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Posts Tagged ‘donne rurali’

(“No Boys Have Been Born In This Polish Village For Over A Decade”, di Francesca Volpe per Bust, agosto 2019. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

all girls - foto di Kasia Strek

Quando un piccolo villaggio in Polonia ha inviato una squadra di sole ragazze alla gara regionale per giovani vigili del fuoco volontari, l’assenza dei ragazzi ha attratto l’attenzione dei media polacchi. Da allora, scienziati e troupe televisive sono sciamati a Miejsce Odrzanskie cercando risposte al perché nessun bimbo maschio sia nato nel villaggio da oltre 10 anni, come riporta il New York Times (Ndt.: le immagini di questo articolo sono particolari di quelle pubblicate sul NYT).

Miejsce Odrzanskie, una comunità agricola, si situa sul bordo della più piccola e meno popolata provincia della Polonia. Le ragioni per l’inusuale divario di genere nella popolazione restano ignote, mentre molti residenti considerano una semplice coincidenza la nascita di 12 bimbe dopo l’ultima nascita di un maschietto.

Il villaggio aveva approssimativamente 1.200 abitanti subito dopo la seconda guerra mondiale. Oggi la popolazione si è ridotta a 272. In aggiunta, il collasso del comunismo nel 1989 e l’integrazione del paese nell’Unione Europea nel 2004 hanno dato come risultato un largo numero di migranti polacchi in zone più popolate dell’Europa.

Nell’intervista concessa al New York Times, la sindaca Krystyna Zydziak fa notare che ogni famiglia del villaggio ha un parente che vive all’estero: “Alcuni sono preoccupati di chi andrà a riempire il fabbisogno di lavoro in agricoltura.”, aggiunge. Ma, per il momento, le numerose donne giovani e adulte che lavorano nei campi alleviano le preoccupazioni. La ventenne Adrianna Pieruszka (Ndt.: in immagine qui sotto) lavora nei campi di grano dei suoi genitori, guidando il trattore, durante le vacanze estive. Ad ogni modo, il suo interesse per l’agricoltura non si avvicina nemmeno alla sua passione per il dipartimento locale dei vigili del fuoco.

adrianna - foto di kasia strek

Il dipartimento volontario dei vigili del fuoco è diventato in qualche modo un aggregatore sociale, dato che non ci sono ristoranti o bar e neppure un supermercato nel villaggio. La brigata giovanile si è formata nel 2013 dopo che un gruppo di ragazze chiese al vigile del fuoco professionista Tomasz Golasz di addestrarle per una competizione. Ora, sei anni più tardi, la squadra ha vinto dozzine di gare in tutta la Polonia. “Queste ragazze vivono intensamente il loro impegno. C’è in loro così tanta passione e determinazione. – ha detto Golasz – Per due mesi, prima di ogni gara, vengono ad allenarsi ogni giorno o a giorni alternati dopo la scuola.”

Nel mentre il decennio di assenza di parti di bimbi maschi continua a rendere perplessi gli scienziati e l’opinione pubblica, alla maggior parte delle ragazze non fa ne’ caldo ne’ freddo. La decenne Malwina Kicler, che da tre anni si allena come vigile del fuoco volontaria, spiega al New York Times: “I ragazzi sono rumorosi e dispettosi. Almeno adesso abbiamo pace e tranquillità. I ragazzi puoi sempre incontrarli da qualche altra parte.” Touché.

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(“The Gambia – Isatou Touray, Women’s Advocate, Appointed Vice President of The Gambia”, UN Women, 16 maggio 2019, trad. Maria G. Di Rienzo. Isatou Touray, in immagine, è stata nominata Vice Presidente del Gambia. Il giorno in cui potrò votare nel mio Paese una donna simile, saprò che la politica italiana si è mossa verso la civiltà.)

Isatou Touray

Sono nata a Banjul, dove ho ricevuto la mia istruzione. Inizialmente ho lavorato come insegnante e sono stata assegnata a varie parti del paese, incluse le aree rurali. Ho notato che le donne lavoravano più di 18 ore al giorno e percorrevano lunghe distanze per raccogliere legna, portando i loro bimbi sulla schiena.

Insegnando artigianato domestico, ho lavorato con loro su attività quali il migliorare la salute della famiglia tramite l’educazione alimentare e lo sviluppo delle competenze per generare reddito. Ho compreso che queste donne erano anche sfruttate e che le loro preoccupazioni non erano prese in considerazione nella maggioranza delle attività legate allo sviluppo. Vedevo che venivano mobilitate affinché partecipassero ai laboratori e poi nulla tornava loro indietro. Venivano da me chiedendo: “Che ne è stato delle promesse fatte dal Ministero?”

Da quel momento in poi mi sono impegnata nell’attivismo della società civile. Ho coinvolto comunità tramite il risveglio della consapevolezza e l’addestramento. Ho usato le informazioni raccolte sul campo per coinvolgere lo Stato e chiedere assunzione di responsabilità. Ora appartengo a diverse reti e le esperienze che ho guadagnato da queste iniziative globali vengono diffuse per dare alle comunità, ai decisori e ai legislatori la forza di portare avanti l’agenda femminista sullo sviluppo.

Ho anche fatto ricerca per il dottorato. Ora sono direttrice del Comitato gambiano sulle pratiche tradizionale che hanno impatto sulla salute di donne e bambine (GAMCOTRAP), un’organizzazione pro-diritti delle donne che ho contribuito a fondare nel 1992 per promuovere la salute e i diritti riproduttivi, e lavorare per eliminare la mutilazione genitale femminile.

Definisco me stessa una femminista perché credo nel potere e nell’anima delle donne.

Non devo agire come un uomo o mostrare tendenze macho per farmi accettare in determinati contesti. Sento che i miei diritti fanno parte del tutto e quel che io scelgo non dovrebbe costituire una ragione per discriminarmi. Ho visto come le donne sono tenute subordinate in varie culture, tradizioni e religioni. Ho visto e fatto esperienza delle incongruenze di interpretazione su istanze che riguardano la mia vita e come queste si manifestino in modi differenti per gli uomini. Tutte le suddette esperienze che ho accumulato negli anni hanno fatto di me una femminista.

Se il femminismo concerne la liberazione delle donne io ho scelto di fare esclusivamente questo.

Se il femminismo concerne l’autodeterminazione delle donne e il riacquistare la mia integrità, io ho scelto di viverlo!

Sono un’attivista femminista perché mi piacerebbe vedere una trasformazione che dia a uomini e donne uguali opportunità di realizzazione personale. Voglio avere una parte nel creare un mondo senza discriminazione, un mondo che riconosce come la diversità ci consenta di vivere in pace e armonia gli uni con gli altri.

Di recente mi sono presa l’impegno di scrivere delle nostre esperienze e di documentare il nostro lavoro per la posterità e per il pubblico accesso. Dobbiamo lasciare un’eredità che sia ricordata in futuro.

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(“In rural Paraguay, women are on the frontlines of a ‘race against time’ to save native seeds”, di Maria Sanz Dominguez – che ha anche scattato la foto di Ceferina Guerrero riprodotta qui – per Awid e Open Democracy 50.50, 11.9.2018, trad. Maria G. Di Rienzo.)

ceferina guerrero - immagine di maria sanz dominguez

A Chacore, a circa 200 chilometri di distanza dalla capitale del Paraguay Asunción, la 68enne Ceferina Guerrero cammina accanto a scaffali pieni di bottiglie di plastica e lattine accuratamente etichettate. Ognuna di esse contiene una varietà nativa di semi essenziali per la dieta delle comunità rurali.

Le etichette riportano i nomi in guarani, lingua indigena e seconda lingua ufficiale del Paraguay, così come in spagnolo. Guerrero presenta i semi con calore, come farebbe una madre con i propri figli: questo è un fagiolo, questa è una nocciolina, questo è mais.

Conosciuta come Ña Cefe nella sua comunità, Guerrero dice che il suo cognome (“guerriero” in spagnolo) le calza come un guanto. E’ una delle fondatrici del Coordinamento delle donne rurali e indigene in Paraguay (Conamuri).

Conamuri ha avuto inizio negli anni ’90 come piccolo gruppo. Oggi i suoi membri includono donne da più di 200 comunità rurali in Paraguay e l’associazione è anche collegata ai propri alleati in tutto il mondo come parte del movimento internazionale contadino La Via Campesina.

Pure, dice Guerrero, “non dobbiamo dimenticare il nostro principale obiettivo”: raccogliere e preservare semi nativi nell’intero paese. Lei descrive ciò come una corsa contro il tempo – e contro l’espansione dell’agricoltura industriale su larga scala.

“Attualmente abbiamo perso almeno il 60% delle varietà native. – mi ha detto – Ci sono persino comunità che non ne hanno affatto.”

Secondo l’organizzazione per il cibo e l’agricoltura delle Nazioni Unite (FAO), a livello globale il 60-80% del cibo nella maggioranza dei paesi in via di sviluppo, e metà del rifornimento mondiale di cibo, è piantato dalle donne.

Nel frattempo, il mondo ha perso il 75% del suo differente campionario di semi durante il ventesimo secolo. Ora, nove sole colture comprendono il 66% della produzione agricola globale. Unicamente tre di queste – grano, riso e mais – rappresentano circa la metà delle calorie giornaliere della popolazione mondiale.

Queste tendenze hanno allarmato ong, organizzazioni rurali e istituzioni internazionali. Mantenere la biodiversità, insiste la FAO, è “fondamentale” per la sicurezza alimentare e la capacità di adattarsi alla crescita della popolazione e al cambiamento climatico.

La perdita di biodiversità ha anche un “impatto specifico” sulle donne che “sono state per tradizione le custodi di una profonda conoscenza su piante, animali e processi ecologici”, hanno aggiunto nel 2016 gli esperti del comitato internazionale dell’IPES sui sistemi alimentari sostenibili.

In Paraguay, il mero 5% della popolazione possiede il 90% della terra. La maggioranza di quest’ultima è usata da grossi agribusiness per coltivare solo una manciata di varietà (incluse la soia, il grano, il riso e il mais) su vaste piantagioni a scopo di esporto internazionale.

L’anno scorso, il paese ha importato almeno 24.000 tonnellate di semi. La maggior parte era diretta a queste coltivazioni da esporto. Meno dell’1% erano semi di frutta o vegetali, per lo più patate. Il resto includeva il frutto nazionale del Paraguay: mburucuya (maracuja o frutto della passione).

Intanto, 28 coltivazioni geneticamente modificate (in gran parte varietà di soia, mais e cotone) sono state approvate dal governo dal 2001 in poi, quando la Monsanto ha cominciato a produrre qui la sua sua soia resistente al pesticida Roundup. Nel mezzo della pressione esercitata dalle corporazioni sull’agricoltura e la produzione di cibo, le donne che preservano le varietà native, come Guerrero a Chacore, sono “rare, come aghi nel pagliaio” dice Inés Franceschelli, una ricercatrice per l’ong Heñoi (‘germinare’). “E se il Paraguay è cosi dipendente (dalle compagnie straniere) per una faccenda così di base come il cibo – ha aggiunto – significa che questo è un paese subordinato.”

A seguito di un’intensa campagna di mega-fusioni partita nel 2016, un piccolo gruppo composto di tre corporazioni giganti (Bayer-Monsanto, DowDuPont e Chemchina-Syngenta) ora controlla più della metà del mercato mondiale dei semi. Questi semi e i giganti dell’agrochimica sono attivi anche in Paraguay, dove è stato loro permesso di piantare mais, cotone e soia transgenici.

Guerrero mi ha detto che i semi nativi crescono senza insetticidi, mentre alcuni semi transgenici possono “produrre una bella pianta, con bei frutti, ma se tu raccogli i semi e li pianti di nuovo, non germineranno. Non puoi riusare i loro semi e sei costretta a comprarli ancora e ancora.” Ciò che lei descrive suona come l’effetto di una controversa modifica genetica che produce semi sterili una volta che la pianta abbia dato i suoi frutti.

Alcuni li chiamano i “semi terminator”, alcune ong e organizzazioni rurali mettono in guardia sul fatto che l’uso delle Genetic Use Restriction Technologies (GURT) può rimpiazzare le varietà native e minacciare la sicurezza alimentare locale. Il Paraguay è anche uno dei paesi firmatari della Convenzione sulla diversità biologica delle Nazioni Unite, che nel 2000 raccomandava una moratoria de facto dei test sui campi e della vendita dei semi “terminator”.

Si crede che le maggiori compagnie mondiali abbiano brevetti per tali tecnologie, sebbene esse neghino di usarli. La Monsanto, per esempio, ha detto di “non aver mai commercializzato una biotecnologia che risultasse in semi sterili – o terminator” per i raccolti di cibo e di “non avere piani o ricerche che violerebbero questo impegno.”

In questo momento si sta anche facendo pressione affinché il Paraguay adotti il controverso accordo sui semi “UPOV 91”, come parte del trattato sul libero commercio che viene negoziato fra l’Unione Europea e il blocco commerciale sudamericano Mercosur.

Le organizzazioni rurali temono che questo renderebbe possibili azioni legali contro i contadini per la condivisione e lo scambio di semi nativi, poiché essi non sarebbero in grado di soddisfare i requisiti richiesti per la registrazione all’interno dell’accordo.

Durante l’ultimo decennio, Conamuri ha sviluppato le sue proprie proposte di legge per proteggere i semi nativi e “creoli” (che non sono nativi, ma si sono adattati nei secoli alle condizioni locali). Queste proposte sono state respinte nel 2012, dopo l’impeachment del Presidente Fernando Lugo (visto come qualcuno disponibile ad accettarle). “Abbiamo capito allora che il potere politico era instabile e che perciò dare al governo il controllo sui nostri semi non era una garanzia per la sovranità e la sicurezza alimentare.” – mi ha detto Perla Álvarez di Conamuri – I semi devono stare nelle mani della gente di campagna.”

“La gente di campagna ha potere nel proprio stile di vita tradizionale.”, aggiunge Franceschelli dell’ong Heñoi, dal potere di un’alimentazione sana e di una gestione sostenibile della terra a quello di “vivere senza essere dipendenti dalla corporazioni. La resistenza è situata nelle comunità rurali e indigene in tutto il mondo. E questa resistenza è più forte nelle donne.” In Paraguay, nel mezzo del diffondersi dell’agricoltura industriale, delle coltivazioni transgeniche e dei brevetti sui semi, donne come Guerrero sono in prima linea nella battaglia per salvare le varietà native, prima che sia troppo tardi.

Queste donne stanno producendo “fertilizzanti verdi” che aiutano la terra coltivabile a rinvigorirsi per la prossima stagione e insegnano ad altre persone la coltivazione agro-ecologica che tiene conto degli ecosistemi naturali e incoraggia a piantare una varietà di semi. Stanno accuratamente etichettando recipienti in cui immagazzinano le stesse varietà di mais che le loro nonne usavano per cucinare, molto tempo fa. Stanno anche riscoprendo e preservando i semi nativi che non sono stati usati per molti anni.

A Chacore, la Semilla Róga (la casa dei semi) è un progetto di Conamuri che ospita ogni mese contadini provenienti da tutto il Paraguay per lo scambio dei semi e per l’apprendimento alla preservazione di varietà native e creole. Qui, Guerrero insegna come far crescere cibo senza pesticidi o insetticidi. Ha anche il suo magazzino di semi a casa, in cui preserva 60 varietà di semi e li condivide con i suoi vicini. “Sin dall’inizio dell’agricoltura – dice – i semi nativi sono stati collegati alle donne, che sono state le prime a raccogliere, conservare e piantare semi.”

Il progetto Semilla Róga mira pure a preservare la conoscenza e le tradizioni delle comunità che usano i semi nativi. “Ciascuna varietà di mais è adatta a diversi tipi di cibo e appartiene a differenti gruppi di persone. – ha spiegato Álvarez – Per esempio, le genti indigene come gli avá gli mbya guaraní usano il mais colorato per i rituali, perciò questa pianta ha anche valore culturale.”

Le medicine naturali derivate dai semi crudi sono pure popolari in Paraguay, dove sono spesso usate come alternative meno costose alle medicine convenzionali. Il seme di coriandolo, per esempio, è usato per aumentare le difese naturali dopo una malattia.

“Se perdiamo il kuratu (coriandolo), se perdiamo l’andai (varietà locale di zucca), noi stiamo perdendo la medicina e stiamo perdendo il nostro cibo, una parte delle nostre tradizioni come gente di campagna e una parte della nostra cultura e della nostra identità.”, mi ha detto Guerrero. Tenendo in mano una grande foglia di mais rosso nativo, Guerrero spiega che dovrebbe essere raccolto durante la luna piena, quando l’atmosfera è meno umida. Mi mostra come raccogliere i piccoli semi da ambo le estremità per il cibo: quelli nel mezzo saranno immagazzinati per la semina della prossima stagione.

“Alcuni mi chiedono quanti dollari spendo al giorno. Io non capisco la domanda, perché produco quel di cui ho bisogno e per settimane intere non spendo un dollaro. – dice – Quando hai semi in casa, non avrai mai fame.”

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Gulmira

“Il mio nome è Gulmira Mendibaeva, vivo nella zona di Ysyk-Kul in Kyrgyzstan, e sono membro di ALGA (cioè un’istruttrice di istruttrici per Donne2030). Lavoro principalmente sul miglioramento delle condizioni di vita delle donne rurali.

Per me, l’implementazione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile da una prospettiva di genere significa miglior accesso, per le donne e le bambine rurali, all’istruzione, all’informazione, all’addestramento, ai servizi sanitari per la salute riproduttiva e alla protezione sociale. Significa anche che donne e bambine rurali possano aver accesso a risorse differenti: finanziarie e tecnologiche, acqua, servizi igienici, commercio, ecc.

Le sfide che incontro nel mio lavoro includono la mancanza di consapevolezza, perché non solo noi gente rurale abbiamo scarso accesso alle informazioni, ma anche ai nostri governi locali mancano informazioni e conoscenza. Un’altra sfida è il diritto consuetudinario, che è negativo per noi donne da molte prospettive. Ci sono anche le barriere economiche, perché noi donne non siamo indipendenti.

Alcuni dicono che le donne dovrebbero possedere risorse ma io no, io non voglio solo il diritto al possesso, io voglio che mi sia garantito l’accesso. Questa è la cosa più importante: avere eguale accesso alle risorse ed essere eguali.

Per combattere queste difficoltà lavoriamo sull’aumento di consapevolezza e sull’istruzione. Si tratta delle attività maggiormente necessarie per noi, poiché cambieranno la coscienza della popolazione. Nel nostro villaggio siamo nel mezzo del processo che ci porterà a vincere tali sfide.

Spero, il prossimo anno, di condividere con voi il mio successo.”

Testo raccolto da Hanna Gunnarsson, 7 marzo 2018, trad. Maria G. Di Rienzo.

(Il Programma Donne 2030 è costituito da una coalizione di organizzazioni che collaborano per realizzare gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile in modo che siano equi rispetto al genere e rispondano ai criteri di giustizia climatica. La coalizione ha ottenuto, per un anno, il sostegno della Commissione Europea per la Cooperazione Internazionale, e perciò Gulmira dice che spera di presentare risultati positivi l’anno prossimo.)

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“La gente era solita ridere di noi, ma perché le donne dovrebbero restare sedute in casa? Ai giorni nostri, le donne pilotano aeroplani: perché a noi dovrebbe essere impedito stare in un gruppo musicale?”, dice Sabita Devi, membro della Sargam Mahila Band (in immagine).

Sargam Mahila Band

Adesso non ridono più, comunque. Queste donne sono talmente brave a fare musica da essere continuamente richieste per matrimoni, feste, intrattenimenti vari. Gli abitanti del villaggio di Dhibra, in cui le donne vivono, vedono i furgoni venire a prelevarle e a riportarle indietro – e quando tornano hanno denaro: “Con quel che guadagniamo stiamo mandando a scuola i nostri figli e acquistando cose per noi stesse, come i sari che usiamo per i concerti.”, spiega ancora Sabita.

Le dieci musiciste sono Mahadalit, cioè fanno parte del gruppo più marginalizzato e impoverito dei Dalit (gli “intoccabili”) dell’India. A motivarle e sostenerle è stata un’altra donna, Sudha Varghese. Sudha dirige un’ong che si chiama “Nari Gunjan” (letteralmente “Il brusio delle donne”) e lavora nello stato di Bihar per i diritti delle donne, la loro istruzione e i loro mezzi di sostentamento, nel mentre contrasta attivamente la violenza loro diretta.

Savita, Anita, Pancham, Chhatiya, Sona, Lalti, Bijanti, Domni, Manti e Chitrekha – questi i nomi delle donne del gruppo musicale – si sono addestrate per otto mesi con un’insegnante fornita loro dall’ong: passione, impegno e abilità hanno fatto il resto. In precedenza erano contadine “a giornata”, racconta Sudha Varghese, e stentavano molto. Suonare dal vivo non comporta solo battere i tamburi, ma battere gli stereotipi in cui erano confinate dal patriarcato e ha dato loro “indipendenza e dignità”. Tanto perché possiate stupirvi, Sudha è una suora cattolica.

Maria G. Di Rienzo

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(“Meet Mariama Sonko, Senegal” – Nobel Women’s Initiative, 1° dicembre 2017. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

Mariama Sonko

Contadina e organizzatrice per le donne rurali, Mariama è la coordinatrice nazionale di “Nous sommes la solution” (Noi siamo la soluzione) in Senegal, un movimento di agricoltrici per la sovranità alimentare che si sta diffondendo anche in Burkina Faso, Mali, Ghana e Guinea. Tramite le pratiche agro-ecologiche, Mariana e il suo movimento lavorano con le donne rurali per prendere il controllo dei propri mezzi di sussistenza e creare una forte rete di sostegno l’una per l’altra.

Puoi dirci qualcosa del tuo lavoro?

Il nostro movimento è nato dai dialoghi fra le organizzazioni degli agricoltori e la società civile su come resistere alle politiche agricole imposte dalle corporazioni multinazionali. Questo movimento è afro-centrato e propone l’agro-ecologia come alternativa per sostenere una maggior sicurezza alimentare in Africa.

Le donne giocano un ruolo indiscutibile in agricoltura: nella produzione, nella commercializzazione delle coltivazioni domestiche, nel consumo. Il nostro movimento è radicato nella visione di un’Africa in cui le donne rurali sono coinvolte in ogni processo decisionale e coltivano, vendono e consumano i prodotti delle loro fattorie di famiglia.

Come si è diffuso il vostro movimento sino a ora?

Abbiamo avuto un bel po’ di successo, principalmente perché siamo state capaci di rinforzare le capacità delle donne leader di esporre il valore del movimento proprio dal suo inizio. Ciò ci ha permesso di organizzarci con le donne coinvolte a livello di base e ora abbiamo una piattaforma di circa 100 associazioni locali.

Lavoriamo anche con i media, giornali e radio, per diffondere il nostro messaggio. Sebbene il movimento sia stato creato dalle donne ci siamo espanse e abbiamo incluso uomini, gioventù, politici e altre persone che credono nel nostro lavoro. Oggi abbiamo una fattoria modello diretta da donne rurali e un negozio dove vendiamo i nostri prodotti. Sta tutto nel trasformare le parole in azione.

Facciamo molto a livello locale, ma crediamo sempre di più che sia cruciale avere anche reti a livello internazionale, per dare maggiore visibilità al movimento. Questa può essere una risorsa potente per il nostro attivismo.

Quale ritieni essere la sfida maggiore che avete davanti?

Le donne sono le persone chiave, ma il loro lavoro non è compreso e neppure compensato. Perciò, questo è il motivo per cui dobbiamo continuare a costruire l’abilità delle donne di comunicare le nostre opinioni e di entrare in relazione con altri, di modo che sappiamo che cosa stiamo chiedendo e cosa dobbiamo fare.

Quale azione diresti essenziale per l’attivismo?

E’ essenziale essere collegati con altri movimenti in altri paesi, per sapere meglio cosa stanno difendendo e per cosa stanno lavorando e vedere come i legami d’alleanza possono essere più forti. Non possiamo limitarci a quel che facciamo noi. Dobbiamo conoscere cosa altri fanno per ricevere o dare lezioni che ci conducano a uno sviluppo più armonioso.

Cosa significa la parola “femminismo” per te?

Femminismo significa semplicemente giustizia sociale nella nostra comunità. L’ingiustizia verso le donne è stata presente sin dai giorni dei nostri antenati. Il femminismo corregge questa ingiustizia a livello locale, nazionale e internazionale. E questo è ciò che ci sprona a essere e lavorare nel movimento femminista globale, il tentare davvero di risolvere questa ingiustizia, di dare valore al ruolo che le donne svolgono e al loro posto nella nostra comunità.

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majandra-rodriguez-acha

“Prendete la città di Puno, in Perù, ove abitano tribù indigene Aymara e Quechua. – spiega Majandra Rodriguez Acha (in immagine) – Usualmente gli inverni sono pesanti in quel luogo e stanno diventando sempre peggiori e anticipati a causa del cambiamento climatico. La mortalità materna è del 45% più alta della media del paese e in parte dovuta a questo freddo intenso. Sono le donne rurali impoverite e i loro bambini che soffrono di più, ma quel che si fa per loro è mandare in dono coperte ogni anno: chiaramente la loro situazione non è prioritaria per il governo.”

Per Majandra i danni provocati all’ambiente sono divenuti prioritari nel 2009, quando giungle e foreste furono invase dalle compagnie petrolifere causando lo spostamento forzato e assai violento di migliaia di persone indigene. Indignata da ciò che vedeva in televisione, andò a prendersi la prima dose di gas lacrimogeno in una manifestazione di protesta, mentre ripeteva lo slogan “La selva no se viende, la selva se difende” – “La giungla non si vende, la giungla va difesa”: aveva allora 19 anni e subito dopo fondò “TierrActiva Perù”, la propria organizzazione di attivisti.

Majandra è oggi consigliera di due gruppi internazionali che lavorano esplicitamente per contrastare il cambiamento climatico e le operazioni che lo favoriscono, “Global Greengrants’ Next Generation Climate Board” e “Women’s Environment and Development Organization”: in quest’ultimo il suo “titolo” è Giovane Femminista per la Giustizia Climatica.

Come lavora in tal campo una giovane femminista? “Ascoltando. Io sono un megafono per voci storicamente soffocate. Credo che le vere esperte delle situazioni siano le persone che le vivono. Nei miei seminari non mi porto dietro presentazioni e non tengo conferenze, mi porto dietro grandi fogli di carta bianca e matite, di modo che chi partecipa possa narrare la propria storia e lasciarne traccia.”

TierrActiva va direttamente nelle aree minacciate o devastate, decentralizza l’organizzazione delle azioni e usa per esse tutti i mezzi e i media a portata di mano: la Mobilitazione per i diritti della Madre Terra nacque dall’allestimento di una radio comunitaria, da laboratori tenuti dalle persone coinvolte a livello locale e dalla costruzione di centinaia e centinaia di enormi pupazzi che poi furono portati in manifestazione con clamoroso effetto visivo. Incontrare le persone sul loro territorio fornisce l’esatta percezione di cosa sta accadendo: chi vive nelle montagne sta affrontando le conseguenze dello scioglimento dei ghiacciai (riduzione della pioggia o scomparsa del suo ciclo), mentre chi vive presso o nelle foreste le vede distrutte da fuochi alimentati dalla siccità.

Majandra dice che far venire alla luce queste narrazioni è critico per parlare di cambiamento climatico: “Non si tratta di tabelle e numeri. Si tratta delle strutture di potere che sfruttano le risorse, danneggiando gli esseri viventi durante il processo.” Un’altra cosa che vede molto chiaramente è la connessione fra il degrado dell’ambiente e le donne: in Perù, dice, questo è particolarmente vero, giacché le donne sono in pratica assenti dai luoghi decisionali e nella sfera politica e tuttavia, la maggioranza delle persone che praticano agricoltura di sussistenza e subiscono i danni del cambiamento climatico sono donne.

La violenza contro la Terra, spiega Majandra, è simile alla violenza sessuale. “Il linguaggio usato è lo stesso, è quello che descrive lo stupro. I modi violenti in cui si estraggono le risorse, si saccheggiano le foreste, si inquinano i corsi d’acqua, hanno forti somiglianze con i modi in cui non si rispettano le donne. Pensano di stuprare la Madre Terra e di farla franca.” Majandra intende mettersi di mezzo. E’ quello che dovremmo fare tutte e tutti.

Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “My mother raised me a feminist”, un più ampio articolo di Edinah Masanga per World Pulse, 9 agosto 2016, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Edinah – in immagine – è giornalista, attivista per i diritti delle donne nonché fondatrice e presidente dell’ong “Women Empowerment Foundation Scribes”.)

Edinah Masanga

Io sono una femminista che è stata cresciuta da femminista senza saperlo, in un piccolo e povero villaggio rurale distante circa 120 km. da Harare nello Zimbabwe. Tutti si conoscevano e le tradizionali norme culturali erano messe in pratica esattamente nello stesso modo da decenni, come se facessimo le prove a teatro.

Io sono la quarta figlia in una famiglia che ha quattro maschi e due femmine. Sono arrivata subito dopo l’ultimo fratello, l’ingegnere aeronautico Simbarashe Masanga che a scuola era un genio. Si impegnava ed era intelligente, ma io pure.

Gli altri lo chiamavano “Dottor Masanga” (dalla maggioranza dei ragazzi svegli ci si aspettava diventassero dottori in medicina) ma salutavano me come “cognata” e “nuora”. Era chiaro sin dall’inizio che io venivo cresciuta per il matrimonio e lui per la vita professionale. Non da qualcuno in particolare, dal sistema nel suo complesso.

Non sono mai stata notata per le mie capacità negli studi ma presa di mira per il mio corpo sì. Ho seni grandi e i miei genitori non potevano permettersi di comprarmi un reggiseno, perciò non ne ho mai indossato uno durante tutta l’adolescenza e i seni hanno cominciato a pendere un po’ quando avevo 15 anni. Così per il villaggio diventai una “puttana” perché i seni pendenti dovevano significare che qualcuno si sdraiava spesso sopra di me. Nessuno pensò al fatto che mi mancava il reggiseno (odio i reggiseni a tutt’oggi).

La nostra sussistenza, come famiglia rurale povera, dipendeva dal lavorare la terra e il fatto che i miei genitori fossero da soli nei campi confondeva la gente. Era consuetudine che le bambine dessero una mano a lavorare la terra mentre i bambini portavano al pascolo il bestiame, ma io non ho mai messo piede nei campi. Per la maggior parte del tempo ero dentro casa con i miei libri.

La gente del mio villaggio non riusciva a capirlo e si lamentava con mia madre perché, secondo loro, stava crescendo una ragazza pigra. “Chi mai vorrà sposarla se non sa neppure cucinare e pulire?”, le dicevano. Spesso la conversazione di mia madre con altre donne del villaggio concerneva il difendere me e la mia “pigrizia”. Loro non ne sapevano niente, ma mia madre mi stava incoraggiando a perseguire istruzione e indipendenza economica, piuttosto che il matrimonio. “Il matrimonio non è uno scopo, è una scelta, ma l’indipendenza economica è la tua vita.”, mi ripeteva continuamente. Non mitigava i termini e mi diceva che avevo bisogno di soldi per vivere, non di essere brava nelle faccende di casa: “Per cucinare, devi avere cibo.”.

Mio fratello, il genio, non svolgeva alcuna faccenda domestica ed era lodato anziché criticato per questo. Nessuno suggeriva che la sua vita sarebbe finita male a causa della “pigrizia” – forse perché il sistema stava crescendo “domestiche” per lui. C’era la doppia aspettativa, per me, che io fossi brillante e una brava donna di casa. Io ero brillante, ma non ho mai avuto riconoscimento per ciò, solo critiche alla mia “pigrizia”.

Mi era anche richiesto di essere bella e di mantenere fermi i miei seni anche senza reggiseno. Dovevo preservare la mia immagine come ragazza decente, una che fosse buon materiale da matrimonio. Si dava per scontato che io fossi cresciuta per servire gli uomini in un mondo di uomini.

Io piangevo quando le vecchie mi pizzicavano i seni per controllare se stavano diventando più soffici (essendo quella la “prova” che gli uomini si sdraiavano spesso su di me) ma mia madre, femminista inconsapevole, mi consolava e mi ricordava che la cosa migliore non era essere una vergine ma una donna con una professione e un mezzo di trasporto proprio. Ad ogni modo io non avevo avuto rapporti sessuali, ma non sapevo come difendere me stessa, i miei seni ciondolavano a causa del loro stesso peso.

Non potevo difendere il mio corpo dagli standard che erano stati fissati secoli prima della mia nascita. Non potevo difendere la mia brama di istruzione in un mondo in cui le ragazze erano cresciute per diventare buone mogli. Non potevo difendere la mia incapacità di lavorare nei campi nei periodi in cui non ero a scuola. Una cosa era chiara: le ragazze erano addestrate a essere serve e mogli, i ragazzi a essere i padroni di casa, dottori, ingegneri eccetera.

Devo dire che mio fratello notò tutto: le critiche, lo svergognamento, i giudizi che dovevo affrontare ogni giorno. Cominciò a difendermi. Diceva alle persone di notare e valutare chi io ero. Quando qualcuno criticava me perché ero pigra e lodava lui perché era un genio, lui rispondeva: “Ma io non sono migliore di Eddie.” Nonostante lui difendesse il mio essere brillante negli studi ciò non era abbastanza. Dovevo essere una potenziale brava moglie per un uomo. Perciò il ritornello cambiò da “E’ pigra.” a “Speriamo che trovi un marito a cui piaccia l’idea di una moglie che va al lavoro.”

Perciò, ora mi era permesso eccellere negli studi, ma non avere ambizione. Qualsiasi cosa volessi fare, dovevo prendere prima in considerazione le necessità degli uomini. Le mie decisioni, il mio corpo, dovevano piacere agli uomini, altrimenti io ero un fallimento.

Mia madre, la femminista inconsapevole, diceva delle donne del villaggio: “Certo, sono perbene e sgobbano duramente, ma cosa possiedono che appartenga loro? Vuoi somigliare a loro, avere dieci figli, camminare scalza e lavorare nei campi per l’intera tua vita?” La parole di mia madre mi aprirono gli occhi. Mi hanno ispirato a volere di più dalla vita. Mi hanno fatto sapere che quel che c’era intorno a me, ragazze che abbandonavano la scuola per sposarsi e avere figli in giovane età, non era tutto quel che c’era.

Le sue parole mi hanno fatto capire questo: ciò che le persone accettano come “normale” ed etichettano come “buono” non equivalgono sempre a cose giuste.

Ogni giorno, mia madre mi sussurrava parole che mi rinforzavano come donna. Non immaginava di star crescendo una femminista, di esserlo lei stessa. Lei era la madre di cui ogni ragazza ha bisogno e lo è ancora. Mi ha sostenuto e aiutato a volere di più. Io non ho sprecato gli insegnamenti di mia madre.

Sono uscita dal liceo come la miglior studente anche se avevo perso più lezioni degli altri perché non potevamo pagare le rette. Sono riuscita a lasciare il villaggio e a diventare una giornalista di successo e una nota attivista per i diritti delle donne nello Zimbabwe.

Sono passata dall’essere scalza, senza mutande e affamata all’essere ben nutrita. Enfatizzo il cibo perché i ricordi più traumatici della mia infanzia riguardano l’andare a letto avendo fame. Ma in quei ricordi affamati e dolorosi c’è pure la voce di mia madre che mi esorta a essere forte. A essere una femminista.

Ora vivo in Svezia, mi guardo indietro ogni giorno e mi sento privilegiata a essere qui, intendendo “qui” come livello del mio potere, non come posto. Ho una voce. Ho una vita. Ho un futuro. Ma non sono cieca al fatto che ciò è accaduto per le parole di indipendenza e fierezza che mia madre mormorava al mio orecchio. Il suo costante ricordarmi che se non avessi raggiunto l’autonomia economicamente avrei dovuto dipendere da uomo per tutta la mia esistenza, che avrei saputo cucinare bene e pulire bene ma non avrei avuto cibo da cuocere o casa da pulire, ha dato forma alla mia vita.

La sua voce mi ha portato, soggettivamente, “al massimo”: nel mio caso l’avere quattro mura, elettricità, cibo, vestiti, mutande e l’aver costruito una casa per i miei genitori in una cittadina urbanizzata è il massimo che sognavo mentre vivevo nella colante capanna di fango di mia madre.

Tutto perché la mamma, la femminista inconsapevole, mi ha cresciuta dicendomi di credere in me stessa e di essere me stessa. Ha cresciuto una femminista.

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(“Patriarchy Is an Institution to Be Outlawed”, di Kamla Bhasin per Isis International, gennaio 2014. Kamla Bhasin, femminista, economista, sociologa, scrittrice, poeta e compositrice, è nata nel 1946 a Rajasthan, in India. Fa parte della “Rete di attiviste e trainer sul genere dell’Asia del sud” – SANGAT. Trad. e note Maria G. Di Rienzo.)

Kamla

All’inizio di dicembre 2013, ricevetti una chiamata da Swaraj, una vasta rete di donne in Karnataka che lottano contro la violenza e tutte le forme di discriminazione contro le donne. Mi invitavano per felicitare sei donne rurali che avevano sfidato l’oppressione delle vedove nelle loro famiglie e villaggi. Mi chiesero di parlare del patriarcato come superstizione. Fui divertita da questa definizione e chiesi perchè sceglievano un soggetto simile. Mi dissero che il governo di Karnataka pianificava di emanare una nuova legge contro la superstizione, e loro volevano che il patriarcato fosse dichiarato superstizione e messo fuori legge. Ho sorriso di cuore e mi sono detta: WOW. Che grande idea!

Una volta di più, sono stata meravigliata dalla saggezza delle donne rurali della classe lavoratrice. Mi sono chiesta perchè, nonostante tale saggezza mostrata dalle donne lavoratrici ruali, così tanti che si occupano di media pensano al femminismo come ad un fenomeno urbano.

Mentre cominciavo a riflettere sull’argomento, ero già convinta che il patriarcato non sia altro che una superstizione, senza fondamenti nella realtà o nelle leggi di natura. In effetti, così tanti altri sistemi creati dall’uomo, come le caste e il razzismo, non sono altro che superstizioni. La parola per “superstizione”, in Hindi, è “Andh Vishwas”, credenza cieca. La superstizione è qualcosa che non ha basi. E’ illogica. Non ha radici nelle leggi naturali. Pure, le superstizioni possono essere potenti come il patriarcato o il sistema delle caste, nonostante la natura distruttiva di queste credenze cieche. E’ anche visibile che quando si ripetono bugie ad oltranza esse finiscono per diventare la “verità”.

Per milioni di anni donne e uomini sono vissuti insieme come eguali. A causa dei loro speciali poteri nel portare nuova vita, donne e natura sono state onorate in tutto il mondo. Poi, alcune migliaia di anni fa, quando gli umani svilupparono proprietà privata e armi per controllare la natura, gli animali ed altri esseri umani, l’uomo creò i sistemi detti classe, casta e patriarcato. Dall’eguaglianza gli esseri umani si spostarono ad ogni tipo di diseguaglianza e gerarchia, principalmente a causa dello sviluppo della proprietà privata.

Diamo un’occhiata al patriarcato più da vicino. Le religioni successive crearono ogni sorta di credenze superstiziose, come Eva nata dalla costola di Adamo, i Brahmini nati dalla testa di Brahma, ecc. Le leggi naturali furono messe nelle teste degli uomini: costoro, incapaci di creare dai loro corpi, furono dichiarati i Creatori, i capi delle famiglie, gli eredi delle proprietà private e dei nomi di famiglia. L’Induismo dice che solo i figli maschi possono compiere i riti funebri. Il Jainismo dice che solo i maschi possono raggiungere il Nirvana. Una bugia dopo l’altra, ripetute per secoli. E proprio perchè sono menzogne, hanno dovuto essere ripetute giornalmente tramite rituali come karwa chauth (1), mundan (2) per i ragazzi, kanya daan (3), il padre che dà via la sposa fra i cristiani, quattro matrimoni e più proprietà per gli uomini nell’Islam, e potrei andare avanti all’infinito.

Riguardo al potere che questi rituali hanno, persino io non mi sono mai lavata i capelli di giovedì sino a quando ho avuto 24 anni. Nella nostra comunità Punjabi, il giovedì è chiamato “Veervaar”, o “Giorno del fratello”. Ci era stato detto che se le sorelle si lavavano la testa in questo giorno, qualcosa di brutto sarebbe accaduto ai loro fratelli. Poichè io amavo i miei fratelli, seguii la superstizione sino a che spuntò per me l’alba del femminismo. Naturalmente, non c’è mai stato un giorno in cui i miei fratelli non dovessero lavarsi i capelli per amor mio.

Penso sia venuto il momento, per noi e i nostri leader, di riflettere e decidere se crediamo nella Costituzione o nella superstizione del patriarcato e della casta. Non possiamo credere a queste cose contemporaneamente. Perciò, è davvero ora di rimuovere tali superstizioni dai nostri personali sistemi di fede, dalle nostre famiglie e comunità, e di dichiararle illegali. Se accettiamo e rispettiamo la Costituzione indiana, allora le parole che indicano il “marito” nei differenti linguaggi indiani e significano “controllore”, “capo”, “domatore”, “addomesticatore”, dovrebbero essere illegali e abbandonate. Pratiche come il kanya daan dovrebbero essere illegali e abbandonate. Sino a che non compiamo queste cose nelle nostre vite personali, la Costituzione non può essere implementata. Questo è il motivo per cui noi femministe diciamo che il personale è politico.

(1) Rituale in cui le donne sposate digiunano dall’alba al sorgere della luna per la salvezza e la longevità dei loro mariti. Diverse attività sono tabù durante questo periodo, come tessere, implorare qualcuno, o svegliare qualcuno.

(2) Cerimonia in cui i capelli di un bambino sono tagliati – a zero o quasi – per la prima volta, di solito prima del terzo compleanno. La cerimonia è fatta per propiziare la longevità ed è effettivamente prescritta in senso religioso solo per i figli maschi, per quanto in anni recenti in alcune zone sia diventata pratica comune anche per le figlie femmine.

(3) Rituale in cui una figlia vergine è data dal padre al futuro marito, che lei deve vedere come un’incarnazione del dio Vishnu. Pertanto l’offerta di una figlia come dono a un “dio”, oltre ad apportare alla famiglia grande onore, monda i suoi membri di ogni peccato.

Di Kamla Bhasin potete leggere anche:

https://lunanuvola.wordpress.com/2010/09/13/perche-sono-una-ragazza/

https://lunanuvola.wordpress.com/2010/07/16/lultima-colonia/

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