocata e docente di diritto, “Special Rapporteur” delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, le sue cause e le sue conseguenze. Si tratta, per chi non lo sapesse, di un’inviata speciale che ha il compito di monitorare la violenza domestica, la violenza sessuale, la violenza nelle comunità, quella perpetrata o condonata dallo Stato, la violenza contro rifugiate, migranti e nomadi. Manjoo ha visitato Roma, Milano, Bologna e Napoli; ha tenuto di sicuro un incontro pubblico a Milano il 20 gennaio, ignoro se quello in programma a Roma per il 26 gennaio si sia poi verificato. Comunque: quali media si sono accorti della sua presenza? Quanti ne hanno approfittato per intervistarla, per riflettere sulla questione, per cercare dati ed analisi, per imbastire un qualche servizio (che almeno per una volta non prevedesse la foto orrenda di una modella disarticolata, incastrata in un angolo con il braccio alzato a parare il colpo, e le solite menate sui raptus e i drammi della gelosia)? Praticamente nessuno.

Un noto quotidiano “indipendente” – da tutti meno che da Confindustria – ha partorito un trafiletto neutro-ignorante il mese scorso ed un pezzettino scandalizzato-ignorante nell’attuale febbraio: sapete, trasecolano, Manjoo ha definito la situazione in Italia “femminicidio”! E visto che non sanno cosa questo termine significhi, e presumono che sia lo stesso per i loro lettori, ci aggiungono la spiegazione fornita da Wikipedia e di nuovo scolorano e smaniano: è un termine usato per la mattanza di Ciudad Juarez! C’è poi così tanta violenza, in Italia? Non lo dicono esplicitamente, ma si comprende che la ritengono un’esagerazione. Le fette di disprezzo per le donne che coprono i loro occhi non si sfaldano neppure quando scorrono la pagina del giornale per cui lavorano, ogni giorno letteralmente costellato di: “Condannati a otto anni per stupro: parenti devastano il tribunale”, “Strangola la moglie davanti alla figlia: su Facebook una nuova relazione d’amore”, “Sorella disabile abusata per 6 anni dal fratello. Poi resta incinta e lui viene arrestato”, “Donna uccisa, sul collo segni di strangolamento”, “Aggredisce donna, lei incinta di 8 settimane cade e abortisce”, “Stupro di gruppo, quattro indagati”, “Fa rapire l’amante per costringerla ad abortire”, “Donna protesta per pallonata al volto, in risposta viene massacrata di botte”, “Costretta alle nozze e stuprata, arrestati il padre e il marito”, “Prostituta a 16 anni”, eccetera, eccetera.

Data l’inesistente copertura della presenza dell’inviata speciale delle Nazioni Unite in Italia, non si può pretendere che i leccapiedi se ne siano accorti, ma per quanto riguarda le amene notiziole della lista precedente i loro commenti sono invece numerosi e brillanti, da quelli online a quelli al bar: sulla prostituzione minorile, ad esempio, dopo essersi scagliati contro “perbenisti, moralisti, bigotti”, “che fanno più schifo di chi va con le prostitute”, dicono con sicurezza: “16 anni è l’età giusta per cominciare, così a 18 è pronta.” Per cosa? Il leccapiedi non si inoltra nell’argomento. Riempite quindi il futuro di questa fanciulla a piacere, con qualsiasi cosa vi venga in mente: non appena maggiorenne sarà pronta a servirvi. Per quale altro motivo dovrebbe essere al mondo, se non per compiacere il primo farabutto in grado di comprarla?

Oppure considerate questo brano tratto da un articolo di cronaca su uno stupro del 12 febbraio scorso: “L’evidenza delle gravi ferite (interne ed esterne) riportate dalla giovane, che è stata trovata svenuta e seminuda in mezzo alla neve e in una pozza di sangue (fa sì che si cerchi) … l’oggetto, forse un bastone, con il quale sarebbe stata compiuta la violenza. I danni subiti dalla ragazza, infatti, non sono compatibili con un rapporto sessuale ordinario.” Al leccapiedi non pare vero si parli di violenza sessuale in un caso del genere: innanzitutto, “la ragazza è sicuramente una vittima, ma bisogna vedere di cosa” (giusto, se ti fanno a pezzi gli organi genitali potrebbe trattarsi di una perturbazione atmosferica, oppure di un virus, o di un complotto femminista), poi “lui ha detto che lei era consenziente”, e difatti tutte noi non vediamo l’ora di essere stuprate “normalmente” e poi sventrate con bastoni, altrimenti mica ce ne andremmo in giro in un corpo di femmina, vi pare?

Ma santo cielo, non voglio tagliare la questione con l’accetta; sicuramente, è certo, non c’è dubbio e io ci credo con tutte le mie forze: non tutti i leccapiedi sono picchiatori e stupratori. Anzi, di fronte alle notizie sulla violenza di genere non leccano piedi. Si leccano le labbra. Maria G. Di Rienzo

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