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Il 12 ottobre dell’anno scorso, circa 300 donne di sette diverse tribù indigene dell’Amazzonia ecuadoriana iniziarono una marcia di 219 km. per raggiungere la capitale. Quando ci arrivarono, parecchi giorni più tardi, con i loro bambini in braccio il Presidente Correa si rifiutò di riceverle. Le donne intendevano chiedergli conto delle politiche estrattive (petrolio e miniere) che stanno devastando con l’inquinamento le loro terre. Il 28 novembre successivo, una delegazione di queste donne inascoltate si presentò a Quito durante l’asta che metteva in vendita 6 milioni di acri del loro territorio a scopo di trivellazione e chiese conto ai petrolieri delle loro azioni. Il Presidente Correa trovò la faccenda così insopportabile da vendicarsi chiudendo la Fundación Pacha Mama, una dell’ong ambientaliste più rispettate e note dell’Ecuador, e da denunciare come “terroristi” i leader tribali.

Felipe Jácome, fotografo documentarista, è andato a chiedere alle donne della marcia chi sono e perché fanno quel che fanno. La mostra “Amazonas: Guardiane della Vita”, di cui vi presento tre immagini, contiene le risposte. Ogni fotografia è corredata da una cornice di simboli e da una presentazione vergate dalla donna ritratta.

hueiya

Il mio nome è Hueiya. Vivo nella comunità Waorani chiamata Ñoneno. Lotto per la mia comunità, perché in futuro i nostri bambini non soffrano e possano vivere in pace, respirando aria pulita. Lotto perché i miei figli non debbano soffrire, perché la terra continui ad essere fertile e libera dall’inquinamento, perché i nostri fiumi continuino ad essere puliti, così che (i bambini) possano bere acqua pulita. Lotto per tutti i bambini che devono ancora nascere su questa Terra.

jasmil

Il mio nome è Jasmil Villamil. Ho 11 anni. Voglio vivere liberamente nella giungla amazzonica. Voglio giocare con tutti gli animali e voglio che la mia comunità viva in pace.

simona

Il mio nome è Simona. Questa è la nostra terra. Questi disegni sono i simboli della ricchezza che esiste nella giungla. Noi viviamo bene, qui. Lottiamo per la nostra terra da 35 anni. Questo governo non ha una coscienza. E’ perciò che violano i nostri diritti. Ma noi non staremo giù. Anche se ci circondano, le nostre comunità si ergeranno con forza.

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“Luoghi infranti, persone infrante, promesse infrante. Tutto ciò che è in pezzi fa spazio a nuove possibilità di creare e ri-creare quel luogo senza inganni.” Lily Yeh

Lily ridà vita alle cose infrante da 25 anni. Spesso usa frammenti di tegole o mattoni che come per magia diventano speranza, gioia, colore, ed il luogo in pezzi diventa intero, e bello. Nata in Cina nel 1941, cresciuta a Taiwan, emigrata negli Usa negli anni ’60 dello scorso secolo, Lily dice di sé: “Sono fiorita tardi. Ho risposto alla chiamata della mia vita solo quando avevo più di quarant’anni. Ma la stavo aspettando da molto, molto tempo. Nel 1986 ebbi l’opportunità di lavorare in un quartiere disastrato nel nord di Filadelfia, trasformando un’area abbandonata in un parco artistico con l’aiuto dei residenti locali, in stragrande maggioranza bambini. L’esperienza è stata una sfida ed è risultata assai profonda, veriteria, genuina. Mi ha condotto in un luogo interiore che non avevo mai visitato prima. Guidata da ciò, ho percepito una grande urgenza di muovermi in avanti. Sembra che, connettendomi a quanto è vero in me stessa, io aiuti altre persone a farlo.”
Con solo un po’ di cazzuole e di energia, la zona piena di detriti ed immondizia lasciò il posto ad un’oasi di brillanti mosaici e sculture. La vicenda si impresse in modo così forte fra chi vi aveva partecipato da trasformare ulteriormente il parco nel “Village of Arts and Humanities”, un’organizzazione con base nel vicinato che Lily Yeh contribuì a formare nel 1989. Convinti che l’arte sia un diritto umano e che gli artisti possano creare le basi per profondi cambiamenti sociali, Lily ed i suoi amici hanno da allora mutato 120 lotti abbandonati in altrettanti parchi e giardini; hanno rinnovato edifici, creato programmi educativi e seminari artistici, lavorato nelle scuole, fondato un teatro della gioventù.
Un tempo pittrice di successo e docente alla University of the Arts di Filadelfia, Lily Yeh divenne da quel momento “un’artista a piedi scalzi” ed una viaggiatrice instancabile: fondò l’associazione Barefoot Artists (Artisti scalzi) e si dedicò a rivitalizzare in tutto il mondo quartieri e persone che erano stati “infranti”. “Ho scoperto che quegli spazi spezzati erano le mie tele viventi. Nel mezzo dei frammenti, i nostri cuori cercano la bellezza.”
Lily è andata a crearla assieme ai residenti nello slum di Korogocho in Kenya, in Ghana, Ecuador, Costa d’Avorio, India, Repubblica della Georgia. Ha contribuito a trasformare un villaggio di sopravvissuti al genocidio del Ruanda in un luogo di serenità e speranza. “Quando vedo distruzione, povertà e crimine all’interno delle città vedo anche l’enorme potenziale dell’essere pronti alla trasformazione ed alla rinascita. Noi stiamo creando dell’arte che viene dal cuore e perciò riflette il dolore e le sofferenze nelle vite delle persone, ma esprime anche gioia, bellezza ed amore. In questo processo stanno le fondamenta della costruzione di una comunità reale, in cui le persone si riconnettono alle altre, sostenute da un lavoro che ha significato, nutrite dalla cura che si ha gli uni per gli altri, ed infine si esprimono ed educano a ciò i loro figli. Allora, noi testimoniamo il cambiamento sociale in azione.”
In Palestina, ha creato assieme agli abitanti un murales che è stato chiamato “L’albero della vita palestinese”. In Cina, ha trasformato una scuola per figli di migranti da qualcosa di simile ad una prigione in un luogo luminoso e brillante, creato dalle mani dei bambini che la frequentano.
Ora un documentario, “The Barefoot Artist”, racconta tutto questo, diretto da Glenn Holsten e Daniel Traub. Traccia l’evoluzione di Lily Yeh come artista, mostra la metodologia che ha creato per costruire comunità usando l’arte, illustra il suo talento ed il potere del suo lavoro nel toccare vite altrui e infine rivela la sorgente della sua ricerca, il suo viaggio interiore per ricostruire le sue stesse fratture emotive. “Essere un’artista non riguarda solo il produrre arte. Riguarda il portare alla luce la visione che ti è stata data ed il fare le cose giuste senza risparmiarti.”  Grazie Lily. Maria G. Di Rienzo
Il trailer – http://vimeo.com/25461978
Sul film – http://www.barefootartistmovie.com

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(Gabriela De Cicco per AWID intervista l’economista ecuadoriana Magdalena León di REMTE – Rete delle donne latino-americane per la trasformazione dell’economia, 20.1.2012, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo)

L’approccio del “ben vivere” (“buen vivir”, o “sumak kawsay” in Quechua) promuove la vita ed il bilanciamento fra esseri umani ed altri esseri viventi, di modo da coesistere in armonia con la natura. L’Ecuador, come la Bolivia, ha incluso ii concetto di “ben vivere” nella propria Costituzione ed entrambi i paesi considerano la natura come un’entità legale portatrice di diritti.

AWID: Per favore, parlaci dei processi che hanno condotto all’inclusione del “Buen Vivir” nella Costituzione ecuadoriana.

Magdalena León (ML): L’Assemblea Costituzionale dell’Ecuador redasse una Costituzione che passò per referendum nel settembre 2008. Creammo un’Assemblea Costituzionale con ampio mandato al fine di costruire nuove fondamenta per il paese. La nostra sfida era ricreare lo Stato ed avevamo un’agenda ambiziosa, che intendeva cambiarlo interamente. Fummo in grado di includere il “Buen Vivir” perché provenivamo da una traiettoria che aveva messo in questione non solo il neoliberismo, ma anche il sistema capitalistico nel suo insieme, a livello nazionale e regionale.
Quando pensammo all’Assemblea Costituente in Ecuador, con un cambiamento radicale al suo orizzonte, esaminammo non solo i saperi che avevamo accumulato noi, ma anche quelli della regione latino-americana, per essere in grado di identificare le istanze chiave che sarebbero state ridefinite da quell’orizzonte.

AWID: Una volta incluso nella Costituzione, quali furono i passi successivi?

ML: La fase dell’Assemblea Costituzionale fu un momento straordinario in Ecuador. Venivamo da un periodo di instabilità politica e di tali terribili fallimenti nel maneggio dell’economia e della politica da parte dei settori tradizionali, che erano perciò completamente screditati e l’intera società era concentrata sul trovare alternative: così, non fu difficile far passare la nuova Costituzione.
Al momento di decidere la propria agenda come governo, “Alianza País” – lo spettro di organizzazioni e movimenti ora al potere – si impegnò in un esercizio molto innovativo di costruzione collettiva, aggiungendo altre agende alla propria. Collezionarono proposte e alternative che non erano mai circolate tramite i canali convenzionali prima d’allora, neppure attraverso quelli della Sinistra, inclusa la diversità sessuale e agende radicali femministe. Ci chiedemmo: guardando con la lente femminista come sarebbe la proposta di ricreare lo Stato? Ed in qualche modo facemmo in modo di imprimere nella Costituzione la visione risultante.

AWID: Che impatto ha avuto la visione femminista sulla nuova Costituzione?

ML: Da un lato, nella parte della Costituzione che si occupa dei diritti umani abbiamo continuità, affermazione ed approfondimento, ma la novità stette nel ridefinire il sistema in cui avremmo vissuto. Abbiamo sostenuto con forza “Buen Vivir”, persino ridefinendo ciò che si identifica come lavoro ed i suoi scopi, nonché le definizioni di “sistema economico” e “regime economico”.
“Buen Vivir” trovò presto un’eco nella nostra visione femminista, poiché condividiamo la stessa visione della vita e della riproduzione della vita come asse al posto del mercato. Nella precedente Costituzione, il lavoro era inteso come impiego formale, mentre altre attività erano considerate informali. Abbiamo fatto in modo di ridefinire il lavoro, come attività che produce beni e servizi – sia nel mercato sia nella sfera pubblica – allargando lo scopo del diritto al lavoro e dei diritti correlati al lavoro. Tutte le forme di lavoro non pagato sono state riconosciute, e l’economia di cura è stata prevista in forma diretta o indiretta. L’economia è stata trasformata in sociale e solidale, considerando i diversi modi di organizzare la produzioni e la proprietà. Nella fase neoliberista le donne non erano invisibili, erano visibili ma legate ad un’agenda di anti-povertà, non ad un’agenda di definizioni economiche nel loro insieme. Questo è stato il salto che abbiamo fatto.

AWID: Dopo quasi quattro anni come stanno andando le cose e qual è il ruolo del movimento delle donne?

ML: Prima dell’Assemblea Costituzionale il movimento delle donne scelse di partecipare al processo trasformativo, usando l’opportunità per definire dove il paese stava andando e come. Abbiamo usato tutti gli spazi disponibili, ma senza avere abbastanza capacità. Ammetto che ci piacerebbe avere più abilità, più possibilità per produrre proposte fattibili e strumenti per rendere realizzabile questa grande e nuova visione, ma facciamo quel che possiamo in uno spazio di compartecipazione e contributo alle politiche pubbliche. Quel che sta accadendo nel movimento delle donne è simile a ciò che accade ad altri movimenti in periodi di aggiustamento del focus e di riposizionamento. Alcune si stanno ancora attenendo ad agende settoriali e non vedono che la nuova agenda è stata in grado di andare oltre.
La realtà è che il sistema capitalistico è ancora egemonico; settori che rappresentano il potere economico e politico sono stati colpiti, ma ci sono ancora. Il cambiamento non avviene senza contraddizioni e conflitti – e questo è il punto in cui siamo ora. Fino a che grado la Costituzione è stata recepita e implementata? Questa è l’agenda a lungo termine e dobbiamo avvantaggiarci di questo momento per compiere avanzamenti il più possibile, prima che altre forze ed altri interessi si riprendano.

AWID: Come proposta, il “ben vivere” si applica sia alle zone rurali sia a quelle urbane?

ML: Al Social Forum delle Americhe le nostre compañeras di São Paulo dicevano: “Suona grandioso, ma in che modo funziona in una città come la nostra?” E noi chiedevamo loro: “Non respirate, non consumate acqua e cibo ed energia? In questo modo avete relazione con gli elementi base della vostra vita.” Perché “Buen Vivir” è questo, è il mettere gli elementi base della vita al centro: la loro esistenza, la loro riproduzione, le condizioni in cui sono prodotti e come renderli sostenibili nel tempo. Ciò si applica alla contadina Mapuche che lavora la terra ed alla funzionaria di banca, così come ai loro corrispettivi maschili. Stiamo parlando dei processi della vita, degli elementi della vita e di come sono connessi al lavoro. Questo implica mettere il lavoro come asse portante e ci permette di rimettere in esso le istanze di cura, e le donne.
Le interpretazioni tradizionali vedevano il lavoro di cura come qualcosa di orribile che nessuno voleva fare; storicamente, è stato assegnato alle donne come obbligo. Ma se consideriamo il fatto che tutte le forme di vita hanno bisogno di cura (la vita umana, la natura, l’acqua, la terra) allora la cura diventa una categoria chiave e non c’è cura senza lavoro, perciò la nostra comprensione del lavoro cambia, non solo del lavoro non pagato, ma del lavoro in generale. Dobbiamo rivalutare il lavoro in tutte le sue forme e riesaminare come tali forme sono remunerate, nel mentre consideriamo altri modi di bilanciare la distribuzione del lavoro stesso. Allora possiamo ripensare le città, la vita urbana e la vita lavorativa industriale.

AWID: A livello di regione latino-americana come vedi le alternative ai modelli di sviluppo prevalenti? E che cooperazione può fornire l’Ecuador?

ML: Il recente “Summit di America Latina e Caraibi sull’Integrazione e lo Sviluppo” ha evidenziato l’eccezionale momento politico che stiamo vivendo, ma è anche una situazione fragile e potrebbe essere temporanea. Perciò i paesi latino-americani come l’Ecuador, il Venezuela e la Bolivia hanno il compito di dimostrare che un altro modello è praticabile ed è possibile.
Allo stesso tempo, la profondità dei cambiamenti a livello nazionale è assai dipendente dalle dinamiche regionali che contribuiscono ad un mutamento nella bilancia di potere per renderla più ampia e più globale. Per esempio a livello monetario, finanziario, i nostri dilemmi e problemi non possono essere risolti su base nazionale, ma necessitano di essere risolti su base regionale, e qui è determinante la nuova architettura finanziaria. Perché al di là di quanto indipendenti siamo nei singoli paesi, il grado di dipendenza del nostro sistema finanziario dal sistema economico internazionale pone un limite alle nostre aspirazioni se ci manca il sostegno di un progetto più regionale (o se manchiamo di farne parte), un progetto che generi linee guida e indicazioni su un differente bilanciamento del potere, rendendo i cambiamenti possibili.

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“Noi siamo uomini diversi.”, chiariscono all’inizio di tutte le interviste Freddy Calderón e Damián Valencia, entrambi ecuadoriani e 18enni. Infatti hanno creato una rete chiamata “Caschi Rosa” che si propone di combattere il machismo e la violenza di genere ad esso correlata. L’idea di creare un movimento è venuta a loro ed altri adolescenti dopo la partecipazione ad un programma antiviolenza dell’ong “Cittadini in azione per la democrazia e lo sviluppo”. Freddy spiega: “La domanda che ci ha condotti a fondare i Caschi Rosa era: Dobbiamo davvero maltrattare le donne per essere uomini? E la risposta è stata: Niente affatto.”

I Caschi Rosa, che si definiscono “neomascolini”, hanno creato un manuale che oltre a disegnare un diverso approccio alla mascolinità, suggerisce più di 30 azioni tese a far cessare la violenza nella società, nelle relazioni, in famiglia e nei gruppi di amici. I Caschi Rosa, alcuni dei quali non hanno più di 15 anni, si fanno carico di presentare il manuale nelle scuole e nelle strade, ovunque li si voglia ascoltare. Il 12/13 agosto scorsi hanno per esempio partecipato al 9° Festival della Musica Indipendente “QuitoFest”, salendo sul palco assieme alla prima (e per ora unica) metal band ecuadoriana interamente formata da donne, Onirica.

L’Agenzia Donne delle Nazioni Unite ha pubblicamente espresso il suo sostegno ai Caschi Rosa e li sta aiutando ad organizzare seminari in tutte le province dell’Ecuador. Ce n’è particolarmente bisogno, spiegano, in un paese in cui comportamenti sciovinisti e violenti hanno larga diffusione, ed un bambino su quattro è testimone di atti di violenza nella propria stessa casa.

Rocío Rosero, presidente dell’ong “Cittadini in azione per la democrazia e lo sviluppo”, sottolinea che per alcuni dei giovanissimi uomini coinvolti nella rete la violenza è cosa quotidiana e familiare: “Per i Caschi Rosa, il terreno di lotta più difficile sono proprio le loro case.” Freddy è d’accordo: “Per la mia famiglia sono matto, mi dicono che sono troppo giovane per capire come va la vita. Ma i giovani sono ricettivi al nostro messaggio di cambiamento. Facciamo tutto il possibile per spiegare loro che le ragazze devono essere rispettate e non trattate come oggetti sessuali. E i ragazzi cambiano, cambiano moltissimo.”

Dal lato personale, inoltre, Freddy e Damián hanno un mucchio di nuove amiche: alle ragazze il loro approccio piace e forniscono entusiastico sostegno alle loro iniziative. Richiesti di spiegare come si vedono in futuro, i due Caschi Rosa rispondono all’unisono: “Grandi attivisti che cambiano il mondo.”

Maria G. Di Rienzo

P.S. Per saperne di più, potete dare un’occhiata al sito http://www.saynotoviolence.org/

o guardare il video (in spagnolo) http://www.youtube.com/watch?v=oxnz-RaNchQ

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(ovvero: eleggetele, e lasciatele lavorare!)

Oggi, meno del 15% dei legislatori eletti nel mondo sono donne. L’espansione della partecipazione civile e politica delle donne ha il tipico risulato di una ricollocazione delle risorse comunitarie verso la salute e l’istruzione. Il Ruanda è diventato la prima nazione al mondo in cui le donne hanno più del 50% dei seggi in Parlamento: non è una coincidenza che la sua economia sia quella che sta crescendo più velocemente in Africa.

 

 

Violeta, 29 anni, Guadalupe, Ecuador.

Violeta è cresciuta in una cultura dominata dai maschi. Sebbene la maggioranza delle ragazze Shuar lascino la scuola da adolescenti per sposarsi, Violeta ha finito il liceo e, mentre era incinta del terzo figlio, ha ottenuto la licenza per insegnare. Oggi Violeta è la prima leader donna nella sua società e insegna alle donne e alle bambine l’equità di genere e la cooperazione. Violeta dice che il tessuto sociale sta lentamente cambiando, e che le donne non accettano più di essere confinate alla cucina, alle pulizie e alla cura dei bambini.

 

 

Nana Gyetuah, 56 anni, Dekoto Junction, Ghana.

Conosciuta come “Madame Koko”, è il primo capo di sesso femminile del suo villaggio. Negli anni ’90, il Ghana aveva perduto l’80% delle sue foreste nell’industria del legname: la deforestazione aveva anche danneggiato le coltivazioni di cacao e le comunità come quella di “Madame Koko” erano in rovina. Non appena divenne capo, Nana mobilitò il villaggio per fermare la distruzione e restaurarne i diritti sulla terra tramite azioni dirette nonviolente. Quando espose la corruzione di altri capi venne messa in prigione. Oggi ha fermato con successo la deforestazione nel suo territorio ed è un forte modello positivo per le giovani donne del suo villaggio.

 

 

Transito, 91 anni, Cayambe, Ecuador.

A Transito ci si riferisce spesso come alla “Rosa Parks dell’Ecuador”. Dopo la conquista spagnola, molte persone indigene furono forzate a servire come mezzadri e domestici nel sistema delle “haciendas”. Nel 1926, quando aveva 17 anni, Transito denunciò pubblicamente il proprietario di un’hacienda che la molestava. Fu mandata in prigione per cinque mesi per aver protestato. Dopo il suo rilascio, divenne una leggenda perché parlava apertamente delle cattive condizioni in cui si trovavano gli indigeni e perché organizzò il primo sciopero dei contadini, quello che cominciò a guadagnare un nuovo rispetto per il suo popolo.

Teke Foliwa, 42 anni, Have, Ghana.

Teke Foliwa è stata di recente riconosciuta come “Regina Madre” di Have. Il suo primo gesto è stato formare 16 gruppi di donne per occuparsi di micro-credito, produzione agricola e riforma dell’istruzione. All’inizio, la sua gente ne fu sconcertata. “Dalle donne”, ha detto Teke, “ci si aspetta che siano sottomesse agli uomini. Io ho capito che potevo fornire ispirazione alle donne. Gli uomini sono rimasti così impressionati dal successo dei gruppi di donne che hanno chiesto di formarne anche loro. Così siamo cambiati, diventando una vera comunità: non si tratta più di donne o uomini, ma di tutti noi che ci muoviamo avanti, insieme.”

(Foto di Phil Borges per www.stirringthefire.com, estratti di testi dal medesimo sito, trad. M.G. Di Rienzo)

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(“Meno madri muoiono grazie ad una legge modello”, articolo di Gonzalo Ortiz per International Press Service – IPS, 4.5.2010, trad. M.G. Di Rienzo)

LATACUNGA, Ecuador. La diciassettenne Miriam Toaquiza è l’unica paziente nel reparto maternità per adolescenti dell’ospedale pubblico di questa città andina. Accanto a lei nel letto c’è Jennifer, la sua bimba appena nata. Miriam è rilassata e sorridente, anche se deve restare in ospedale più tempo di quel che si aspettava a causa di una complicazione post parto.

“Ti stanno trattando bene?”, le chiede Julio Guerrero. “Sì.”, replica lei. “Hai dovuto pagare per le medicine, o per qualsiasi altra cosa ti abbiano dato?”, continua Guerrero. “No, è tutto gratis, grazie al programma per la libera maternità.”, dice lei allegramente.

IPS era presente a questa scena, cento chilometri a sud di Quito, la capitale della provincia di Cotopaxi, una delle più povere del paese. Nelle valli fra la catena delle montagne andine che circondano la città, 2.800 metri sopra il livello del mare, si producono fiori e broccoli per l’esportazione, e ciò provvede un alto tasso di occupazione. Ma più in alto, sulle montagne, le comunità indigene di parlanti Quechua, marginalizzate per secoli, stentano la vita su piccoli appezzamenti di terra erosa.

Miriam Toaquiza, che parla perfettamente sia Quechua sia Spagnolo, vive in una di queste comunità, nel cantone di Saquisilí, dove il 68% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno, un tasso di povertà del 20% più alto della media provinciale. Guerrero è il presidente del “Comitato degli utenti locali”, stabilito dalla “Legge per la libera maternità e la cura del bambino”, che fu approvata nel 1994 e codificata nel 2006 per armonizzare le leggi interne ai suoi scopi, rinforzare i regolamenti ed i programmi esistenti e renderla finanziariamente autonoma.

Come risultato, l’Ecuador ha conseguito un significativo declino della mortalità materna, e le agenzie delle Nazioni Unite fanno riferimento alla sua legge come ad un modello per gli altri paesi latinoamericani dove le morti delle donne in travaglio e nell’immediato periodo post-parto sono stazionarie o crescenti.

A Quito, Veronica Rocha, a capo dello sviluppo istituzionale del programma “Libera maternità” ha detto ad IPS che la legge: “finanzia medicinali, materiali, vitamine e minerali, provviste, test di laboratorio, per le donne incinte durante il travaglio e nel periodo post-natale, e per i bambini sino ai cinque anni.” Lo staff del Ministero per la Salute, i suoi locali ed il suo equipaggiamento fanno parte del programma. I risultati ottenuti sono da ascrivere “all’intero sistema della sanità pubblica”, ha detto Veronica Rocha.

Negli anni ’70, il tasso medio annuale della mortalità materna in Ecuador era di 188 ogni 100.000 nati vivi; tasso che cadde a 142 negli anni ’80, a 75 negli anni ’90 e infine ad una media di 55 nel periodo 2001-2007 secondo le statistiche internazionali accreditate. Il tasso medio della mortalità materna in America Latina era di 130 decessi ogni 100.000 nati vivi nel 2007. Le organizzioni internazionali ed i gruppi femminili avvisano che la percentuale si sta riducendo lentamente o per nulla.

Il principio che sta dietro alla legge ecuadoriana è semplice. Ogni donna ha diritto a cure sanitarie gratuite e di qualità durante la gravidanza, il parto ed il periodo post-parto, così come all’accesso a programmi di salute sessuale e riproduttiva, recita il primo articolo. Eulalia Salinas, la segretaria del “Comitato degli utenti locali” di Latacunga, sostiene che i training tenuti ai gruppi comunitari e la loro responsabilità di supervisione sono la chiave del successo della legge. Essa prevede che si crei un Comitato in ognuno dei 221 cantoni in cui sono suddivise le 24 province del paese. Tuttavia, ad oggi ce sono solo 59. Eulalia Salinas è felice che ci siano stati solo due decessi materni nella provincia di Cotopaxi nel 2009, a confronto dei 33 di quattro anni orsono.

“Il nostro Comitato si è formato nel 2004, grazie al lavoro del “Corpo di coordinamento politico delle donne”. Questa organizzazione non governativa ha fomentato la creazione dei comitati,” racconta Salinas, “i quali sino ad allora erano lettera morta, affinché noi potessimo reclamare i nostri diritti. Lavoriamo su base volontaria per assicurarci che i fondi previsti per legge siano usati effettivamente nel programma per la libera maternità, e che le donne e i bambini ricevano un trattamento di alto livello, che abbia anche del calore umano.”

I Comitati hanno avuto successo nel ridurre i maltrattamenti verso le donne e la discriminazione dai toni razzisti. “Prima, i medici ci trattavano male. Quando stavamo partorendo loro ci gridavano: Tu sporca indiana, hai aperto le gambe quando ti andava, cos’hai da urlare adessso, stai zitta!”, dice Giovanna Alvarez, presidente del “Comitato degli utenti locali” di Saquisilí, nel cantone di Toaquiza. Questo cantone è quello che ha registrato maggiori progressi verso “una nascita umanizzata”. Le madri possono avere accanto una persona di loro scelta durante il travaglio, possono avere tè di erbe prima che esso inizi, e possono scegliere per partorire la posizione che preferiscono. Tutte queste cose sono proibite negli altri ospedali, ma a Saquisilí hanno dovuto essere accettate a causa delle pressioni fatte dalle donne indigene, che le considerano un segno di rispetto per i loro costumi tradizionali.

“Precedentemente, la comodità del medico era quella che veniva per prima. Lui sedeva di fronte alla donna in travaglio, che giaceva orizzontalmente con le gambe spalancante sorrette da sostegni metallici, una posizione del tutto innaturale. Il modo naturale è che la donna sia in piedi o accovacciata, perché la forza di gravità aiuta il bambino a nascere.”, spiega Eulalia Salinas.

Il modello centrato sui bisogni della madre, e non su quelli del medico o della levatrice, sarà esteso in tutto il paese, ed ogni incoraggiamento possibile sarà dato alle madri affinché partoriscano nelle cliniche. “La grande maggioranza delle morti materne accade quando le donne partoriscono in casa in condizioni inadeguate.”, conclude Giovanna Alvarez.

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